L’uscita più importante di questo inizio stagione è nella musica classica, ed è l’ultima fatica del grande pianista russo-tedesco Igor Levit, dedicata ai 24 preludi e fughe di Shostakovich. Levit è uno degli artisti politicamente più impegnati della scena internazionale, uno che è stato capace di far precedere il suo concerto a Bruxelles dall’appello a non votare Trump, che ha scagliato anatemi contro neonazismo, antisemitismo e Brexit, attirandosi minacce di morte, o che ha infilato in coda alle Variazioni Goldberg e Diabelli quello strano oggetto delle Variazioni composte da Rzewski su El pueblo Unido Jamas Serà Vencido degli Inti Illimani. La sua propensione verso l’esterno si è potuta misurare dalla generosità con cui si è offerto in streaming durante il lockdown, spingendosi sino all’interpretazione della musica più lunga mai composta, le sedici ore delle 840 variazioni Vexation (da ripetere due volte), scritte da Satie, che nonostante la muscolarità richiesta anche all’ascoltatore, hanno ricevuto 200.000 visualizzazioni. In termini strettamente musicali, al trentatreenne pianista si devono le migliori incisioni negli ultimi trent’anni delle trentadue sonate di Beethoven e delle partite di Bach. La maratona su Shostakovich mi è parsa un poco più lontana dai modelli di eccellenza (per dire, timbricamente molto più povera della versione di Askhenazy; ma pure meno emozionante dell’imprevedibile versione di Keith Jarrett), e però è imperdibile la seconda parte – fiore all’occhiello del disco, la scoperta della bellissima Passacaglia DSCH, le trecento variazioni (vai con altri 85 minuti) che il compositore Ronald Stevenson ricavò dall’acronimo che lo stesso autore russo si attribuì, facendolo coincidere con un crittogramma musicale i cui elementi nella notazione tedesca sono re, mi bemolle, do e si. Mi è parso che Levit sia riuscito a immergersi più profondamente in queste, rimanendo un po’ più ingabbiato intellettualmente nei Preludi e Fughe (che comunque sono un bel sentire, anche nella sua versione).
L’uscita più mediaticamente significativa, però, è quella di Kanye West. O forse dovremmo dire la più attesa in senso letterale, visto che ogni tanto veniva fuori che doveva spuntare a una certa mezzanotte di un certo giorno, per poi lasciare a bocca asciutta i fan – che però se sono fan di Kanye fino in fondo apprezzano anche il suo fool-marketing, pencolante tra la spontaneità paranoica e la creatività promozionale. Beh, almeno è valsa la pena attendere, visto che si tratta del disco più completo e avvincente da dieci anni a questa parte prodotto da West. Non dico il più organico, e sarebbe stato impossibile, trattandosi di ventisei brani variamente affidati a un all star game, che comprende persino socialmente impresentabili (Marylin Manson) o vecchi nemici, tipo Jay-Z (ma a noi che non ci appassioniamo a queste sfide ordaliche del rap frega poco), con l’inevitabile frammentazione che la personalità di ciascun ospite determina – ma Kanye non vuole affatto evitarla, e anzi pensa il brano per sposarlo col co-interprete, o lo ripensa quando si è trattato di cambiarlo per fare spazio a The Weeknd (però il guest più bravo si rivela Vory). Eppure c’è un forte elemento aggregante, è molto semplice e deriva dal fatto che la profonda diversità di West dipende dalla sua scioltezza nel contaminare il rap con il genere musicale che in quel momento lo stuzzica di più, e stavolta si tratta del gospel. Insomma, la sua produzione trova sempre la via per uscire dalle strettoie del genere, e programmaticamente poi l’open track che dà il titolo al testo non c’entra niente, né col rap né col gospel, ma è la proiezione percussiva e sonora del cuore di sua madre quando stava per cessare di battere, con sopra ripetuta la parola “Donda, come sua madre si chiamava. E da lì parte un florilegio dentro il quale prediligo “Come to Life” e “Moon”. È migliorato perfino vocalmente (mai la sua specialità), quel demonio.
Billie Eilish se ne sta sulla copertina del suo secondo album “Happie then ever” che pare uscita da The Others, svelata anche fotograficamente nell’introversione svogliata che connota la sua voce d’attacco, una versione femminile di Devendra Banhart, e che pure appena sguscia anche un solo hertz di lato scatena una personalità sonora debordante. La copertina allude al body shaming, che è uno dei temi del disco, il cui universale è la fatica post-adolescenziale di accettarsi e il cui particolare è la fatica di essere una celebrità, una crisi di fama, che detto così pare pensiero ozioso e odioso come “Ah, beati quelli che non c’hanno niente!” ma qui è condotto con grazia, misura, autenticità ed egocentrismo limitato, è un romanzo di formazione, una prova di maturità mostruosa al secondo disco di un’artista diciannovenne che pare oggi quella più in grado di rinnovare e irrobustire i canoni del pop. Di fronte a questa ingordigia di pezzi (sedici), scritti col fratello Finneas, suona già vecchio e sorpassato l’esordio (e quando rispunta in Oxytocin è quasi decontestualizzato), del quale vengono ridimensionati i bassi e le pulsazioni; l’electro-hop sottostante è ipnotico, gentile e discretamente frastagliato, e di autotune c’è il giusto. Un filo monocorde, fa effetto pensare che al confronto ora Lana del Rey pare un’invasata, ma con più ascolti si impara a separare ed ancor più apprezzare (ad esempio Everybody Dies; ma la fusion insolita di Godwin, per giunta colta e citazionista, afferra all’istante).
Volete qualcosa nella classica, di facile ascolto e potentemente struggente e affettivo, che vale però assai più dell’immediatezza con cui vi inchioda all’ascolto? Il tedesco Max Richter è un altro musicista attento alle questioni sociali e desideroso di imporle all’attenzione. Così ad esempio per la composizione Exiles che prese spunto da una strage di migranti nel Mediterraneo e costituisce il cuore di questa piccola raccolta retrospettiva. Ma i temi della violenza o della fuga sono spunti astratti, giusto un suggerimento di percorso per questo minimalismo neoclassico, nell’insieme più prossimo ad Arvo Part e a Kancheli che a Philip Glass e che trova la sua naturale espressione negli archi e il suo tempo nella ripetizione e la lentezza. Dentro l’elettronica, melodiosa tonalità di Richter spesso si cela più sperimentazione di quanto appare, e che sgorga naturale perché lui ha una formazione variegata, che lo porta con leggerezza a spostare i confini. Vale la pena di ricordare “Songs for before” inciso con Wyatt che leggeva testi di Murakami o la ricomposizione decostruita delle Quattro Stagioni di Vivaldi. Ed è un altro stakanovista dello streaming, come dimostra la “ninna nanna di otto ore” per archi, pianoforte, elettronica e voce senza parole visualizzata vari di milioni di volte.
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