Liberi di dire quello che si pensa?

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Il campo linguistico, tra Vannacci e il politicamente corretto

Ma insomma, uno sarà pure padrone di dire quello che pensa! Negli ultimi tempi questa frase, nel dibattito pubblico, viene pronunciata sempre più spesso. E con apparente rovesciamento dei ruoli, paladina del principio della libertà di manifestazione del pensiero si presentaper lo più la destra politica. In Italia i recenti casi estivi, Giambruno e soprattutto Vannacci, non hanno ancora disperso le ceneri del fuoco attizzato.

Esiste dunque una gradazione di atteggiamenti che da questi esternatori radicali si allunga fino al polo opposto del più rigoroso politicamente corretto che circoscrive fortemente l’area del dicibile. Entrerò più avanti nel merito del caso Vannacci, e anche del politicamente corretto: mi preme però partire più da lontano. Davvero le comuni regole sociali implicano che ciascuno sia libero di dire quello che crede? Davvero nella sfera pubblica di una società liberale la Costituzione considera assoluta la manifestazione del pensiero? Altro problema spinoso: può il problema diventare non solo che una persona dica qualcosa ma che lo pensi? In ogni caso, la vera domanda da porsi non è quella demagogicamente incompleta (si può dire quel che si pensa?) ma più esattamente: si può dire quel che si pensa senza prendersene la responsabilità e assumersene le conseguenze?

“Sai che tuo marito è proprio uno strafigo, me lo porterei proprio a letto!”. Pure se l’unione fosse una di quelle in cui il piacere di esibire il partner riveste un ruolo rilevante, e nonostante si tratti di un complimento, sarebbe ben contrariata la destinataria di questa frase, a meno che non venga detta in un contesto cameratesco da una persona che, per via del rapporto, se lo può permettere. Che cosa ne penserebbero gli altri ospiti della festa in cui viene pronunciata? Si domanderebbero dov’è il problema, visto che chi ha parlato si è limitato a dire quello che pensa? Sappiamo bene che, nella realtà, esprimere senza freni il proprio pensiero non è una regola ma l’eccezione. Anche se costituisse la verità, e anzi a maggior ragione (pure nell’esempio appena fatto). Nelle gare di free-style i rapper si sfidano a suon di insulti ma il motivo per cui gli epiteti non risultano offensivi, pure quando dileggiano pesantemente le reciproche madri, è che sono del tutto irrealistici. Se uno dei competitor avesse veramente abusato della madre dell’altro e glielo dicesse nella gara, quello gli taglierebbe la gola.

Come ho scritto nel mio libro “Offendersi”, per dire la verità ci deve essere una ragione valida: fermare uno sconosciuto per strada per dirgli che è sovrappeso sarebbe un’assurdità. Allo stesso modo, esternare minuto per minuto tutte le proprie impressioni sul luogo di lavoro (che lo si diriga o vi si operi come sottoposto) è una strategia minatoria. Più in generale, in quello che Norbert Elias descrive come “processo di civilizzazione” non rientra solo il controllo sui rutti o le flatulenze ma pure una certa inibizione linguistica (non foss’altro perché la sua totale disinibizione non è tanto dissimile dai rutti e dalle flatulenze).  Non intendo perorare la causa della menzogna o dell’ipocrisia, anzi l’essere personalmente un fautore e un praticante del parlare diretto mi rende spesso insofferente negli svariati contesti in cui una simile inclinazione mentale pare una stravaganza (per dire, nella città dove vivo, Torino, le persone non si segnalano mediamente per questa caratteristica). Ma esiste quello che definirei un certo campo linguistico, specifico per ogni relazione oppure audience: un insieme di forme e contenuti che i messaggi non dovrebbero oltrepassare per rimanere nelle regole implicite.

Capire che “intendo rivolgere alla sua attenzione” non è il modo esatto per introdurre la richiesta della paghetta mensile al genitore, e “tieni vecchio” non la formula appropriato per porgere il biglietto al controllore in treno è un’attitudine formata dalla cultura: viene definita competenza pragmatica, ed è dunque la capacità di agire verbalmente in modo coerente con il contesto. Il campo linguistico, oltre alla competenza pragmatica, include la capacità di comprendere quel che si può e quello che non si può dire: si può tuttavia decidere di dire quel che non si potrebbe, purché si abbia la consapevolezza che si tratta della rottura di un patto tacito che conduce a delle conseguenze. Se il parlante le ha valutate esattamente, potrebbero anche essere positive: significa che era necessario forzare il campo per ripristinare il suo equilibrio (come in una lite insultante ma catartica fra persone con un legame affettivo) oppure per allargarlo. In un avvicinamento a fini di seduzione, il disinteresse verso alcuni dettagli di forma e un’inesatta percezione delle vibrazioni emotive falliscono l’ingresso nel campo linguistico di una maggiore intimità e rischiano di virare in una molestia sessista.

Quando uno dice quello che pensa (o anche quello che non pensa, ma lo dice in un impeto d’ira o per dispetto, o persino per gioco) a un’audience dentro uno spazio pubblico, i vincoli diventano più ristretti: se da una parte vige il principio costituzionale della libera manifestazione del pensiero, dall’altra esso va bilanciato con altri diritti costituzionalmente protetti (e dei quali anche i più scatenati esternatori si ricordano quando sono i bersagli e non quelli che tirano le frecce), come la tutela della dignità della persona. Ancora più rigido è lo spazio di manovra per chi esercita una funzione pubblica o riveste una carica istituzionale. Potremmo dire che in una democrazia (contrariamente ai regimi autoritari) il campo linguistico di chi detiene un potere, o è inserito in un’organizzazione pubblica, è più ristretto di quello di una persona comune. Partendo dal basso, un soldato semplice che dichiarasse in un’intervista che secondo lui i generali dell’esercito sono tutti omofobi, perché in realtà si tratta di omosessuali repressi e questo li induce a istinti sadici, sarebbe certamente passibile di procedimento disciplinare. Come abbiamo visto, la regola non è che il generale potrebbe permettersi una libera espressione più vasta perché è un superiore (ha solo maggiori facoltà dentro il campo linguistico che condivide con il soldato, e quindi può dirgli “e adesso mettiti sull’attenti!”, mentre il soldato a lui no): vale l’esatto contrario.

La questione dello spazio pubblico e del ruolo istituzionale è, in termini di principio, la parte più convincente del politicamente corretto: quest’ultimo alla fin fine non è altro che il richiamo a quello che abbiamo appena detto – il campo linguistico della figura pubblica o che incarna un’autorità è più rigidamente normato di quello della persona comune – aggiornato con dei criteri di non discriminazione che mirano a rendere la società più aperta, tollerante e inclusiva. Che poi la sua applicazione stia avvenendo all’ingrosso (e certe volte oltre la soglia del ridicolo) è un altro discorso, in parte giustificabile con il fatto che quando sono in corso negoziati sociali per la ridistribuzione del potere tra i gruppi (di questo si tratta) ci va un attimo, e anche più di un attimo, per trovare un punto di equilibrio sano. Tra gli eccessi, segnalo l’estrapolazione di discorsi privati, magari avvenuti in contesti camerateschi con un loro specifico campo linguistico (i social, al riguardo, sono una brutta bestia, un terreno ambiguo) per farne un atto di accusa nello spazio pubblico. Al contrario, alcune forme di cancel culture, come quella del boicottaggio, dovrebbero essere accettate dai fautori della libera manifestazione di pensiero per quello che sono: pari manifestazioni di libero pensiero consistenti in “secondo me, questo qui dovreste boicottarlo”. Infine, è diventata fastidioso, quasi un tic linguistico, il comune vizio di censurare qualsiasi affermazione discutibile del detentore di una carica non con una critica articolata ma con il sintetico “si deve dimettere!”, come se non fosse ammessa la fallibilità. Quasi sempre un attacco di questo tipo (che è per lo più un problema di politica interna, non certo di cancel culture) indica demagogica malafede dall’accusante. Quasi sempre. Poi, ovvio, ci sono dei casi in cui se quello non si dimette, è necessario rimuoverlo.

Arriviamo così al caso del generale Vannacci. In quello che ormai è un best-seller (come mai sarebbe stato se fosse consistito nell’ordinato e serio argomentare di un generale su questioni militari) sono contenute opinioni retrive e generali sul “mondo a rovescio”, e quelle francamente sono affari suoi e dei suoi lettori. Altre però vanno a incidere direttamente con la funzione, e il problema è doppio: che le abbia dette ma anche che le pensi. Per quel che riguarda il dire, la nocività consiste nel fatto che le parole sono azioni (come scriveva Austin, con le parole si fanno cose), e se non producono effetti direttamente sono in grado di produrli in secondo grado, convincendo altri a trasformarle in atti puri e semplici. Se i comandi non l’avessero sconfessato, qualsiasi ufficiale si sentirebbe legittimato a rimettere in riga gli italiani meno italiani per via della pelle (si deve essere veramente ignoranti per affermare una cosa del genere), le donne che ambiscono a entrare nell’arma invece che stare a fare la calza e quei gay che oltre a non essere normali sono pure privilegiati. Facile dedurne che un problema di inattitudine al ruolo sia determinato anche dal pensarle. Non è libero di pensarle? No, non in quel ruolo, così come un simpatizzante della lotta armata non potrebbe guidare il ministero dell’interno e un teorico della tortura non essere a capo di un corpo di polizia. Come cittadini diranno quello che gli pare, e se vogliono cambiare la società dove vivono combatteranno una battaglia politica o all’estremo diventeranno dei terroristi: si prenderanno le conseguenze delle loro parole come delle loro azioni, così come sempre dovrebbe essere. Non mi pare tanto difficile da capire.

Il dato più sconcertante, nel caso Vannacci, e che tra le conseguenze delle sue azioni c’è stata un’inusitata popolarità: e un’esplosione editoriale che toglie, forse per sempre, quel poco di credibilità che ancora possedeva quel mercato. Non mi pare un buon segno sotto nessun profilo. Ma che cosa ci suggerisce questo fenomeno? Se andiamo a grattare, probabilmente una diffusa insicurezza di fronte ai cambiamenti, un senso di frustrazione, un degrado culturale. Ma se vogliamo fermarci alla superficie, l’insegnamento (in verità, non da oggi) è che in questo momento quel che attira il pubblico è essere contro: contro chi capita sotto, la scienza, lo stato, la logica, i ricchi, i poveri, la cultura. Contro, non importa contro cosa. Persino chi è stato al governo, Trump per tutti, fonda il suo consenso sul mostrarsi contro. Tra questi finti eroi che “dicono quello che pensano”, ci sono dunque molti imbroglioni. Ma in verità anche qualcuno che dice davvero quello che pensa, e che però pensa sempre quello che gli conviene.

Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.

Quanto siamo ripetitivi

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2024-06-28T16:31:08+01:008 Settembre 2023|10, Articoli recenti 2, Limite di velocità|

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