Devo avvertire chi mi conosce che questo non è un articolo tecnico sulle successioni, anche se alla fine dirò alcune cose che hanno a che fare con il diritto, per com’è e come potrebbe essere. Anche in quel momento, tuttavia, al centro non ci saranno considerazioni principalmente patrimoniali.
Infatti, ereditare e istituire eredi, prima che snodi del codice civile, sono vicende spogliamente umane che impegnano sino allo stremo la psiche delle persone.
Assai di rado un romanzo le aveva scandagliate con tanta precisione come accade in Eredità della norvegese Vigdis Hjorth. La dottrina giuridica indica nell’eredità la continuazione della personalità patrimoniale del defunto. Il romanzo della Hjorth è uno spaccato di come essa sia frequentemente la continuazione delle liti familiari con altri mezzi (liti che, dopo la morte di chi lascia l’eredità, non riguardano solo i superstiti; le lame si incrociano anche con lo spettro del defunto).
La storia parte da un topos della casistica successoria, la donazione di un bene solo ad alcuni dei figli: che qui sono in tutto quattro. I “danneggiati” sono il figlio maschio e Bergljot, la donna che costituisce l’io narrante; le beneficiarie le altre due sorelle, e la pietra dello scandalo è la valutazione economica irrealmente bassa assegnata alle case donate, dalla quale conseguirebbe il trattamento economico diseguale. Il figlio, peraltro, invece della compensazione economica preferirebbe l’assegnazione di quella casa al mare, e così scrive ai genitori: Vi chiedo gentilmente di ripensarci. Significa molto per me e per i miei figli possedere la metà di una delle case, quando un giorno non ci sarete più. Per tutto il romanzo la presenza dei nipoti viene strumentalizzata per ricattare moralmente o accentuare l’antagonismo competitivo dei fratelli rispetto all’affetto dei genitori. Bergljot da tempo ha rotto i ponti con la famiglia, salvo la sorella che con lei più ha conservato i contatti e che un giorno le aveva scritto che sperava di festeggiare il Natale come una famiglia normale. A Bergljot quella normalità è preclusa, perché un fatto terribile occorso fra lei e il padre ha distrutto la sua infanzia, segnato la sua vita e reso complice di favoreggiamento quietista la madre e le stesse sorelle. Il libro a questo punto si allinea esageratamente a una storia già raccontata (meglio che qui) nel film danese Festen – che del resto la stessa protagonista cita. La forza drammatica di quell’evento rischia di occultare il vero pregio del romanzo: la rappresentazione del fatto che la normalità familiare viene interrotta quando la sua vita entra nella fase in cui si approssima un’eredità. Non c’è bisogno di traumi macroscopici. Tra i sei familiari le interazioni vengono risucchiate dall’eredità, che assurge a sublimazione di quel che dovrebbe essere, e nel fondo è, il vero trauma: l’irrompere della morte. Nella criticità successoria è difficile ordinare gerarchicamente, e dunque stabilire se litigare sul denaro sia la maschera dietro cui si nascondono i conflitti dell’intimità, o al contrario se l’ostentazione dei conflitti sia la copertura della priorità che i beni materiali acquisiscono in qualsiasi contesto. Non c’era miglior modo di fotografare questa sovrapposizione nella scelta di Bergljot: leggere la lettera di rivelazione della sua ferita umana quando tutta la famiglia che eredita è riunita dal commercialista.
Che cosa devono dividersi gli eredi, fuori da un patrimonio? Cosa lascia di non strettamente economico la persona che muore? Direi due voci passive (il rancore e l’irrisolto), una voce attiva (l’amore) e una voce variabile (la memoria). Come per i beni economici quando è stato anticipato l’asse ereditario, oppure i genitori hanno coinvolto alcuni dei figli nell’attività lavorativa familiare, queste voci extra-patrimoniali erano già in circolo quando il defunto era in vita. Che nell’asse sia compreso più amore che rancore o viceversa, che i conflitti siano affiorati alla consapevolezza e risolti con la composizione o l’accettazione, tutto questo non dipende solo dalla volontà dei genitori, ma certo il loro impegno gioca un ruolo determinante. Un figlio ingrato (altro topos dei preamboli ereditari) è sempre un figlio o un fratello deluso, a torto o ragione – magari già ai tempi del seno materno – e dunque qualcuno che non si è riusciti a recuperare. Quanto alla memoria, potremmo paragonarla biecamente (ma non è tutta la teorizzazione giuridica dell’eredità un’apologia della volgarità?) agli strumenti finanziari: viene un momento in cui si scopre se hanno fruttato rendimenti preziosi oppure è andato perduto il capitale. Comunque, una lista di ricordi sana e gratificante è il massimo dono che un genitore può lasciare a un figlio.
Ci sono famiglie che non transitano per le forche caudine successorie perché non c’è nulla da ereditare (la mia fu una di quelle), benché questo non elimini l’asse extra-patrimoniale (il mio fu attivo). Nella commedia del 1942 Io l’erede, Eduardo De Filippo trova un modo splendidamente paradossale di far emergere il profilo economico da una situazione che pare strettamente confinata all’ambito personale. La benestante famiglia Selciano ha ospitato per trentasette anni Don Prospero Selciano, che ricambiava il sostentamento intrattenendola con intermezzi divertenti e la sua cultura classica o discutendo con l’avvocato capostipite la preparazione delle udienze che costui doveva affrontare. Alla morte di Don Prospero, si presenta ai Ribera suo figlio Lodovico, del quale il padre mai aveva parlato, e reclama di prenderne il posto perché vuole godersi in pace quel che gli ha lasciato suo padre. Per suo padre, dice Ludovico, la famiglia Ribera rappresentava “tutto il patrimonio affettivo e sentimentale accumulato e tenuto gelosamente in serbo”. E prosegue, rivolto ad Amedeo Selciano: “Si è prestato a far sostenere prima a vostro padre e poi a voi l’eroica e importante parte del benefattore, riservando per sé quella meschina e avvilente del beneficato. Che cosa ha costruito in trentasette anni vissuti tra i benefattori? Tutti i sentimenti che vi spingevano a fargli del bene non li coltivaste insieme, voi con il buon cuore e la sua riconoscenza? E un figlio non eredita tutto ciò che costruisce il padre? Mio padre ha costruito ma non ha disposto. Io, quale suo legittimo figlio, sono suo legittimo erede. Vi ho ereditati”. Arriva a sostenere che va bene “un aiuto, un soccorso. Ma la samaritana diede un sorso d’acqua al Sofferente, non gli gonfiò la pancia d’acqua…Non possiamo essere noi a distribuire il bene e il male, non ne conosciamo le proporzioni”, che la superbia nella generosità ha tolto a suo padre la voglia d’impegnarsi nel costruire un suo patrimonio. E dunque: “Come erede di mio padre o mi nominate Prospero secondo e mi tenete in casa o mi pagate in moneta sostanziale il patrimonio che mio padre avrebbe costruito”.
Il dono può essere un regalo avvelenato (e nelle lingue germaniche, come in latino, dono e veleno sono espressi dalla stessa parola), e anche un’eredità può essere dannosa, non in quanto patrimonialmente svantaggiosa ma per gli equilibri mentali che altera nel destinatario, o nelle relazioni tra coloro che fanno conto su essa. La sociologa tedesca Anne Gottman è stata forse troppo idealista, se si applicano i suoi concetti a una società capitalista, a focalizzare il senso dell’eredità nel conservare per trasmettere e qualificarla come una “staffetta” dove “la generazione che eredita funge da testimone tra la generazione precedente e la seguente”.
O forse la vera eredità in gioco (con i quattro componenti dell’asse che ho descritto prima) è un fardello troppo doloroso da sostenere e ripartire senza la copertura di un interesse economico che la occulta. Il risultato però è una sottile mercificazione degli affetti, che esige di riassumersi in una contabilità per tradurre il merito del prendersi cura – e fa di quest’ultimo una dialettica squisitamente retributiva.
Dal punto di vista sociale, peraltro, la trasmissione ereditaria è una riproduttrice delle diseguaglianze e perciò alcuni paesi applicano una severa imposta di successione che riporti le generazioni successive a una condizione più somigliante a una parità di partenza.
Il nostro paese è tra i più fermi nel difendere la natura familiare della ricchezza, e per questo (contrariamente ai paesi anglosassoni), oltre a tassarla in misura infima, impone che una sua congrua quota venga lasciata ai discendenti, e preclude patti contrattuali per definirla preventivamente. Lascia insomma genitori e figli ostaggi di loro stessi e delle aspettative che la legge sollecita come dovute. Non è semplice decidere se questo rinforzi il vincolo familiare o lo perverta.
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