Limitarianismo: come regolarsi con le ricchezze smisurate?
Si torna a parlare, e non solo in Italia, dell’imposta patrimoniale. Da un punto di vista strettamente sociologico suscita sempre stupore che non incontri un costante favore popolare: riguarderebbe i pochissimi rispetto ai moltissimi, e questo in democrazia sarebbe un buon viatico. Circola però sempre il sospetto che si voglia razzolare nel mucchio: nel nostro paese è l’eredità di Berlusconi, che riuscì a scongiurare una tassazione sostanziosa del suo impero finanziario e patrimoniale persuadendo il piccolo borghese che il vero obiettivo della patrimoniale fosse la casetta che quello si era procurato con anni di sudato lavoro. Per via di tale atavica diffidenza, in tutta Europa sul tasto della giustizia fiscale si batte con crescente intensità, prendendosela però con i super ricchi. Non solo non deve preoccuparsi il povero (com’è ovvio) né quello che se la passa benino. Non deve preoccuparsi neppure il ricco. Basta che non sia super.
Sotto certi profili, dunque, tenere i super ricchi nel mirino può apparire uno specchietto per le allodole, e forse lo è, per non addentrarsi troppo nella questione distributiva, e in ultima analisi per non mettere in discussione l’essenza stessa del capitalismo. Dobbiamo riconoscere tuttavia che (è un vecchio insegnamento kantiano) l’eccesso di quantità da un certo punto in poi diventa un salto di qualità, e cioè che in qualsiasi campo un dato incremento produce un oggetto (o un soggetto) differente. Il problema diventa sempre stabilire quando si sia toccato tale limite. Per il denaro però non è difficile. Immaginiamo una soglia di ragionevolezza. Siccome non ci piace fare torto a nessuno moltiplichiamola per cinquanta o per cento. Per arrivare a penalizzare i super ricchi basterebbe e avanzerebbe.
L’idea che non si tratti solo di ritoccare le tasse ma che l’accumulo delle ricchezze dovrebbe proprio essere impedito alla radice (vietato come si potrebbe proibire l’accumulazione delle riserve di ossigeno, qualora esistesse questa possibilità: esempio mio) ha da poco acquisito un nome corrente, limitarianism (traducibile maccheronicamente in italiano con la semplice aggiunta di una o) su conio della filosofa olandese Ingrid Robeyns, che al tema sta consacrando questa parte dalla sua carriera accademica (dopo essersi segnalata per studi sul femminismo e l’ineguaglianza di genere). Limitarianism, The Case Against Extreme Wealth, pubblicato quest’anno negli Stati Uniti, è un libro appassionato, chiaro e meritevole che però alla fine è più convincente quando sostiene che tutto ‘sto denaro non regala la felicità (ma ne eravamo sicuri anche prima) che quando si occupa delle ricette per contrastarne la concentrazione, a anzi sul punto francamente è carente. Robeyns ha i suoi grattacapi già a determinare il tetto oltre il quale si è super ricchi. Fosse per lei, dice, basterebbe raggiungere la soglia del milione di risparmi. E però si inchina all’opinione dominante nel circolo culturale che appoggia la proposta: sei super ricco quando superi dieci milioni.
Non voglio certo negare che dieci milioni siano più di una bella sommetta. Però dobbiamo decidere se occuparci di una questione redistributiva da risolvere attraverso il sistema fiscale (e certamente le imposte sul reddito e quelle successorie, specialmente in alcuni paesi, sono ingiustificatamente basse sulle fasce altissime e alte) o di eliminare una mostruosità, quali sono i numeri dei super-ricchi. A Londra, a Parigi o a New York con dieci milioni non è facile comprare una casa di pregio di duecento metri quadri. Certo, anche quel livello di prezzi è una malattia sociale, e ben vengano le misure in grado di curarla, anche indirettamente. Ma in concreto come si dovrebbe procedere, per ottenere effetti immediati? Imporre un prezzo bloccato per un attico a Londra piuttosto che per una casa popolare nel Bronx? Nella caratterizzazione psicologica del super ricco io vedo un totale disinteresse per le proporzioni e una finale astrazione dalle utilità reali: non possiamo addebitarle a una famiglia che vorrebbe godere dei soffitti alti e della bella vista, e che però se vengono a trovarli parenti da fuori non è in grado di ospitarli. Disporre di dieci milioni, peraltro, può consentire di avviare un’ambiziosa attività d’impresa in quattro paesi senza indebitarsi oltre misura. Ripeto: non mi interessa (non ancora, lo farò alla fine dell’articolo) prendere posizione sulla disparità di redditi in generale. Sto al gioco di quelli che dicono: il male sono i super ricchi! e li individuo in quelli che si pongono completamente fuori dalla logica delle transazioni di mercato, quelli cioè che non avranno mai ragione di dire accidenti, questa spesa non posso permettermela. Non vale a questo fine una lamentela del tipo non posso permettermi di prenotare un viaggio sulla luna per salvarmi quando la terra verrà distrutta o sarà popolata solo da pezzenti incazzati che cercherebbero uccidermi perché non potremo mai accettare che esista una simile categoria di mercato. Egualmente, non sarebbe tollerabile che si possa, per il solo fatto di detenere più denaro, comprare l’immortalità. In definitiva, super ricchi sono quelli per i quali è particolarmente evidente che una certa, cospicua, quantità dei loro soldi sarebbe più utile se stesse in mano a qualcun altro.
In questa chiave essi rappresenterebbero un’escrescenza sociale pure se li avessero meritati. Peraltro, l’accumulo di molto denaro non è sempre frutto di merito: non lo è se è stato ereditato, non se proviene da crimini o comportamenti socialmente dannosi (come la produzione di inquinamento) oppure odiosi (come lo sfruttamento della manodopera), non se è maturato in una vantaggiosa condizione di monopolio, non se ha beneficiato di protezioni statali, occulte o dichiarate, non se coincide con le ruberie dei dittatori che hanno spogliato le risorse pubbliche, non del tutto quando è il frutto di una sola idea (Musk e ancor più Zuckerberg mostrano quanto sia faticoso mettere le mani in un impasto differente). Più in generale, il terreno dei super ricchi è arato, oltre che dai loro predecessori, dagli stati che assicurano le condizioni di funzionamento dell’economia. Il mercato non è affatto uno stato di natura, è una sofisticata costruzione artificiale al pari della proprietà e del denaro. In proporzione, il peso del diritto contrattuale e delle sue infrastrutture operative, persino in condizioni di scarsa efficienza, è incomparabilmente superiore a quello del comportamento del singolo individuo o della singola impresa nella creazione della loro ricchezza. La ripartizione dei vantaggi dovrebbe seguire questa proporzione. Il tutto, sorvolando sulla decurtazione di reddito che dovrebbe indennizzare l’uso massiccio e insostenibile delle risorse naturali (tipicamente agita dal super ricco più che dal metalmeccanico o dal giardiniere).
E se invece che sul piano del merito la spostiamo su quello dell’utilità? Un tradizionale argomento, usato di solito per contrastare l’aumento delle aliquote fiscali più elevate, è che le risorse dei più ricchi sono quelle che consentono gli investimenti e per questa via creano ricchezza per tutti. Le statistiche più recenti, ahinoi, dimostrano che questo effetto trickle-down è ormai una leggenda metropolitana. Questa narrazione avrebbe senso se il risparmio fiscale imponesse l’obbligo di dimostrare che i denari accumulati sono stati effettivamente investiti in iniziative d’impresa che abbiano determinato un aumento della ricchezza sociale (non misurata solo in reddito ma in riduzione della povertà, distribuzione delle opportunità e incremento delle infrastrutture). E che questo aumento sia superiore a quello egoistico e superiore a quello che si sarebbe realizzato se le risorse fossero state distribuite in modo diverso, per effetto della tassazione sui redditi molto elevati.
Quando si entra nel campo dei super-ricchi si può agevolmente presumere il contrario già dalle suggestioni di alcuni dati. Ad esempio: per ogni dollaro guadagnato dal 90 per cento della popolazione il super ricco ne guadagna 1 miliardo e 700 milioni. Nello stesso numero di anni in cui, negli Stati Uniti, i salari dei lavoratori tipici sono aumentati del 18 per cento, le retribuzioni degli amministratori delegati lo sono del 1460 per cento. Negli ultimi tre anni il reddito del 60% più povero della popolazione è diminuito, le fortune delle cinque persone più ricche sono raddoppiate. L’1% degli individui detiene il 43% della ricchezza finanziaria globale. Il patrimonio di Jeff Bezos è di 205 miliardi. Ogni giorno muoiono nel mondo 24.000 persone per cause legate alla denutrizione.
A parte ciò è evidente che di quello sconfinato esubero di risorse farebbero uso più significativo i disgraziati: anche dando loro direttamente i soldi in mano a loro, in forma di reddito di sussistenza, visto che dei sorprendenti esperimenti nel Terzo Mondo mostrano che non li impiegano affatto in viziosi sprechi bensì in razionali pianificazioni per arrivare alla fine del mese soddisfacendo le esigenze primarie.
Esistono tuttavia problemi attuativi legati alla natura delle principali ricchezze extra-large. Che sono per lo più realizzate dentro i binari della globalizzazione, e facili a localizzare in uno stato piuttosto che un altro, secondo convenienza fiscale. Che sono per lo più di natura finanziaria e quindi immateriali, e dunque ad esempio non sequestrabili e facilmente liquidabili, come ad esempio per i patrimoni immobiliari. Che sono soggette a fluttuazioni vertiginose in grado di assottigliarle in pochi secondi per un evento sfavorevole, quale sarebbe appunto un ipotetico esproprio (ma persino un incremento sulla tassazione delle transazioni). Se i limitarianisti girano alla larga dalle ricette pratiche, insomma, una ragione c’è.
E allora a che vale accanirsi tanto sulla questione? Hanno ragione quelli che obiettano: concentriamoci sugli obiettivi realistici e sul recupero della comune evasione fiscale? In realtà la questione va rovesciata: se non siamo capaci di metterci d’accordo sul fatto che vada impedito a chiunque di mettersi in tasca vari miliardi mentre milioni di persone crepano di fame, come possiamo sperare di far digerire agli altri un qualunque sistema sociale e la sua fiscalità, pretendendo di convincerli che risponda a criteri di giustizia? Accetteremmo che, in ipotesi, la terra intera possa essere comprata da un gruppo ristretto di individui che poi ce la concedono in affitto? La battaglia per spuntare le unghie ai super ricchi va quindi concepita come l’imposizione di un tabù, equivalente a quello del cannibalismo (dal quale non si discosta troppo sul piano filosofico). Dunque, a mali estremi, estremi rimedi. Regole uniformi fra gli stati ed embargo commerciale e finanziario verso le nazioni che non si adeguano. Legislazione d’emergenza nei confini interni, che, riguardo ai super ricchi, non disdegni sul territorio di sequestrate o tassare pesantemente tutte le risorse reperibili, di paralizzare l’esercizio delle attività d’impresa o negare la loro tutela giurisdizionale riguardo all’esigibilità di crediti o all’adempimento dei contratti. Considerare il superamento di una certa soglia di ricchezza una condizione di inimicizia verso l’umanità.
Aprire seriamente un simile scenario renderebbe più probabile un’onorevole resa e una soluzione pacifica: alla fin fine, adoperate correttamente e soprattutto con globalizzata concordia le imposte potrebbero pervenire allo stesso risultato e 250 miliardari hanno implorato di pagare più tasse. Non stiamo parlando del comunismo. Di un nuovo socialismo magari sì, focalizzato non sulla proprietà ma sull’accesso: la proprietà si giustifica cioè – anche con una certa (una certa) dismisura – dal momento in cui viene garantito a tutti l’accesso ai beni principali. In questa precisa fase storica e nell’urgenza che si impone senza attendere palingenesi sociali, è giusto tuttavia che il costo dell’accesso per tutti gravi sui super ricchi. Se bastano. E se non bastano si passerà agli altri.
Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.
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