Uno dei più devastanti attacchi alla sensibilità umana è stato il telegiornale, o più esattamente la sua messa in onda durante i pasti e le amene conversazioni familiari sui piccoli fatti della giornata. Gli esseri umani si sono abituati ad assaporare la succulenza della cena nello stesso momento in cui lo schermo portava in casa le immagini, o perlomeno le notizie, di fame e morti per denutrizione, guerre a carestie. La tesi che la televisione abbia anestetizzato la sensibilità verso le tragedie non è certo nuova: ha solo cessato di essere argomento di riflessione, poiché la nostra attenzione è focalizzata sulle nuove tecnologie. E di contro (come si potrebbe dire, con molti distinguo, pure per le nuove tecnologie) ha pur sempre aumentato le informazioni e la consapevolezza di quel che accade lontano da noi, offrendoci talora la possibilità di intervenire (ad esempio con le raccolte di fondi) per alleviare quelle miserie.
Sarebbe però impossibile sopravvivere se ci si lasciasse coinvolgere emotivamente in tutti i drammi riportati dalla cronaca: una quota di rimozione è fisiologica. Non si tratta della rimozione in senso freudiano, benché sia essa pure una difesa dell’Io. Definisco più specificamente livello base di rimozione morale tutti quei casi in cui l’essere umano si concentra sui propri bisogni e si disinteressa emotivamente di eventi che da quei bisogni dovrebbero distrarlo, o renderlo più critico verso di essi (come qualcuno che dicesse: come posso godermi gli agi di questa casa se nello stesso momento milioni di persone vivono senza un tetto sulla testa?).
Nel livello base di rimozione morale, apparentemente (vedremo poi se questo sia vero) non c’è alcuna relazione tra l’appagamento dei miei desideri abitativi e la sventura dei senza tetto o la mala sorte degli indiani costipati negli slum o dei sudafricani che dormono nelle bidonvilles. Non solo non ho fatto nulla per provocare questo livello di disuguaglianza ma la loro esistenza non trarrebbe alcun giovamento dal mio trasferimento in una casa più spartana e disagevole. Il deficit morale che può essermi rimproverato è l’assenza di una seria empatia (dedico pochi pensieri e interesse alle loro privazioni) e la scarsa consapevolezza della mia fortuna (mi guasto l’umore o mi inferocisco se si guasta la lavastoviglie per un giorno o se le mie quaranta camice stanno strette nell’armadio). Se i disgraziati della terra fossero davanti a me in quel momento e mi ascoltassero, le mie lamentele suonerebbero moralmente inaccettabili. Il livello base di rimozione morale, dunque, conserva un profilo socialmente accettabile solo perché loro (i destinatari della mia rimozione) non sono lì, nella stessa stanza.
Il secondo livello di rimozione morale si tocca quando i destinatari della mia rimozione sono nella mia stanza, o quasi. Potrebbero essere, ad esempio, in prossimità del tavolo che occupo al ristorante, i venditori pakistani di fiori che creano un immediato corto circuito tra la loro indigenza e i quaranta euro (quarantacinque con grattata di tartufo) che sovvenzioneranno il nostro pasto. Qualsiasi mendicante, per strada, ci impone di prendere in considerazione il divario o di rimuoverlo dalla vista. La mancanza di correlazione immediata tra le due situazioni è evidente, non meno però di quanto diventi evidente l’instaurarsi di una correlazione successiva tra la mancata oblazione e il peggioramento dello stato del richiedente.
A parte la mendicanza, potrebbe trattarsi di una giustificata richiesta per strada di fondi per beneficienza. In una grande città, anche per un temperamento generoso è irrealistico stare dietro a tutte le questue o implorazioni, e di fronte a un’insistenza reiterata il garbo nel rifiuto non è disgiungibile da una feroce fermezza. Accade così che la difesa emotiva passi per la cecità e la sordità (fingo di non vederti, di non sentirti) che l’abitudine radica poi effettivamente nei sensi (non ti vedo, non ti sento). A parte i casi in cui il soggetto della rimozione ci capita incidentalmente sulla strada, ve ne sono poi altri in cui la sperequazione di sorti non è resa evidente dalla miseria o dal bisogno dell’altro bensì dall’ostentazione di colui che rimuove. Il padrone di fabbrica che si presenta con la fuoriserie ai lavoratori che stentano o il benestante che narra con pathos drammaturgico i propri risibili decrementi patrimoniali a gente che possiede poco più che sé stessa.
Al terzo grado di rimozione morale, l’incrocio dei rimossi e del rimovente non avviene a giochi fatti e in assenza di una responsabilità nella divergenza dei destini: c’è una persona che ne compie una dannosa verso altri. Indirettamente, giacché lo scopo non è quello di danneggiare: l’azione ha un suo distinto fine, che tuttavia implica dei danni collaterali. C’è un attore, dunque non uno spettatore. Ad esempio l’imprenditore di uno stabilimento inquinante, il corrotto che ha deviato l’assegnazione di un appalto, il governo che ordina un bombardamento delle infrastrutture militari di una nazione nemica in un luogo dove potrebbero anche essere presenti dei civili (oltre ai soldati di vigilanza). I percorsi psicologici per giustificare l’azione possono essere più o meno cinici, ricondotti al puro profitto personale (ho bisogno di quel guadagno, metteremo i nemici in ginocchio) o ammantati di un vantaggio più generale (la produzione sarà un bene per la comunità, in questo modo verrà premiata l’azienda più competente, saranno costretti alla resa e questo gioverà alla pace).
Ancora una volta, il passaggio a uno stadio ulteriore, il quarto grado di rimozione morale, è legato al fatto che la persona danneggiata sia individuabile e conosciuta oppure no. Le persone lontane si possono più facilmente liquidare come se fossero un’astrazione, sono meglio rimuovibili. Quando invece il danno indiretto dell’azione viene a colpire persone che si conoscono, e con le quali magari esistono relazioni personali o affettive, la rimozione richiede maggiore vigore e cinismo, specialmente se, nel tempo che intercorre tra l’azione e il manifestarsi del danno, si continuano a condividere porzioni del quotidiano con le vittime: così sarebbe per un industriale che preparasse una liquidazione fraudolenta della sua impresa, a seguito della quale i suoi dipendenti si troverebbero senza lavoro; oppure per il figlio che abbia ottenuto una fideiussione dai suoi genitori, senza spiegare loro cosa stessero firmando (ovviamente con la giustificazione psicologica che tanto lui sarebbe rientrato del debito, e nulla sarebbe accaduto di dannoso).
Infine, il quinto grado di rimozione morale si raggiunge quando l’azione volontaria è direttamente rivolta a danneggiare le persone verso le quali si rimuovono, dapprima, il freno all’azione e, in seguito, il senso di colpa. Nei casi più gravi, sono i crimini veri e propri, e comprendono i processi di negazione della vittima (il più efficace dei quali è: tanto se lo meritava). Tra il terzo e il quinto grado c’è la differenza esemplificativa che intercorre tra il bombardamento degli obiettivi militari e il bombardamento di obiettivi civili.
Dentro il quinto grado, non farei troppa differenza, in termini di gravità, sul fatto che le persone fossero ignote o appartenenti alla propria cerchia. Un’azione dannosa può essere giustificata, che si tratti degli uni o degli altri; e se si tratta invece di un’azione ingiusta, arrecare volontariamente dei danni (e poi cercare di liberarsi la coscienza o la memoria) è egualmente odioso, quale che sia la distanza con chi li subisce. Anche nelle altre ipotesi qualcuno potrebbe ritenere dubbio che sia meno grave rimuovere moralmente qualcuno che non conosciamo: e però, esistono numerosi individui indifferenti alla sorte degli estranei e che si prendono cura dei prossimi, ma non il caso contrario. Provare empatia per chi è vicino è un prerequisito dell’empatia verso sconosciuti: fanno eccezione solo quelle persone che hanno faticosi e non risolti equilibri relazionali nella prossimità e che, proprio per compensazione e sublimazione, investono tutte le loro energie nel volontariato praticato a lunga distanza. Il loro problema è una persistente coscienza di rimozioni morali di secondo grado, che li spinge al più facile compito di migliorare riguardo alle rimozioni di primo grado (è un tipo di profilo psicologico che talvolta mi è capitato di incontrare).
Naturalmente, non vi è per forza coincidenza tra un grado peggiore (cioè più alto) di rimozione morale e il livello di responsabilità, a maggior ragione se ancoriamo quest’ultimo agli effetti prodotti. Tutti considereremmo più gravemente responsabile mettere a repentaglio, come effetto indiretto del proprio scopo, la vita di cento bambini in un paese lontano piuttosto che la salute di una persona vicina. La responsabilità si misura secondo parametri più estesi. La rimozione morale è una forma di deficit etico e una strategia inconscia per negare certe forme di responsabilità. Ciò non esclude, però, che i due temi possano parzialmente sovrapporsi. E del resto una sistematina negazione di responsabilità, sviluppata attraverso la rimozione, rappresenta una nuova e autonoma fonte di responsabilità, come è evidente ad esempio per gli orrori dei campi di concentramento nazisti.
Il filosofo Peter Singer propone un’originale argomentazione, che sovverte i canoni convenzionali di distinzione tra l’essere attore o spettatore di un’azione, e anche tra il rilievo che una sofferenza di cui ci disinteressiamo emerga sotto i nostri occhi o senza che nemmeno ne sappiamo nulla. Singer sviluppa il suo ragionamento sul piano della responsabilità, ma esso sarebbe del tutto pertinente anche riguardo alla rimozione morale. Immaginate di passare davanti a uno stagno, e di vedere che un bambino sta annegando, dice Singer: tutti saremmo d’accordo che sarebbe aberrante non tuffarsi a salvarlo per timore di inzaccherare le scarpe. Eppure se dobbiamo scegliere tra l’acquisto di un paio di scarpe nuove o un versamento all’Unicef, di solito optiamo per il primo anche se sappiamo (io direi, lo sapremmo se non fosse operativa la rimozione morale) che con quei soldi si sarebbe potuta salvare la vita di un bambino. Certo, ammette Singer, nel primo caso siamo certi di avere salvato una vita, e per quella vita abbiamo fatto quel che potevamo, una volta e per sempre. Una donazione, invece, è una goccia nell’oceano, e non ci esime dalla continuità di una presenza morale. Però rimane il fatto che avremo fatto qualcosa per salvare un bambino dallo stagno della povertà.
La tesi di Singer è una sferzata. Ha le sue ragioni filosofiche e un valido obiettivo politico (una modica imposta sul reddito dei paesi ricchi per finanziare progetti nei paesi poveri). Se la vediamo dal punto di vista delle rimozioni morali, suggerisce di agire solo sul primo livello, che essendo quello più basso dovrebbe essere il più facile da affrontare. In realtà è vero l’inverso: a ogni stadio di rimozione morale corrisponde un pari grado di resistenza nel rimuovere. Le persone capaci di agire costantemente sul primo livello di rimozione sono poche, e quelle che rimuovono non sono per forza le peggiori. Riguardo a tutti i cinque gradi, ci sono individui che agiscono, o non agiscono, scientemente, senza bisogno di sedare la coscienza con la rimozione: sono i più odiosi. Ci sono torme di imbecilli che non rimuovono perché non percepiscono il problema, per mancanza di sensibilità, intelligenza o profondità: sono i più pericolosi. Ma gli altri devono sforzarsi di auto-analizzare e far emergere le proprie rimozioni, in modo sistematico, schietto, qualche volta doloroso: aumentare in questo modo la consapevolezza di sé stessi (che comprende anche la consapevolezza di convivere con i propri limiti). Sapendo però che ogni grado in più di rimozione morale ci rende persone peggiori, e ogni grado in meno ci rende positivi protagonisti nella nostra vita, e anche in quella altrui.
Scrivi un commento