L’intelligenza artificiale e l’utilizzo degli animali da parte dell’uomo
E se invece di considerare i robot delle repliche, pur parziali, delle attitudini umane cominciassimo a compararli con gli animali? La più decisa sostenitrice di un simile cambio di paradigma è Kate Darling, che ha compiutamente esposto la sua tesi l’anno scorso nel saggio The New Breed (il cui sottotitolo, tradotto, è: Cosa la nostra storia con gli animali ci rivela riguardo al nostro futuro con i robot).
La premesse di questa tesi sono principalmente due. La prima è che l’intelligenza artificiale ha cominciato a svilupparsi da quando gli scienziati hanno smessa di costruirla sul modello dell’intelligenza umana (come scrive nel recente e bel numero monografico della rivista Aut Aut Elena Esposito, “le macchine riescono a fare cosa strabilianti non perché sono finalmente diventate intelligenti, ma paradossalmente proprio perché non cercano più di esserlo, fanno qualcos’altro”, e cioè macinano dati non alla portata di raccolta da parte di un essere umano e si propongono come partner di comunicazione competenti). La seconda è che a nessuno è mai venuto in mente che gli animali variamente addomesticati potessero mai rimpiazzare l’uomo: essi sono stati e vengono utilizzati invece come sostegno complementare, e adeguati alle loro capacità, facendo loro svolgere attività che per l’uomo sarebbero sporche, noiose e pericolose (come povere bestie, insomma!).
In effetti, le preoccupazioni che oggi ci facciamo riguardo alla responsabilità dei veicoli senza conducente, alla pericolosità dei droni, al rischio che l’uso di macchine provochi disoccupazione, all’anomalia che non sia un umano a prendersi cura di un altro umano hanno tutte dei precedenti nella relazione uomo-animale.
La partnership uomo-animale nasce a volte per tacito accordo, reciprocamente vantaggioso. Lasciamo perdere la ciotola piena del cane da caccia, e prendiamo un esempio meno noto, quello degli indicatori golanera, gli uccellini della lunghezza di venti centimetri e del peso di cinquanta grammi che in Mozambico guidano alcune tribù alla ricerca del miele, segnalandone la presenza con un verso caratteristico e ricevendo in cambio il compenso della cera, che punto di vista del loro solido stomaco è una prelibatezza.
Ma all’uomo concedigli un dito e si prende tutta la mano. Quando ha avuto la possibilità di addestrare a puntino un animale ha cercato di farne un kamikaze. Furono clamorosi flop, ma pure impressionanti esperimenti, i pipistrelli bat bomb che gli americani durante la seconda guerra mondiale cercarono di impiegare come portatori di napalm contro i giapponesi. Più precisamente, venivano ibernati e corredati di un piccolo dispositivo contenente napalm, infilati dentro contenitori a forma di bomba, sganciati in prossimità delle case di legno nipponiche immaginando che, risvegliatisi per il calore, sarebbero planati sui tetti incendiandoli. In realtà, durante i test, al risveglio, alcuni furono subito presi dalla nostalgia di casa, e tornarono all’hangar di partenza, bruciando gli uffici e la torre di controllo. Nemmeno ebbe successo la balzana proposta del famoso psicologo comportamentista B.F. Skinner di fare dei piccioni il nucleo di un sistema missilistico. Egualmente, i russi che ebbero l’alzata di ingegno di spedire cani-kamikaze (canikaze, per così dire) verso i tank tedeschi ebbero la brutta sorpresa che il perfezionismo canino rifiutasse come categoria “carro armato” un manufatto non del tutto corrispondente, e che quelli tornassero alla base a far esplodere quelli sovietici. In ogni caso, con intenti meno crudeli e sleali, diverse nazioni affidarono qualche ruolo militare agli animali: ventimila cani americani furono “donati” dai loro padroni alla causa patriottica per svolgere compiti di sorveglianza o ricognizione.
Ci sono voluti secoli per cancellare l’idea che un animale potesse essere punito dal diritto penale per episodi di violenza: ancora nel 1916 venne processato un elefante nel Tennessee e nel 1926 mandato alla sedia elettrica un cane nel Kentucky. Ora nessuno dubita che gravino obblighi di vigilanza sul padrone o l’allevatore. Non dovremmo ragionare allo stesso modo verso i robot? Certo, se concediamo loro la cittadinanza (accaduto nel 2017 in Arabia Saudita, paese in cui le donne non hanno il diritto di guidare la macchina) o ragioniamo sulla “personalità elettronica” (raccomandazione di una commissione del Parlamento Europeo nel 2016), ne discende consequenzialmente la responsabilità per danni dal lato passivo. Ma ci si allontana dalla soluzione elementare (e parallela a quella per gli animali), cioè della riconduzione a un soggetto fisico determinato dei danni che combina un algoritmo. Diciamo che senza quella, il robot o un qualsiasi algoritmo non dovrebbero avere il lasciapassare per la vita sociale.
E l’assistenza agli anziani o alle persone inferme, da parte di un robot, non potrebbe svolgersi nel segno di continuità con la pet therapy, ora tanto elogiata, e della quale un vago precursore pratico fu persino Sigmund Freud?
La tesi dell’assimilazione per somiglianza fra impiego degli animali e dei robot ha una sua suggestione, purché si traduca in un’indicazione per i produttori.
Qualche differenza tra animali e robot appare ineliminabile.
La prima è che, appunto, gli animali non vengono prodotti. Come abbiamo visto, possono essere sfruttati in modo aberrante ma c’è un limite alla loro ri-programmazione degli istinti. Il funzionamento di un robot non ha lo stesso vincolo. Potenzialmente questo è un bene, ma solo a condizione che l’obiettivo sia quello di aiutare l’essere umano per obiettivi degni, e non di rimpiazzarlo secondo uno scopo prevalentemente economico (ciò che rende meno sicuro che l’automazione finisca allo stesso modo delle carrozze trainate dai cavalli, con un accrescimento delle opportunità).
La seconda è che un cane non risponderà mai a una richiesta di assistenza fingendo di essere il padrone o la sua segretaria, e nessuno sarà solleticato dalla tentazione di renderlo abile a superare il test di Turing. Non è una questione da poco. Fra gli aspetti più inquietanti del modo in cui si sta sviluppando l’intelligenza artificiale (non solo nella robotica) c’è lo sforzo di cancellare la trasparenza sull’interlocutore e sulle parti che stanno agendo dentro una relazione.
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