“Ecco che mi circonda un chiasso indiavolato: abito proprio sopra uno stabilimento balneare. Immagina ora tutti i tipi di rumori che possono frastornare le orecchie: quando i campioni si allenano a sollevare palle di piombo e si affaticano o fingono di affaticarsi io li sento gemere, e ogni volta che mettono fuori il fiato trattenuto, sento i sibili del loro respiro affannato. Quando capita qualcuno più pigro, che si contenta di una comune frizione, sento la mano che fa massaggi sulle spalle, con un suono diverso a seconda che sia aperta o concava (…) Se poi sopraggiungono coloro che giocano a palla e cominciano a contare i punti è finita. Aggiungi ora l’attaccabrighe o il ladro colto sul fatto, o quello a cui piace sentire la propria voce durante il bagno; poi il fracasso provocato da quelli che saltano nella piscina. Oltre a questi, le cui voci, se non altro sono normali, pensa al depilatore che, per farsi notare, parla in falsetto. Infine c’è il venditore di bibite con le sue esclamazioni sempre diverse, il salsicciaio, il pasticciere e tutti i garzoni delle bettole, ciascuno dei quali, per vendere i suoi prodotti, ha una caratteristica inflessione della voce (…) Mi sembra che la voce distragga più di altri rumori: essa infatti attira l’attenzione; i rumori invece riempiono e colpiscono solo le orecchie. Pongo fra le cose che mi strepitano intorno senza distrarmi i carri che mi passano di corsa, il falegname mio coinquilino e il fabbro della casa vicina, il commerciante di trombette e flauti che non suona ma strilla. Ma il suono intermittente mi è ancora più molesto di quello continuo”.
Questa lettera di Seneca a Lucilio dimostra come il problema del frastuono metropolitano risalga a qualche annetto prima del camion per l’immondizia che passa di notte: ma è anche una magistrale testimonianza della soggettività del rumore acustico, dell’abisso che intercorre tra la realtà quantitativa dell’onda sonora e la personale percezione di colui che ne viene investito. In effetti, la definizione comune di rumore quale suono che infastidisce rimanda alla soggettività dell’ascoltatore invece che alla fonte emittente. Il fattore disturbo connota l’accezione generale di rumore, che consiste appunto nel segnale di disturbo rispetto all’informazione trasmessa in un sistema.
Prima di soffermarsi su una simile sfumatura, tuttavia, bisogna pur ricordare che il suono ha una sua misurazione, il decibel, che si accresce secondo esponenzialità logaritmica, e che sopra una certa soglia, indicata in 65 decibel diurni e 55 notturni, comincia a produrre seri effetti nocivi sull’organismo umano (i danni extrauditivi vanno dall’aumento del rischio cardiovascolare a un aumento della secrezione acida nello stomaco). Per tacere degli animali: le galline il cui allevamento è sorvolato dagli aerei che si approssimano all’atterraggio cessano di produrre uova; i canti per approcciarsi all’accoppiamento rimangono inudibili alle cincie urbane per via del baccano delle città; le balene finiscono spiaggiate per scampare ai sonar delle esercitazioni navali: per lo spavento, in verità, visto che il canto sott’acqua della megattera, con i suoi 170 decibel, supera quello del fucile calibro 12 ed è appena sotto il motore a razzo.
Nella scala di decibel il traffico intenso pesa meno dell’aspirapolvere, e il rumore della fabbrica industriale a pieno regime rende sordi milioni di operai ma non eguaglia, nella singola performance, il martello pneumatico e la marmitta della motocicletta. La soglia del dolore è posta a 120 decibel, dieci sotto un concerto rock.
Esiste certo una simbiosi emotiva e persino intellettuale fra il rumore e la modernità, e un diretto collegamento tra il rumore e lo sviluppo urbano (benchè ognuno poi si faccia le sue idee: per Aldous Huxley e per Max Picard, ad esempio, il bubbone erano le trasmissioni radiofoniche). Una città che si affolla- lo abbiamo appena visto con Seneca- è un ambiente che mette a contatto più stretto gli esseri umani e li precetta al movimento. Il salto di qualità, però comincia nell’Ottocento con gli ululati dell’industria e delle ferrovie, e si completa con il trionfo della rivoluzione nei trasporti, il cui traffico rappresenta oggi il 55% dell’inquinamento acustico. A causa dei motori, va bene: ma un’automobile ha un prospero indotto sonoro nei clacson, nelle portiere sbattute, nelle liti agli incroci, nelle frenate brusche o semplicemente nel fatto che popola in un amen luoghi che sino a qualche minuto prima erano immersi nella quiete, incluse le mete turistiche che si propongono come tali per la grazia silenziosa della natura. Ma è nella città che la strada- come scrisse Ortega Y Gasset- “penetra nel nostro angolino privato e lo riempie di rumore pubblico” e costringe colui che lo abita ad aggirarsi come “palombaro in un oceano di rumori collettivi”. Anche di sera, da quando l’elettrificazione ha aumentato di diverse ore quotidiane il tempo che le persone trascorrono all’esterno.
Fu il futurismo, all’inizio del Novecento, a rendere coincidenti rumore e progresso e celebrarli in ogni forma estetica, inclusa la musica, dove fu determinante teoricamente l’apporto del compositore Luigi Russolo. Egli classificò le nuove sonorità che la musica orchestrale avrebbe dovuto inglobare (tra le varie: tonfi, boati, sbuffi, stridori, scricchiolii, urla, gemiti, stropiccii, rumori ottenuti a percussione su metalli, legni, pelli, terracotte ecc.) e anticipò la tesi- poi divenuta cara prima alle avanguardie newyorkesi e quindi al noise-rock e all’elettronica- che il rumore possa essere asservito alla melodia oltre che al ritmo. Costruì pure una famiglia di stravaganti congegni meccanici, ribattezzati “Intonarumori”, concepiti per allargare in quella direzione l’espressione musicale.
Nella vita quotidiana, tuttavia, l’espansione del rumore è stata una rivoluzione silenziosa: è consistita, cioè, in una progressiva infiltrazione sonora che ha elevato la soglia di tolleranza dell’essere umano, dopo un’indubbia accelerazione prodotta dalla guerra. Nel lungo periodo, due fattori di eccitazione sarebbero risultati decisivi del rumore cittadino: la cantierizzazione e la carnevalizzazione.
Quanto alla prima, la città concepisce se stessa come energia pulsante che si manifesta nella continua trasformazione edilizia e stradale. E’ dalla quantità di cantieri aperti che viene abitualmente misurata la vitalità di un’economia locale (a condizione, è ovvio, che le aperture si succedano nuove tra loro: i cantieri che rimangono aperti a causa della sospensione dei lavori misurano l’inefficienza, o la mancanza di risorse). Ma la cantierizzazione si trasfonde in una tendenza alla perpetua ristrutturazione degli ambienti interni con le loro appendici esterne, e nell’esigenza della loro manutenzione, che provocano una perpetua fibrillazione sonora.
La carnevalizzazione è la dilatazione del tempo libero dedicato ad attività di intrattenimento nelle quali l’eccesso sonoro rappresenta un elemento certificatore del divertimento e dell’identificazione interna al gruppo. Una delle perplessità sovente manifestate sui sabati in discoteca è che i frequentatori siano impediti dal volume della musica a parlare tra loro: e però quell’apparente ostacolo rientra in un travestimento carnevalesco che non agisce per aggiunte o sostituzioni (il costume e la maschera) ma per sottrazioni (il corpo indotto a esprimersi solo con la frenesia del movimento, spogliato della parola che lo disciplina).
La discoteca si propone come eccesso, anche se la si guarda dalla prospettiva del singolo. Nel recente fenomeno della movida invece il rumore è per lo più prodotto dal gruppo per accumulo. Sono una minoranza i ragazzi che scuotono il vicinato con le grida; essi si limitano a giustapporre le proprie voci con un effetto che viene moltiplicato dall’assenza di rumori contrastanti. Ma ciascuno di loro mutua il proprio status temporaneo dall’esistenza di quel chiasso, e dal piacere di contribuire a crearlo. La vita, per i giovani, scorre prevalentemente nei suoni, e certe volte dalla consapevolezza- agonistica verso gli adulti- che quel suono corrisponda a un rumore.
Ma quando davvero un suono trascende nel rumore? Se accantoniamo i decibel, lo dicevo, è una questione di sensibilità personale, di psicoacustica. Le campane sono state vittime eccellenti della secolarizzazione, e da suono celestiale sono declassate a disturbo della quiete, sanzionabile anche penalmente quando il parrocchiano vi ricorre “ossessivamente” (così una sentenza) oppure di notte. Le differenze non sono storiche ma pure geografiche: da analisi cross-culturali risulta che la campana per i tedeschi rappresenta pur sempre un suono “rilassato” e “sicuro”, mentre gli aggettivi che essa evoca ai giapponesi sono ripugnante, sgradevole, spaventoso, squillante e pericoloso.
Sempre prescindendo dai decibel, la maggior parte di ciò che viene identificato come rumore (e quindi sgradevole) proviene dal vicinato, poichè la percezione di un suono come rumore è legata all’aspettativa acustica, che fra le mura domestiche riceve un abbassamento della soglia di tolleranza, oltre che una maggiore vulnerabilità durante la notte. Negli anni, però, è diventato culturalmente inaccettabile precludere a qualcuno di esercitare i propri talenti musicali o sperimentare il suo amore per gli animali domestici (o agli animali di sperimentare l’amore per un padrone): un tempo era normale che i regolamenti di condominio vietassero entrambe le cose. Ormai la tutela della quiete, nei regolamenti, si esprime soprattutto nel divieto di locare un immobile a chi vi impianterebbe un’attività disturbante. Sopravvive in tutti il folcloristico obbligo di limitare la battitura dei tappeti in un orario compreso tra le otto e le undici del mattino (e viene in mente la commedia Questi fantasmi di Eduardo De Filippo, nella quale al protagonista viene concessa in affitto gratuitamente una casa principesca, che la voce popolare vuole abitata dai fantasmi, a condizione che batta con mattutina regolarità i tappeti su tutti e sessanta i balconi, e canticchiando, pure, per rappresentare al vicinato la sua gaia presenza).
Non sempre le mura che separano le abitazioni sono sufficientemente spesse, e la contiguità degli spazi crea una frizione costante tra il diritto che ciascuno ha di manifestare nei suoni la sua personalità, o semplicemente il puro esistere, e il diritto di far corrispondere la signoria domiciliare con l’espunzione del rumore. E’ raro, almeno al principio, che il fastidio sia scisso dalla qualifica culturale del rumore: il livello di decibel di una tromba è superiore a quello del trapano elettrico e quello del violino al tosaerba, ma a livello della percezione l’intensità è invertita. Le influenze che gli altri sensi rovesciano sull’udito sono sorprendenti: i 120 decibel di un treno che ha i colori dell’alta velocità europea (bianco con una striscia rossa) vengono sovra-percepiti e invece ridotti di un venti per cento se è verde chiaro. Così le alterazioni prodotte dal rapporto con l’emittente del suono, se si tratta di una persona fisica. La misofonia è la reazione esageratamente irritabile, quasi allergica, verso chi, ad esempio, schiocca le labbra , batte le dita sul tavolo o cammina con i tacchi sul pavimento, e della quale si ipotizzano le radici in una spiacevole situazione biografica che viene rievocata da quel suono.
Il fatto è che non è l’orecchio a comandare, ma il cervello, che può bloccare l’accesso di alcuni suoni, che così non vengono fisicamente percepiti, oppure si trasformano. Quando due suoni hanno la stessa altezza si mascherano, si fondono in un suono diverso; quando uno dei due è prevalente cancella l’altro, non solo se lo precede ma anche se lo segue (ovviamente di una minima frazione di tempo). E quando dietro un suono nettamente dominante se ne affaccia uno che reclama la nostra attenzione specifica, esso si impone nonostante il deficit di onde. E’ il cosiddetto effetto “cocktail party”, così chiamato per l’immaginifico (ma quanto frequente!) caso in cui, mentre qualcuno è avviluppato dal chiacchiericcio del tavolo cui siede, coglie tuttavia le parole che lo sbertucciano dalla conversazione di un consesso più distante.
Il rumore ha un suo volto gentile. Così è il rumore bianco (concetto che ha generato una più vasta serie cromatica), quello che si aggiusta come innocuo sottofondo e produce l’effetto rassicurante della cantilena. Un tempo l’esempio di scuola era il televisore acceso quando erano cessati i programmi, che oramai però mai concedono requie e saranno probabilmente l’ultimo baluginio di vita in caso di estinzione nucleare. Al rumore bianco viene associato, con un tantino di forzatura, quello dell’asciugacapelli. E’ in aumento il numero di persone che confida nel ronzio del phon (e anche nutre fiducia che non causi un incendio per corto circuito da surriscaldamento) per sentirsi in armonia col creato, e quindi lo lascia in funzione per ore. Si ipotizza che richiami il ronzante suono del mondo esterno che percepiva il feto, così come del resto si attribuisce al treno la qualità di richiamare l’eco primordiale dello scroscio piovoso che zittiva le fiere a acquetava gli uomini nelle caverne. In ogni caso il rumore, anche il più molesto, presenta sempre il pregio del’informazione. Le prime macchine elettriche, con la loro discrezione sonora, rischiano di arrotare il pedone più di quella che circola con la marmitta truccata.
La tecnologia ha incamerato tra i suoi compiti la riduzione del rumore. Ogni condizionatore o frigorifero è più silenzioso del modello precedente. Su larga scala, la smart city promette di eliminare i movimenti inutili, e per questa via arreca decremento sonoro. Le aziende hanno scoperto quanto improduttivo fosse allevare come polli in batteria i dipendenti nei distraenti open space. Il marketing propone un prosperoso mercato del silenzio nel quale brillano cuffie antirumore a cancellazione attiva, che con un microfono captano le onde sonore in arrivo e tramite minialtoparlanti emettono onde di frequenza opposte che in buona parte le annullano, in nome della legge rumore scaccia rumore. Macchine del sonno da comodini riproducono rumore bianco per contrastare quello del traffico. Il silenzio è uno dei grandi benefit promessi per le vacanze estive, e si avvia a superara la richiesta di frastuono vitalizzante. Persino le discoteche introducono la forma contaminata dei silent party, che confinano la musica nelle cuffie indossate dai danzanti. Il saldo connubio tra rumore e modernità sembra avere imboccato la strada del tramonto. Alla fine l’avamposto più coriaceo è la stanza ospedaliera, che dai 55 decibel (già sforanti dai 35 prescritti) è passata in vent’anni a 72, a causa dei ventilatori, degli apparecchi di monitoraggio, dei letti elettrici ospedalieri, delle pompe infusionali. La rituale domanda del primario in corsia: “Come si sente oggi?” rischia ormai di essere fraintesa.
Tratto da “Storia e pratica del silenzio” uscito per Bollati Boringhieri
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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