Etica, efficacia e contraccolpi delle sanzioni
Oltre che dalla resistenza ucraina Putin pare spiazzato anche dalle sanzioni economiche: o più precisamente, l’inattesa resistenza ucraina ha reso “l’operazione militare speciale” sufficientemente cruenta, odiosa e lunga da offrire agli stati occidentali la determinazione e il tempo per adottarle. Si tratta di un “atto di guerra”, come dice Putin? Woodrow Wilson, il presidente americano che fondò la Società delle Nazioni nel 1919, non avrebbe dubbi nel rispondere affermativamente: le qualificò un’arma letale, che aveva il vantaggio di non produrre vittime fuori dal paese colpito. Un atto ostile, dunque, direttamente sostitutivo di un’azione di guerra: lo dimostra la sua crescita esponenziale negli ultimi vent’anni, essenzialmente ad opera degli Stati Uniti, e quindi in coincidenza con una maggiore resistenza della loro opinione pubblica interna a sopportare i costi economici e le sofferenze militari delle missioni belliche. Non certo una novità, visto che il primo esempio risale al 432 a.c. quando gli ateniesi bandirono gli abitanti di Megara da tutti i ponti e i mercati dell’Impero (e se saltiamo al secolo scorso, nulla che l’Italia non conosca per esperienza diretta, essendo stata sanzionata nel 1935 per l’invasione dell’Etiopia). Sicuramente però un atteggiamento mainstream, che gli Stati Uniti hanno adottato per 9241 casi, di paesi o persone, e che anche la Russia e la Cina, che ora se ne dolgono, hanno cominciato a impiegare. Ci si domanda – con particolare interesse alla questione russo-ucraina: le sanzioni sono efficaci? Eticamente giustificate? Controproducenti per chi le applica? Ci sono dei limiti più o meno individuabili per calibrarle in modo che non siano immorali, inefficaci e controproducenti?
Per quanto concerne l’efficacia, ci troviamo in una di quelle tipiche situazioni in cui il modo di presentare le statistiche cambia l’impressione del lettore: se dico che nei due terzi dei casi sono state inutili, certamente vi cadono le braccia; se rendiconto che nel 35% dei casi hanno condotto all’esito sperato ne ricaverete che vale sempre la pena di tentare, se l’obiettivo era meritevole. Purtroppo una scienza esatta in questo campo non esiste. Quando il risultato corrisponde alle aspettative, di rado potremmo essere certi sia tutto merito delle sanzioni; di contro il Global Sanctions Data Base, creato e rigorosamente aggiornato da un gruppo internazionali di studiosi, cerca di descrivere attraverso delle preziose infografiche anche gli esiti intermedi- i raggiungimenti parziali dell’obiettivo: inglobandoli, l’efficacia delle sanzioni si incrementa ben oltre la metà. A questo aggiungiamo che per esercitare la pressione su un paese, talvolta, la sanzione, è stato sufficiente minacciarla (e certo il deterrente non sarebbe stato efficace se non ci fossero in giro sanzioni che vengono applicate davvero). In ogni caso, il successo varia in funzione dell’obiettivo: l’esperienza ha dimostrato che è più facile imporle per recuperare, almeno parzialmente, il rispetto dei diritti umani in situazioni critiche che per eliminare programmi di nuclearizzazione militare (ma per rallentarla sono serviti, eccome) o per fermare una guerra o ripristinare dei confini. Secondo i critici, d’altronde, la prova vivente della scarsa efficacia sarebbe proprio la Russia, che non solo dopo quelle del 2014 persevera e ha retto economicamente il colpo (circa il due per cento del PIL) ma ha migliorato la sua autosufficienza economica.
Le nuove sanzioni hanno però tutt’altra portata, e le loro punte di diamante sono il sequestro dei beni di oligarchi russi, il congelamento delle riserve estere e l’esclusione dal sistema di pagamento internazionale SWIFT: quest’ultimo era stato già utilizzato con l’Iran, nel 2012, ma non c’è paragone rispetto a quanto i russi siano implicati negli scambi internazionali e nella quantità di riserve estere. Si ipotizza che la Cina possa venire in soccorso dei russi, anche comprandone i prodotti: pure l’Urss rimediò all’embargo di Cuba acquistandone per decenni zucchero in quantità da rendere diabetico l’intero popolo sovietico. Ma, di nuovo, differenti sono le dimensioni e le entità, e insufficiente sin qui la possibilità che la Cina ha di bilanciare quel che la Russia perde negli scambi con l’Occidente. Sono dubbi anche il vantaggio reciproco e il profitto geopolitico della Russia, che sarebbe ridotta a una posizione di dipendenza e subalternità.
A queste sanzioni si aggiungono gli abbandoni in massa della nazione da parte delle grandi aziende europee. Potremmo definire questo esodo sanzioni di status: i russi non vengono privati puramente e semplicemente di prodotti ma di quello stile di vita occidentale che, nonostante tutto, rappresenta un modello, tant’è vero che gli oligarchi e lo stesso Putin in Occidente attraccano gli yacht e abitano le ville. Le strade di Mosca, improvvisamente, ricorderanno il dimesso commercio sovietico. Ma una simile evocazione vintage non darebbe conto in modo appropriato di cosa significhi, per un comune un cittadino globale, trovarsi senza la Visa, Netflix e i social media.
Il New York Times, attingendo al materiale del Global Data Base, ha riepilogato qualche giorno fa gli scopi per i quali le sanzioni vengono inflitte, e non c’è dubbio che ce ne siano di eticamente rilevanti: difendere i diritti umani, fermare la guerra, prevenire una guerra, destabilizzare un regime, fermare un conflitto territoriale. Alcune suonano altrettanto bene, e anche meglio, ma l’esperienza ha insegnato a essere diffidenti: ad esempio promuovere la democrazia; altre categorie sono troppo indeterminate: promuovere una politica specifica. Il vero problema, visto che si parla di sanzioni, è la privatizzazione della giustizia, il fatto che non siano per lo più pronunciare da un organismo internazionale bensì da nazioni che sono parti in causa, hanno interessi contrapposti, di rado ci rimettono e non le somministrano in modo equanime: tutto questo giro per dire “ gli Stati Uniti”, che quando non le attuano da soli si tirano dietro gli europei, il Canada, l’Australia, e spesso con la latente (o non latente) minaccia di colpirle indirettamente se non si allineano. Per questo è più prudente, dicevo, riconoscerle come atti ostili che fingere si tratti di una giurisdizione. Il giudizio etico su quell’atto ostile non può che misurarsi sul singolo caso, ed è difficile immaginare che ce ne sia uno più eclatante dell’invasione armata di un paese libero. Peraltro, le condizioni economiche di cui gode un paese nell’insieme della comunità internazionale non dipendono dall’etica ma dalle leggi di mercato e dai trattati commerciali: basti dire che, anche se ormai si tratta nominalmente di una reminiscenza storica, la prima misura commerciale che gli Stati Uniti hanno applicato alla Russia è la rimozione della “clausola della nazione più favorita”. Se pure quindi si ritenesse inappropriato il richiamo di alti principi, rimarrebbe più meritevole che le questioni commerciali e finanziarie si orientino a sfavore di chi scatena una guerra piuttosto che a favore di chi ha un potere di ricatto economico o geopolitico, come avviene quotidianamente.
Quando si scende nel dettaglio dei soggetti colpiti dalle sanzioni, la questione diventa più complicata. Il bersaglio delle sanzioni, in teoria, dovrebbe essere la Russia, non i russi. Ma se lo scopo è di mettere in difficoltà il regime, suscitando il malcontento della popolazione, la distinzione è ipocrita: le sanzioni saranno efficaci (forse), se soffriranno i russi. Ma in questo modo, le sanzioni non cominciano a somigliare troppo ai bombardamenti? C’è differenza tra morire sotto le macerie o morire di fame? Il punto è che la minaccia di far morire qualcuno di fame vuole scongiurare che smettano di morire persone sotto le macerie. Le sanzioni richiedono proporzionalità, ed è per questo che alcune di esse (ad esempio contro l’Iran e Cuba) hanno violato i confini etici. Quando il bastone del potere lo ha quello che si vuole colpire, poi, non si può determinare fino in fondo il corso dei loro effetti: non mi sentirei di giurare che le sanzioni contro il Sudafrica dell’apartheid si siano ritorte solo contro i bianchi. La sanzione contiene un’implicita violenza pure contro delle vittime innocenti, per la verità non così diversa da quella che implicano le ferree leggi di mercato. In un caso come quello della Russia, però, si accompagnano al rifiuto di assistere passivamente a una violenza più grande: non importa se questa volta ci si è mossi ed altre no. Concentriamo le nostre energie sulla prossima, non sulla compensazione al ribasso delle passività o delle ingiustizie.
L’etica delle sanzioni impone un limite territoriale? Evidentemente no, tant’è vero che le principali sanzioni colpiscono i russi sui beni che hanno fuori dal loro paese, e non sarebbe possibile diversamente. Qui, certo, non dovrebbero lambire il russo comune, ma non è sempre facile identificarlo. Certo mai colpire quello che in un altro paese lavora, nemmeno se ha l’immagine di Putin sul comodino. Se però sei il direttore d’orchestra Gergiev, noto filoputiniano, e non spendi una parola non dico di dissociazione ma di pace, mi sembra giusto che Sala affidi a un altro la direzione dell’orchestra della Scala. Per gli studenti è più difficile: raro che quelli all’estero non siano rampolli dell’oligarchia; nondimeno provo repulsione per le misure britanniche di sostegno alle scuole private che tagliano fuori quella nazionalità. Non meritano commento le censure dei seminari su Dostoevskij o i concerti di Ciaikovskij.
A parte l’etica e l’efficacia nell’obiettivo, esiste tuttavia un altro profilo da non perdere di vista: le sanzioni saranno mica controproducenti? Se pensiamo alla ricaduta degli effetti in un’economia globalizzata, è ovvio che, avendo a che fare con un paese come la Russia, le sanzioni fanno danno anche a chi le applica. La vendita del gas russo è quasi una pochade: tagliarlo sarebbe il modo migliore che i russi avrebbero per danneggiare noi, ma poi con quali soldi finanzierebbero la loro armata? E, proprio per l’eccezionalità di un simile introito, sarebbe la vera, sanguinosa ferita che gli europei potrebbero causare all’attuale nemico: ma la Germania ha già chiarito che c’è un limite a tutto, e non è disposta a rimanere al buio o spingere verso il fallimento le aziende (peraltro, alla Germania va riconosciuto di averci rimesso 36 miliardi di euro dalle sanzioni alla Russia per l’invasione della Crimea: “solo” 13 in meno del sanzionato e molto più di ogni altro stato europeo), e non è che gli altri abbiano pulsioni differenti. Un altro lato oscuro delle sanzioni è che i partner che le adottano poi non ne patiscono allo stesso modo: per dire, La Lituania conta sull’export con la Russia per il 5% del suo Pil, la Spagna lo 0,1%. Ecco un’altra occasione di muovere un passo verso l’unità europea e perequare i danni e le risorse per contenerli.
L’altro possibile boomerang riguarda la reazione del sanzionato. Non è che quanto più l’impresa ucraina diventa una catastrofe, economica e militare, e tanto più Putin alza l’asticella, e usa un altro tipo di armi? Intanto, per quanto assurdo possa sembrare, abbiamo nuovamente sullo sfondo una crisi nucleare. Magari per la nostra tranquillità bastassero le pasticche di iodio.
Come ogni problema critico condotto fino in fondo, le sanzioni mostrano un mucchio di crepe, e però non pare che al momento disponiamo di grandi alternative. Volgendo la testa molto indietro, è già un successo che permanga un’onda lunga nella riluttanza a ricorrere alle armi, ed in fondo è proprio quella la ricchezza che dobbiamo difendere da questa Russia. Visto che l’arsenale è quello delle sanzioni prestiamo cura ad affinarle, e mettiamo mano al principale loro difetto: la tendenza a rimanere eterne, che demotiva l’aggressore a retrocedere, tanto sa che ormai non ne guadagna nulla. Le sanzioni, come le operazioni militari, dovrebbero essere oggetto di una negoziazione costante. Mettendo, purtroppo, anche in conto che a un certo punto (molto vicino) sarà più realistico, appunto giocando sulle sanzioni, offrire a Putin una via d’uscita non disonorevole invece di fantasticare su una congiura di palazzo che lo sbalzi di sella. Per poi prendere atto ufficialmente che la Storia non è finita, e anzi tende a deviare su binari sconnessi; e che sulla globalizzazione interdipendente e le scelte energetiche, comunque vada a finire, questa guerra imporrà dei bruschi cambi di direzione.
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