Separare l’opera dall’artista?

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Immaginiamo che, distanza di circa 150 anni, saltasse fuori che la storia di Raskolnikov era autobiografica, salvo il fatto che Dostoevskij non aveva confessato il crimine e anzi non lo aveva neppure sfiorato il pentimento. Dovremmo mettere al bando “Delitto e castigo”? Cambierebbe qualcosa nel giudizio sulla grandezza di quell’opera?

In questi ultimi anni è emersa la questione della separazione tra opera e arte, non tanto dal punto di vista della filosofia estetica (che già è un nodo non del tutto risolto) ma da quello morale: si discute se la cattiva condotta dell’artista imponga la rimozione e l’abiura di quanto ha prodotto.

Quando ci si riferisce ad autori del passato, o addirittura dell’antichità, la questione pare obiettivamente balzana. Del resto non è che prima la venerazione che li circondava venisse giustificata con la loro probità. È raro ascoltare un commento del tipo: “Eppure Omero sembrava una personcina tanto a modo” oppure “Avevo sentito delle brutte voci sul conto di Shakespeare, ma pensavo si trattasse di pettegolezzi” (e in effetti questi due personaggi non è neppure del tutto certo che siano esistiti: più separazione tra l’opera e l’artista di questa!). Ma ci sono due tipi molto diversi di questioni riguardanti l’oblio in cui l’opera dovrebbe cadere per colpa del suo autore.

La prima pietra dello scandalo è quando non c’è apparentemente nessun legame tra l’opera e l’immoralità privata del suo artista, e il problema è solo che quest’ultimo, sotto qualche profilo, era un fetente (un assassino, uno schiavista, un razzista, un sessista e così via). L’esecrazione è particolarmente insensata quando l’artista si limitava a essere un figlio della sua epoca, uniformandosi a schemi mentali diffusi nella maggioranza. Oltre che essere un’assurdità, è pericoloso anche in prospettiva squalificare le persone secondo codici culturali della propria epoca. Un giorno i mutamenti di sensibilità potrebbero cancellare artisti che oggi sono i baluardi di nuove sensibilità, più evolute di quelle precedenti. Virginia Woolf potrebbe essere giudicata ripugnante perché si ingozzava di hamburger (tiro a indovinare, ma se non è lei sarà un’altra) e se tornasse in auge una forma di socialismo, accompagnata dall’abolizione della proprietà privata, potrebbero essere mandati ai roghi i volumi e le tele di tutti gli artisti (presumo la quasi totalità) che oggi possiedono un appartamento superiore a duecento metri quadri e che durante il giorno, quando passeggiano, incrociano indifferenti almeno una ventina di mendicanti.

Il danno di un’opera rigettata per sopravvenuta indegnità postuma del suo autore ricade sulla comunità (l’autore ormai se ne fotte), la quale non beneficia più di quel valore artistico, che pure sarebbe insensibile alle scoperte pruriginose del ceffo dal quale tanto ha fatto per distaccarsi. Già Seneca ammoniva a seguire le sue parole e non le sue azioni, e Oscar Wilde osservava che “rivelare l’arte e celare l’artista è il fine dell’arte”. Se poi vogliamo risalire alle radici di questo legame, saremo costretti ad ammettere che non sono pochi i casi in cui l’opera è frutto di genio e spregevolezza, e che la disinibizione morale dell’artista e le sue pulsioni inconsce sono state determinanti per illuminare le zone oscure della coscienza (uno dei massimi compiti dell’arte).

La seconda forma di scomunica nasce invece, quando la teorizzazione inclusa nel messaggio artistico è direttamente oggetto della critica. “Direttamente” non vuol dire che la perversione sia leggibile a occhio nudo. Sul fatto che Gauguin sporcasse le sue fanciulle polinesiane nello sguardo del sessista colonizzatore si potrebbe discutere. Ma in ogni caso, alcuni vizi di tale approccio sono evidenti. Il bello, nell’arte, non equivale al giusto; nell’arte edificante non è infrequente (anche se per la verità non esclusivo) che l’arte corrisponda a una propaganda di regime (o a un’ingegneria dell’anima, come esigeva Stalin) invece che a una militanza nobile, e comunque non raro che l’intento pedagogico soffochi la freschezza espressiva dell’invenzione; ridurre un’opera artistica a un unico messaggio è quasi sempre un’operazione preconcetta, partigiana e arbitraria (e del resto, pure se simile monolitismo fosse indirizzo dell’autore, zacchete, l’opera quasi sempre scalcia e corre a briglia sciolta verso la meta sua).

Buona parte di queste considerazioni valgono pure per l’ostracismo verso l’artista contemporaneo, al centro di quella che si definisce cancel culture. Se il rigetto dei classici è al momento un fenomeno di nicchia, che viene comodo amplificare per la sua notiziabilità, vi è davvero un innalzamento del livello di suscettibilità verso le deviazioni etiche che ho indicato prima. “Che vergogna, è uno stupratore, e gli hanno dato il premio cinematografico!” oppure “Era un maniaco sessuale, e vorrebbero pubblicargli il libro!”. Tuttavia, se il ragionamento fosse corretto, perché dovrebbe limitarsi alle sanzioni letterarie? I vicini del condominio dovrebbero pretendere che il soggetto si trasferisca da un’altra parte; nei negozi dovrebbero servirlo in fila alla coda; chi lo incontra dovrebbe fargli lo sgambetto. In sostanza questa persona sarebbe meritevole di una condanna alla morte civile. Ma solo perché era un artista? Dovrebbe essere così per tutti quelli che violano la morale (cioè, quelle condotte che sono considerate immorali in certi periodi della storia). Non parliamo poi di quelli che commettono reati. Invece, le leggi che la nostra civiltà ha faticosamente conquistato prevedono che il reo sconti una pena specifica (e al limite qualcuna accessoria), ma non che perda tutti i diritti (non per esempio quello di percepire la pensione che aveva maturato). Anche se si trattasse di un artista, meriterà di essere punito per dei crimini (sempre se risultino provati e lo condannino) ma questo non gli impedirà nemmeno di scrivere un nuovo libro in carcere, e magari di vederlo premiato.

Dato che, come ho detto prima, non c’è solo il problema dell’immoralità privata ma anche quello della trasfusione di messaggi immorali nelle opere, cresce altresì la preoccupazione che la pressione di quel che si definisce (da parte dei suoi detrattori) “politicamente corretto” asfissi la creatività, costringendo l’autore a reprimersi ed evitare argomenti scomodi.

Se però dobbiamo essere obiettivi, questa rivendicazione di autonomia culturale un po’ fa tenerezza, e un po’ fa incazzare. Il problema dell’artista, infatti, non è di sicuro la censura delle femministe o del Black Lives Matter, ma la tirannia del mercato editoriale, o di quello dell’arte o di quello cinematografico, che stanno pesantemente appiattendo la creatività, uniformando la produzione alle richieste del pubblico. Fare un film con protagonisti che rispondano ai criteri del politicamente corretto non ha nulla di differente dall’imporre la piallatura di un testo narrativo complesso o di programmare il milionesimo noir e cestinare un bel romanzo sperimentale (per stendere un velo sul conformismo nel mercato dell’arte). Migliaia e migliaia di artisti, se non hanno la fortuna o la compiacenza di rispondere naturalmente o per scelta di convenienza alle richieste del mercato, trovano ogni giorno più difficoltà a non vedersi stroncata la carriera. In coda, aggiungiamo persino che certe forme di disinteresse etico sono foraggiate dal mercato, perché fanno scandalo (basta che se ne parli!) o tirano, come è il caso dei rapper, specie quelli che non stanno mettendo in scena la brutalità in cui sono cresciuti rimbalzandola in testi aggressivi ma stanno obbedendo impiegatiziamente a un canone estetico che il mercato apprezza.

Sempre per essere obiettivi, se tuteliamo il diritto degli artisti alla loro libera espressione, nemmeno però possiamo negare il diritto alla libera espressione di quelli che non li sopportano. E non solo nel senso che dobbiamo accettare che l’opera e l’artista proprio non gli riesca di separarli nel privato (come Franzen diceva di provare disagio davanti a un quadro di Caravaggio), ma anche che desiderino, nel pubblico, convincere altre persone a pensarla come loro. Gli intellettuali esclamano: ecco, questi selvaggi scatenano una tempesta di merda sui social! Ora, nessuno più di me è convinto che il web sia strutturalmente da riformare (e che questa dovrebbe essere la prima battaglia politica di questi anni), ma per il momento a un carneade che non ha a disposizione le colonne dell’Harper’s, del Guardian o di Repubblica non rimane altra cassa di risonanza che i social. Le sue richieste di boicottaggio sono una forma di pensiero, protetto dalla stessa libertà di espressione degli altri, e se proprio qualcuno è da biasimare si tratta del mercante culturale che le accoglie senza convinzione intima ma solo per ingraziarsi il pubblico.

A voler scendere in profondità il discorso sull’autonomia dell’arte si aprirebbe a molti altri livelli di discussione: dobbiamo porre l’artista su un piano diverso e privilegiato rispetto agli altri intellettuali, come il critico, il filosofo o il cattedratico? Probabilmente no, ma è poi così facile – con la moltiplicazione dei media – identificare oggi la categoria dell’intellettuale? E allora, visto che è così difficile distinguere, non abbiamo altra scelta che affermare tout court la libertà di espressione? E non si tratterebbe di un’ipocrisia, visto che essa incontra dei limiti in ogni cultura, alcuni dei quali sufficientemente condivisi? E soprattutto: come ci si dovrebbe regolare con quelle forme di espressione verbale che si traducono direttamente in un’azione di aggressione o esclusione, oppure nell’invito a esercitarla (come nel caso dell’hate speech)? Ultima domanda: come possiamo evitare di passare dalla sana protezione dell’intellettuale alla insana proclamazione della sua allegra irresponsabilità?

Alla luce di simili domande, l’attuale declinazione del dibattito sulla separazione tra opera e artista si rivela per quel che è, almeno allo stadio attuale: un conflitto tra opposti semplicismi, che si segnala per la sua desolante lontananza dai veri nodi critici della nostra declinante società e dei suoi meccanismi culturali.

Anche se prevale un tono leggero e una gradevole vena di humor, la documentazione è solida, gli esempi fitti e illuminanti

Corrado Augias, Il Venerdì

Un trattato, mica bruscolini. Il trattato, infatti, tipo quelli di Spinoza o di Wittgenstein, è un’opera di carattere filosofico, scientifico, letterario (...) E così è. Nel suo trattato Bassetti espone il come e perché dell’offesa.

Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore

 

C’è un passo in cui di Bassetti dice che questo è un tema sorprendentemente poco esplorato...Non lo è più da quando c’è questo libro

La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio

 

Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:

  1. Hai detto male di me

  2. Hai violato un confine

  3. Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto

Di |2022-01-07T11:29:16+01:0030 Luglio 2021|Limite di velocità|

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