Potrei aggiungere al titolo di questo articolo: e nessuna è positiva.
Vediamole allora, queste sette constatazioni.
1) Le grandi aziende tecnologiche hanno proseguito l’ondata di licenziamenti cominciata alle fine del 2022. Il conteggio, con gli ultimi esuberi di Twitter, Meta e Microsoft, sale quasi a 100.000 solo nei primi due mesi del 2023, già oltre la metà dell’intero scorso anno. Vero è che le corporation avevano massicciamente assunto tra il 2020 e il 2022, quando pareva che la pandemia avrebbe cambiato stabilmente le abitudini di vita. Non si può dire tuttavia che ora le aziende se la passino così male. Quel che hanno patito non sono perdite ma riduzione degli utili, che rimangono pur sempre ragguardevoli (ad esempio Google ha sfiorato i 60 miliardi). Tre dati agghiaccianti si ricavano dalla condotta del settore tech: a) un valore altissimo di profitti non comporta alcun freno a licenziare, se quei profitti sono minimamente intaccati; b) la spiegazione più comune dei licenziamenti, che si stanno susseguendo da un’azienda all’altra sulla scorta di un effetto imitativo, è mandare un messaggio ai mercati quotati (che in effetti reagiscono riapprezzando i titoli in tempo reale). Riassumo: la finanza gradisce che si dia corso ai licenziamenti; c) i dipendenti delle piattaforme tecnologiche sono trattati alla stregua di macchine da disattivare, e così è capitato persino che qualcuno apprendesse del licenziamento perché al mattino il badge di accesso non funzionava. In barba alle sbrodolate del management sulla necessità di perseguire il benessere dei lavoratori, questo è il modo in cui vengono psicologicamente presi in carico i licenziamenti, e dal punto di vista normativo negli Stati Uniti non c’è alcuna tutela né preavviso. Ultima postilla, quasi curiosa: le decisioni sui licenziamenti non vengono sempre assunte (oh, assumere! Che ossimoro ho involontariamente usato!) soppesando almeno la conservazione delle funzionalità, tant’è vero che Twitter è rimasta stesa da una catena di interruzioni del servizio.
2) Anche se mettiamo in conto le precedenti assunzioni, le piattaforme tecnologiche, in relazione al valore e alla capitalizzazione, hanno una quantità di forza lavoro ridicola se comparata a quelli che furono i colossi economici delle precedenti ere industriali, come la Ford o la General Electric. Va bene che si tratta di un’impresa vicina al collasso, ma Yahoo è rimasta con 21 dipendenti. Marathon Digital, l’azienda di Peter Thiel che funge da piattaforma per le criptovalute e tra il 2020 e il 2021 ha assicurato agli investitori più fedeli un ritorno del 4000%, ha dieci dipendenti, meno di un ristorante stellato (Whatsapp, quando Zuckenberg la comprò per 19 miliardi, ne aveva 55). La quasi totalità delle aziende digitali scommette sulla sua capacità di risparmiare sull’occupazione. Al confronto, rimane lodevole la resilienza occupazionale delle aziende non hi-tech che in gran parte, in Europa (in America meno: la Disney ha licenziato il 3,6% dei dipendenti con 162 milioni di sottoscrittori della piattaforma tv), hanno sin qui evitato di ricorrere ai licenziamenti anche in caso di contrazione del lavoro (al tempo stesso, però, tendenzialmente quelle che hanno beneficiato di forti aumenti della produttività non hanno aumentato i salari bensì investito nell’automazione). Risulta così sbilanciato l’appello “non licenziate!” se non abbinato a un parallelo “assumete!” rivolto ai settori a forte automazione. In alcuni casi, peraltro, un simile appello cadrebbe necessariamente nel vuoto: interi aree di disruption fondano la competitività grazie sull’assenza quasi totale del lavoro. Esemplare il caso del settore turistico, con la concorrenza agli alberghi degli appartamenti Airbnb: ipotesi di scuola nella quale nel circuito economico i salari vengono sostituiti dalle rendite.
3) I dati sull’occupazione in tutto l’occidente non sono così negativi, e anzi tra tutti gli indici economici rappresentano il dato più incoraggiante. Ma come vanno letti? Il calcolo degli occupati viene misurato su coloro che sono sul mercato di lavoro: e però questo dato si è sensibilmente ridotto, perché una quantità non indifferente di soggetti si è ritirata, espulsa nella sostanza dal mercato per la certezza di esserne ormai tagliata fuori. Negli Stati Uniti la percentuale di uomini in età lavorativa alla ricerca di occupazione è diminuita dal 97% del 1965 all’89% del 2020.
4) La perdita di posti di lavoro non va ristretta al rapporto tra imprenditori e salariati. Essa è riconducibile alle stesse scelte dei consumatori. Il fordismo non è passato alla storia soltanto per l’applicazione dei criteri tayloristici e la catena di montaggio ma pure per l’aumento delle retribuzioni, con l’obiettivo di fare dei lavoratori gli acquirenti dei prodotti di consumo (nello specifico, di quelle stesse vetture che erano oggetto della produzione). Oggi si è verificata la situazione inversa: i consumatori, per effetto dell’orientamento al risparmio di spesa nell’acquisto, hanno legittimato la corsa al ribasso dei costi di produzione perseguita attraverso le delocalizzazioni industriali in paesi dove il lavoro viene remunerato e svolto pesantemente al di sotto dei nostri standard sindacali; o hanno favorito il decollo delle alternative a basso o inesistente costo di lavoro (come nell’esempio turistico che ho richiamato prima). I consumatori sono dunque divenuti gli antagonisti dei salariati. Il paradosso è che si tratta sovente dei medesimi soggetti: se quindi il fordismo fece sì che i lavoratori divenissero anche consumatori, il moderno liberismo globalizzante ha prodotto il fenomeno di consumatori che riducono la probabilità di rimanere lavoratori ( evento la cui parabola conclusiva è l’inevitabile riduzione o cessazione del loro potere d’acquisto in quanto consumatori).
5) L’intelligenza artificiale assottiglia, attraverso l’automazione, le prospettive future del lavoro. Esiste una contrapposizione dialettica trai pessimisti e gli ottimisti, i quali ultimi sottolineano come la storia delle innovazioni tecniche abbia sempre prodotto un aumento finale della forza lavoro. Che le cose questa volta possano andare diversamente lo teorizzano, con argomenti convincenti, non dei comunisti ma due imprenditori, con due argomentazioni illuminanti che evidenziano la rottura col passato dell’automazione prodotta dall’intelligenza artificiale. Jerry Kaplan osserva che, se è vero che l’economia americana è riuscita a smaltire senza traumi (se ci astraiamo dall’alienazione e dalle ricadute psicologiche) e ad assorbire nell’industria i fuoriusciti dall’agricoltura, è vero pure che il fenomeno si è diluito in un secolo, e anche più: cosa sarebbe accaduto se il rimpiazzo fosse stato da completarsi in un paio di decenni? Martin Ford, dal canto suo, ha osservato che le rivoluzioni tecnologiche del mercato hanno inciso su un settore per volta: la meccanizzazione agricola ha distrutto milioni di posti di lavoro, che tuttavia hanno potuto trovare riparo nel settore manifatturiero. Ma l’IA agisce in simultanea, con una diffusione relativamente indiscriminata: qualunque industria incorporerà le sue trasformazioni. Non ci sarà un settore più arretrato in grado di assorbire quelli che la robotica ha espulso da un altro settore.
6) La prospettiva del risparmio di costi grazie all’IA spinge ad automatizzare, e i lavoratori si trovano a fare da collaudatori per i robot che li sostituiranno. Si dice che il futuro del lavoro stia nella collaborazione tra IA ed esseri umani: intanto i secondi sono diventati le ancelle della prima. Alcuni lavori umani consistono addirittura nella simulazione di essere un robot. Kate Crawford cita l’esempio della start up x.ai, produttrice di assistenti personali digitali, che fa riscrivere e controllare ai dipendenti ogni singolo messaggio dell’IA “Amy”, con turni di quattordici ore per sostenere l’illusione all’esterno di un servizio automatizzato 24 ore su 24. Sono, questi lavoratori già robotizzati per mestiere, la coda di quel 44% di lavoratori americani impiegati in lavori a basso salario che forniscono un reddito medio di 18.000 dollari all’anno. Non si tratta di modelli direttamente trasponibili in Europa ma certo non vengono da un altro pianeta, anche perché queste politiche sono portate avanti da multinazionali che guadagnano ovunque fette di mercato, come quelle che schiavizzano i rider.
7) L’aspetto più terrificante di tutto ciò è che il riformismo della politica consiste si esaurisce nella difesa di questi posti di lavoro (stringendo un po’ la vite sulle garanzie sindacali; quando proprio si alza la voce si invoca più smart working – con tutte le sue ambiguità – e reclamano più risorse per la formazione, che dopo due mesi sarà già obsoleta), un tempo descritti come un’inaccettabile aberrazione (il caso di Amazon, al riguardo, è piuttosto esemplare).
Questi sono i temi, oggi, del lavoro. Chi si ricorda più dei dibattiti sulla partecipazione gestionale dei lavoratori nelle decisioni delle imprese? Chi ha memoria dello slogan lavorare meno lavorare tutti? Chi ha voglia di riaggiornare (in peius) il concetto marxista di alienazione? In quale soffitta sono finite dismesse le discussioni sulla trasformazione del lavoro e sul ripensamento culturale del suo ruolo esistenziale? Chi ha seriamente dato seguito alle varie proposte fiscali di compensazione redistributiva dei profitti perseguiti mediante l’automazione o di quelle che volevano ripristinare un legame tra aumento della produttività e salari? Quante sono le aziende che, quale vessillo della responsabilità sociale, hanno puntato, in luogo della lodevole ma vampirizzante sostenibilità, sugli impegni di valorizzazione e conservazione del lavoro? E quanti consumatori sono disposti a indirizzare la spesa in funzione di questa variabile?
Pare davvero che tutti siano troppo occupati per discutere seriamente di occupazione.
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