Consigli dentro vari generi musicali. Lontani delle classifiche.
Certi ripescaggi fanno gridare allo scandalo per il tempo che l’industria discografica ha impiegato a estrarre piccoli capolavori dal dimenticatoio.
Ethel Smyth, oltre che musicista, fu una femminista inglese militante, e compose l’inno per il movimento del suffragio delle donne. A causa di atti di disubbidienza civile le toccarono un paio di mesi di carcere londinese e il celebre Thomas Beecham, che ne era amico ed era venuto a renderle visita, la osservò dirigere, dalla finestra della sua cella e con lo spazzolino da denti, un coro di suffragette che marciavano incatenate nel cortile. Quasi replicò Beethoven e a lungo continuò a comporre sul precipizio della sordità. La Chandos ci fa scoprire, risalente al 1930 circa, questa singolare sinfonia per soprano, baritono basso, coro e orchestra che potrebbe considerarsi una breve opera lirica cui partecipano due voci soliste: quella maschile del prigioniero che attende il giorno dell’esecuzione e quella femminile della sua anima. Seguendo una certa assonanza con gli oratori di Mendhelsson ma pure con le parti orchestrali delle opere di Massenet, ogni passaggio di The prison– nonostante il doloroso tema- infonde un’incredibile serenità.
Debussy come non lo avete mai sentito. Non è certo un’interpretazione filologica ma ha il pregio dell’originalità l’esecuzione dell’elegante pianista messicano Jorge Federico Osorio che, nel suo “French Album” propone la Pavane op. 50, Les collines d’Anacapri o soprattutto Clair de lune come se fossero state trascritte da Granados, con sincopi e accenti che forse faranno rivoltare Debussy nella tomba ma ne propongono una prospettiva inedita e affascinante. Orioso si cimenta con Rameau, come moda esige, ma lo spegne in uno strano rigore geometrico bachiano. E offre invece il meglio nella brillantezza salottiera di Chabrier, che era temperamento schiettamente mediterraneo.
Tra le espressioni svuotate e rese irritanti da una pedante serialità la qualità di conciliare “la tradizione con la modernità” merita un posto di rilievo. Si deve tuttavia riconoscere come essa ben fotografi la ventiquattrenne Connie Han, americana di origine cinese dal naturale senso di leadership, che imprime al piano Steinway e al Fender Rhodes un coinvolgente stile percussivo jazz alla McCoy Tyner- ascendenza dichiarata. E’ una gagliarda compositrice: cinque brani su dieci in “Iron starlet” sono suoi e solo due sono standard (gli altri tre sono del mentore, producer e bassista Bill Wysake). Al suo trio ha aggiunto il trombettista Jeremy Pelt e il sassofonista Walter Smith che combinano felici e riscaldanti sovrapposizioni.
Non lontana dal classicismo jazz è anche la band di Omer Avital, il “Mingus israeliano” che raccoglie newyorkesi dalle radici mediorientali e yemenite e allestisce un fracasso afro-americano ed ebraico graziosamente melodico, e poliritmicamente trascinante ( ed è quasi musica a programma del caos urbano newyorkese). In questo “New York Paradox” la consonanza è con Art Blakey, con qualche garbata virata funky che richiama persino Billy Cobham. C’è qualche astuzia cantabile che certamente cattura pure orecchi meno raffinati, anche in virtù della sua allegria di fondo, ma tutta la solidità di un maturo post-bop di impronta coltraniana e una carica traboccante di energia.
Chissà perché viene classificato di solito come jazz anche il chitarrista Gordon Grdina. La sua ultima uscita “Safar-e-daroom” distilla musiche arabiche e persiane condotte dai fiati, alle quali la chitarra nomade di Grdina dona in contrappunto una ricchezza espressiva più complessa. E’ piuttosto world music avant-garde, come prova il fatto che Grdina sia canadese (e offre un pregevole terroir nel conclusivo Gabriel James).
Nicolas Jaar, dopo un silenzio meditativo di due anni, stupisce il suo pubblico recidendo i legami con la dance e l’impegno politico che ne avevano caratterizzato l’esordio e con “Cenizas” (concepito insieme a Patrick Higgins) sforna un disco spigoloso e fortemente spirituale, costruito per sottrazioni, di singolare rumorismo minimalista, che esige di andare oltre il primo ascolto. Dal punto di vista degli umori e dell’intensità potrebbe essere un Arvo Part in versione elettronica, ma a essere più precisi è una riesplorazione delle sonorità dei Popol Vuh, coerentemente a contatto con i mantra. Nelle poche occasioni in cui distenda anche la voce sembra di sentire il vecchio Anthony & The Johnsons.
Il rock degli ultimi anni è assai avaro di sorprese e capacità di rinnovarsi, e gli esiti tutto sommato migliori si hanno quando qualcuno riesce a far riemergere suoni già ascoltati, senza che tuttavia risultino esageratamente logori. Il primato 2020 di una simile freschezza non a caso nasce nella scena indie dublinese, tra le più vivaci del momento; non a caso è post-punk, il sottogenere che sembra avere ancora cartucce da sparare, dopo una lunga stasi; e non a caso la band sono i Fontaines D.C. che avevano inaugurato la carriera nel 2019 con un album acclamatissimo che omaggiava la poesia burlesca di matrice proletaria. In questo secondo, “A Hero’s Death” compiono un salto cosmopolita, e infilano undici brani di alto e costante livello dove i riff ricchi di personalità percuotono lo spleen dei testi e la voce preziosa dell’antidivo Grian Chatten. Le influenze sono impossibili da contare, e comprendono molto britpop, gli U2, gli Stooges: ma su tutto prevale l’ombra degli Smiths (ad esempio in Love is the Main Thing e Oh Such a Spring). Però nulla è copia o calco. E il pezzo finale, No, ci fa viaggiare al di fuori del tempo.
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