Cominciamo da quelli che in realtà nuovissimi non sono, perché sono usciti a inizio 2022 ma sarebbe un peccato se vi fossero sfuggiti. E sono diversi tra loro, che più diversi non si può.
Il primo è paradisiaco nel titolo e nella realizzazione. In Eden la soprano Joyce DiDonato dimostra come una vocalità forgiata nella musica barocca, specialmente in Handel, con una non esagerata rimodulazione possa raggiungere il suo splendore nel repertorio novecentesco. Eden è musica a programma avente a oggetto il nostro rapporto con la natura, e naturale rende il passaggio repentino da Mahler a Biagio Marini. I primi due brani, l’ululante e cosmico (così lo rende l’arrangiamento degli archi impastato con la meravigliosa e qui fantasmatica voce della cantante) The Unanswered question di Charles Ives e il faunistico, celestiale e ornitologico (dovrebbe richiamare il canto degli uccelli) The First morning on the World di Rachel Portman raggiungono una bellezza assoluta, forse non ancora eguagliata da altre uscite liriche del 2022.
Il secondo è un trio scozzese-nordico che offre un guizzo di felicità in una stagione della world music sin qui stranamente sbiadita. Si tratta di un esordio e in Italia circola quasi clandestino. Le Lyre Lyre sono un trio tutto femminile il cui segreto è la magica e insolita composizione degli strumenti, o più precisamente l’incastro dentro il violino e il violoncello di una mandola norvegese. La fluidità melodica di Gin and Statsphey è incantevole, l’equilibrio tra sviluppo dei temi e ripetizione egregio, l’atmosfera sorridente e non ridanciana. All’attacco sembra musica irlandese ma poi si svaria, fino a lambire i ritmi mediorientali.
Il terzo ha un’eco più lontana, perché fa parte della riscoperta di Florence Price, la prima compositrice americana a essere eseguita da un’orchestra sinfonica, nel 1933. Sotto la direzione di Yannick Nezet-Segun possiamo ascoltare due delle sue tre sinfonie, la prima e la terza (la seconda probabilmente non la ascolteremo mai perché è andata perduta). Sarebbe un peccato ridurre il valore del disco all’aspetto politico; ed errato ridimensionare la sua specifica originalità, esclamando: “ma ha preso tutto da Dvorak!”, come di solito si usa per riportare sotto la tutela bianca i compositori di colore degli anni ’30 (e certo la parentela musicale sarebbe una bestemmia negarla). C’è tuttavia nella prima sinfonia, proprio quella che ha consegnato Price alla storia, un alfabeto di richiami spiritual e folk che con Dvorak hanno poco a che spartire. E anche se sono comunque ascrivibili al genere più melodico del sinfonismo americano, all’epoca era proposta con l’etichetta di “The negro in music” (così si chiamava la rassegna che ospitò la prima esecuzione) e in qualcosa si staccava dal canone. Nel caso di Price questa varianza ha sì a che vedere con l’ascesa del jazz nello sbarazzino e gioioso terzo movimento, ma soprattutto risuona nelle frasi di chiamata e risposta negli ottoni dell’adagio, singolarmente accompagnate da tenui percussioni africane e dal direttore Nezet-Segun comparate all’organo da chiesa. La terza sinfonia è formalmente anche più elegante, però più prevedibile.
Complichiamo l’ascolto con un disco spigoloso e sperimentale, eppure a tratti ipnotico e affascinante. Un disco vocale, nel senso più estremo nel termine. Heloise Werner, compositrice e violoncellista francese qui mette in primo piano il suo funambolismo sonoro, compiendo acrobazie inverosimili, che sarebbero persino utilizzabili come studi glossolalici. Una parte dei brani non possono propriamente considerarsi musica (soprattutto quelli composti da Aperghitis), semmai performance attoriali germinanti da mescolanze di inglese e francese che sfociano in una specie di gramelot intervallato da acuti. Ma ci sono anche momenti che evocano un po’ un vocalismo minimalista-dadaista in stile Einstein on the Beach, specie nel brano di Nico Muhly, che oltre ad essere un epigono del minimalismo glassiano ne è spesso un trascrittore. Più ammirazione che emozione (e sentito di fila un eccesso di grevità), ma un talento incredibile dal quale è lecito aspettarsi tanto in futuro.
L’entusiasmante uscita in orbita rock di questi tempi è Heaven Come Crashing il secondo album di Rashika Nayar, chitarrista transgender americana di origine indiana che regala una musica di identità fluida, ancorata nell’ambient elettronico e nel post-rock. Per farsi un’idea di partenza, i Tortoise non sono lontani, ma è come se gli strati sonori fossero quadruplicati. Bene ha scritto Bandcamp: Nayar riesce a creare una musica fortemente emozionale, che è al tempo stesso espansiva ed intima. E rispetto al classico ambient si sposta in ogni brano senza sosta, alternando tale compito di avanzamento alla sua chitarra o compattamente ad archi e sintetizzatori.
Forse la patente di miglior album di esordio sassofonistico jazz dell’anno, spetta sin qui a Jump, dell’argentina di stanza a New York Julieta Eugenio, in trio. Tutte le composizioni sono state scritte dall’artista, e la facilità melodica è impressionante. Caldo, post-bop, con un riferimento stilistico nel vibrato di Ben Webster e una certa morbidezza alla Stan Getz, che forse mi viene in mente perché percepisco (non so se per suggestione) il background delle danze sudamericane e un filo di saudade.
Se poi voi volete chiudere in rilassatezza totale ecco che arriva Melody Gardot, americana da cinque milioni di dischi venduti, trentasettenne che canta con una voce di dieci anni più grande (spesso, e come in questo caso, un pregio nel canto femminile poco più che sussurrato), passata dal free jazz con Charlie Haden a un più commestibile pop-jazz. Ma ora plana su un felicissimo Entre eux deux, in duetto con il pianista alla Bill Evans- leggermente pianobarizzato- Philippe Powell, figlio del grande chitarrista Baden Powell. Soave, minimalista, da serate al lume di candela, con Gardot che dà il meglio in lingua francese, e il meglio ancora quando Powell le risponde in portoghese, e meglio di tutto poi quando omaggiano papà Baden con una versione di Samba en preludio in grado di pacificare qualunque sordo rancore.
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