Perché si parla tanto del silenzio

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Siamo seduti a fianco alla persona che amiamo, entrambi avvolti in un silenzio che si prolunga per diversi minuti. Cosa significa? Siamo arrabbiati? Non abbiamo più niente da dirci?
O piuttosto stiamo toccando il vertice dell’intimità, consentendoci il lusso di scavalcare la recinzione della parola (come mai potremmo fare per più di dieci

secondi in compagnia di un conoscente senza che si generi imbarazzo)?

Un esempio di questo tipo rinforza l’idea che il silenzio sia ambiguo: se non conosciamo ciò che lo precede non possiamo assegnargli significato. Ma non è lo stesso anche per la parola? Non ci è ben noto che la più feroce manipolazione del vero non è quella che riferisce di parole mai pronunciate ma quella che le esclude dal contesto che le conteneva? La consapevolezza che il linguaggio è il nucleo centrale dell’uomo ha condannato a lungo il silenzio a una condizione di sospetto, relegandolo ad ambiti specifici e radicali (come il carcere o il convento). Parlare di silenzio sino a poco fa era un ossimoro.

 

Negli ultimissimi anni, al contrario, il silenzio sta conquistando un crescente interesse editoriale, rispecchiando una domanda di mercato, e dunque una diversa attenzione sociale. Circola persino la moda di infilare il silenzio dove non c’entra nulla, che si tratti della mostra sulla natura morta spagnola o del dibattito sul “silenzio” della giustizia. Fattori propulsivi ne sono il successo delle forme di meditazione orientale, la saturazione acustica indotta dall’urbanizzazione, le forme tecnologiche di interazione sociale (che spingono in senso contrapposto, rendendo prolissamente verbale la distanza e spesso muta la prossimità), la maggiore distanza storica e geografica che intercorre con regimi politici che spogliano i cittadini della parola. Già quest’elenco, tuttavia, evidenzia come ciò che definiamo silenzio abbracci una serie di fenomeni totalmente eterogenei. Quel che li accomuna è che il silenzio viene sempre più presentato e percepito come una componente desiderabile dell’esistenza.

 

C’è comunque una confusione da dissipare. Dietro la generica nozione di silenzio quale opposizione al suono, esistono tre distinte categorie di silenzio: il silenzio rispetto alla parola, il silenzio rispetto al rumore e il silenzio rispetto alla libertà. Per decidere quando un silenzio sia cosa buona piuttosto che cattiva, in una data situazione, bisogna prima di tutto capire in quale di questi ambiti ci troviamo e poi decodificare quel silenzio. Una complicazione nasce dalla mancanza di intesa sui suoi opposti. Per molti cinquantenni il rap è più un rumore che una musica, mentre a un ragazzo in linea di principio viene la pelle d’oca quando lo investe acusticamente la perforazione di un trapano: salvo scoprire che il trapano proviene dal vinile di un cinquantenne che sta ascoltando con goduria gli Einzurstende Neubaten. Anche al di fuori della musica si potrebbe parafrasare Robbe-Grillet: il rumore è il suono prodotto dagli altri. E d’altronde lo scorrere del ruscello e il canto degli usignoli, cui tanti ambiscono nella cornice idilliaca del silenzio campagnolo, terrebbero sveglio con gli occhi spalancati colui che si assopisce indifferente (o meglio, sordo per assuefazione) ai rumori della strada trafficata.

 

Spero sia chiaro cosa intendo, invece, riguardo al rapporto tra silenzio e libertà, tema di solito assente o marginale nella riflessione teorica (anche nel libro di cui mi accingo a dire). Certo, è una libertà quella di “fuggire dal rumore del mondo”, per chi se la può permettere. Ma qui mi riferisco all’esercizio della libertà individuale e collettiva di scegliere tra la parola e il silenzio: odiose come sono le costrizioni verso l’una o l’altro. Negli studi sulle discriminazioni, curiosamente, si studia soltanto l’obbligo di tacere e non la violenza, ancora più sottile, di essere costretti a rompere il silenzio che la dignità esigerebbe di mantenere. Il corrispettivo di quell’esortazione all’indipendenza intellettuale che è “dillo con parole tue!” è: “taci con silenzi tuoi!”.

 

 

 

Il recente volume di David Le Breton, Sul silenzio, pubblicato per Raffaello Cortina, si propone, nel suo accattivante indice, come il primo testo che tenta di inseguire il silenzio nella sua pervasiva presenza sociale (ad onta del sottotitolo “Fuggire dal rumore del mondo” che dà conto solo di un piccolo pezzo del libro, con tanto di sedia a sdraio davanti al mare su una spiaggia solitaria. Se c’è la sdraio, però, sempre uno stabilimento balneare è… speriamo almeno che non vi pratichino la ginnastica dolce con la techno-trance). La promessa però non viene del tutto mantenuta. Ripetendo il difetto degli autori che lo hanno preceduto, Le Breton di rado sfugge al vezzo di affogare nelle citazioni dei classici e di risolvere nel linguaggio dell’ermetismo mistico la presunta identificazione tra silenzio e indicibile, producendo insomma un dicibile a metà (e quando prova ad affrontare l’argomento in modo diretto scivola spesso nel banale). La parte decisamente più riuscita è il capitolo intitolato “Politiche del silenzio” (a proposito del fatto che la parola è assai più ambigua del silenzio: è un titolo fuorviante, meglio sarebbe stato parlare di “strategie”) nella quale Le Breton riassume felicemente la difficoltà di interpretare i singoli silenzi: “il silenzio non è una sostanza, è una relazione”. E giustamente aggiunge che “la sua efficacia nell’agire sull’altro, nel trasmettere un senso e nell’alimentare le condotte non è inferiore a quella del linguaggio. L’eloquenza non è soltanto questione di parole, ma questione di silenzi che la dicono lunga”. In effetti nelle scuole di eloquenza si studiavano le pause e le omissioni, e alcune di esse avevano anche dignità di figure retoriche.

 

Le Breton recupera due splendidi esempi narrativi per raccontare silenzi di resistenza, “ritiri simbolici in un silenzio che diventa testimonianza di una dignità oltraggiata”. Ne Il silenzio del mare di Vercors, un vecchio e sua nipote ospitano forzatamente un giovane ufficiale tedesco durante l’occupazione nazista in Francia. Il militare è una persona sensibile (come verrà confermato dalle sue scelte finali) che si ostina a “conversare” con i due padroni di casa nonostante il loro ostentato mutismo di protesta. Ne I muti di Albert Camus un padrone di fabbrica umilia gli operai facendo trovare loro chiuso il cancello dopo che ha vinto un duro contrasto sindacale sulla decurtazione degli stipendi. A quel punto il rapporto, che era stato rispettoso anche nella vertenza, si incrina e gli operai ricambiano l’umiliazione del datore di lavoro negandogli in blocco le loro parole e frustrando i suoi abituali tentativi di colloquio caloroso e i tentativi di giustificarsi.

 

Tra i silenzi rispetto alla parola rientrerebbero anche quelli cosiddetti “metafisici”, ed in particolare il dibattuto silenzio di Dio e il silenzio promosso dal buddismo. E in queste parti, che pure sarebbero fertilissime di ragionamenti cristallini, Le Breton gira un po’ a vuoto, limitandosi a riecheggiare, come dicevo, le formule dei mistici e dei maestri zen, senza troppa cura di accompagnare il lettore (e neanche se stesso) nello scioglimento degli enigmi che trasportano.

Forse però la principale delusione è che, alla fine del libro, i lettori si ritroveranno nella stessa condizione della partenza: senza nuovi appunti d’appoggio per comprendere in quale modo le strutture istituzionali e sociali siano ordinate e rese comprensibili dai silenzi che le attraversano. E senza, insomma, una grammatica del silenzio, costretti ancora a nascondersi dietro la sua ambiguità, nonostante l’analfabetismo del silenzio nuoccia almeno quanto quello della parola.

 

Di |2020-09-11T15:13:29+01:0026 Ottobre 2018|Limite di velocità|

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