Signori si nasce. E io lo nacqui.
Sarebbe potuta cominciare con questa citazione di Totò il saggio di Luca Ricolfi, La società signorile di massa, pubblicato da La Nave di Teseo, che da qualche mese spopola nelle librerie. E se il problema dell’Italia non fosse che stiamo cadendo in miseria ma che invece siamo ancora troppo ricchi, o come minimo consumiamo come se lo fossimo? Siamo il paese di quelli che ricchi sono nati e si adagiano sul patrimonio familiare per fare i mangiapane a ufo?
Ricolfi, oltre che una persona amabile, è un sociologo colto, intelligente e con il gusto delle opinioni non convenzionali. Scrive anche bene, quindi a leggere un suo libro non ci si perde mai, per quanto uno possa trovarsi alla fine in disaccordo con una quota discreta delle sue argomentazioni (e non bisogna lasciarsi ingannare dall’apparente oggettività dei dati che accompagnano gli argomenti: ci sono ampi margini di disaccordo).
Come ogni tesi esteticamente graziosa quella di Ricolfi si può riassumere agevolmente, per lo più attingendo alle parole dello stesso autore. Per società signorile di massa egli intende “una società opulenta in cui l’economia non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavorare sono più numerosi dei cittadini che lavorano”. Ricolfi riconosce il suo debito con l’insegnamento di Claudio Napoleoni per cui “l’essenza della società signorile è l’esistenza di un gruppo sociale, in passato costituito dai nobili, dai guerrieri e dal clero, che ha il privilegio di consumare il sovraprodotto o surplus, senza contribuire in alcun modo alla sua formazione”. Così per Napoleoni “era il consumo signorile dei ceti parassitari, e non lo sfruttamento del lavoro operaio da parte dei capitalisti il vero male della società italiana”.
Una società di questo tipo è per definizione statica e improduttiva, priva com’è di quel “moto perpetuo impresso al capitale” nelle società capitalistiche.
Cosa accade oggi? Che al consumo opulento si accompagna una crisi della crescita, dunque una fase di stagnazione. Si verificano quindi le condizioni della società signorile. Ma, aggiunge Ricolfi, con la particolarità che i consumi opulenti sono propri di un’ampia maggioranza della popolazione. “I signori sono più numerosi dei produttori”.
Ecco dunque le sue tre condizioni della società signorile di massa, che ricorrerebbero solo in Italia e ne farebbero un sistema unico nel mondo sviluppato:
- Il numero di cittadini che lavorano ha superato il numero di quelli che lavorano.
- La condizione signorile, ovvero l’accesso a consumi opulenti da parte di cittadini che non lavorano, è diventata di massa.
- Il sovraprodotto ha cessato di crescere, ovvero l’economia è entrata in una fase di stagnazione o di decrescita.
A riprova del primo punto Ricolfi produce le statistiche Istat da cui risulta che solo il 39,9% degli italiani lavora contro un 52,2% che lavora (il restante 7,9% è costituito dagli stranieri, alla cui presenza come vedremo tra un attimo il sociologo attribuisce un rilievo particolare). All’interno di questa statistica, un’ulteriore precisazione è che fra i cittadini italiani ultraquattordicenni la percentuale di coloro che non lavorano è superiore al 50%.
Per quanto concerne il secondo punto vi è il problema di definire in cosa consista il consumo opulento, e Ricolfi propende per l’uso di beni che “visti con gli occhi di chi era adulto ai tempi dell’austerità (quella degli anni settanta) sono beni voluttuari, o di lusso, talora persino frivoli, segnali inequivocabili di una società arrivata”, ad esempio, pescando nella sua elencazione, la seconda casa al mare in montagna, la costose attrezzature da sci, il multiforme mondo dei cibi alternativi, lo sterminato esercito dei medici dell’anima per arrivare ai consumi tecnologici. Per fissare questa costellazione materiale in una definizione statistica che coincida con la società signorile di massa: “nella popolazione nativa il surplus, ossia il consumo che eccede i bisogni essenziali, supera il triplo del livello di sussistenza” ovvero (“il consumo medio supera il quadruplo del livello di sussistenza”).
Ma come potrebbero permettersi questi parassiti di vivere da signori, consumando al pari di quelli che almeno lo status signorile se lo guadagnano lavorando? Quali sono le condizioni che consentono una simile magia di riproduzione delle risorse?
I pilastri di un simile assetto economico sarebbero tre:
- L’enorme ricchezza reale e finanziaria che – nel giro di mezzo secolo – è stata accumulata da “due ben precise generazioni: quelli che hanno fatto la guerra e quelli che non ne hanno vista una”, realizzato attraverso i rendimenti offerti dall’espansione del debito pubblico e dalle bolle speculative sui mercati finanziari e immobiliari.
- La distruzione della scuola con il suo abbassamento dello standard di istruzione. E che c’entra, direte voi? C’entra perché mette in circolazione laureati troppo scadenti per aspirare a posti significativi e che tuttavia hanno alte aspirazioni – e anche ricchezze familiari alle spalle – e quindi rinunciano a carriere che non considerano alla loro altezza e rimangono volontariamente senza lavoro. A un certo punto subentrerebbe in loro un “subconscio successorio”, la tranquillità che quando tutto manca, seppelliti avi e genitori, rimarranno come paracadute i beni di quelli, magari mettendoli a reddito (Airbnb non farebbe altro che aggiornare un’antica strategia dei nobili decaduti).
- La formazione in Italia di un’infrastruttura paraschiavistica, cioè l’occupazione in ruoli servili e di solito prossimi allo sfruttamento da parte di un nuovo gruppo sociale, gli immigrati.
È un buon modello dal punto di vista morale? No, perché comporta un forte impoverimento culturale. È sostenibile economicamente per il futuro? No, se l’Italia non risolve il suo cronico deficit nell’aumento della produttività. Da cosa dipende questa bassa produttività? In primo luogo dall’ipernormazione che “moltiplica i centri decisionali e gli adempimenti, complica le procedure, allunga i tempi di autorizzazioni, e per questa via aumenta i costi di produzione”.
Questa la struttura essenziale, in sintesi. Un libro a tesi, ma non sposato a una ferrea ideologia esterna visto come passa da un condivisibile radicalismo marxista sulle condizioni di lavoro (l’infrastruttura paraschiavistica) all’argomento tipicamente liberista e filobrexit della burocrazia zavorrante.
C’è tuttavia una tradizione culturale, sottilmente patriottica, cui il libro non si sottrae ed è l’eccezionalità italiana: l’idea che il nostro paese, e chi lo abita, abbia sempre qualcosa di unico e straordinario; e per dimostrarlo si è disposti a denigrarlo (con l’esplicitazione e il sottinteso che quell’eccezionalità negativa qualche forma di genialità l’abbia concepita, e che quando si tratta di rimboccarsi le maniche e poi inventarsi stili di vita gli italiani non li batte nessuno).
In realtà, sul fatto che nel mondo la rendita cresca più dei redditi Thomas Piketty ha da qualche anno pubblicato un illuminante volume; e che la produttività sia stagnante non è certo un problema italiano (per quanto in Italia accentuato dalla frammentazione del tessuto produttivo).
E sarà poi vero che abbiamo tutti questi non-lavoratori rispetto ai lavoratori, e in misura crescente? Per saperlo bisogna fare riferimento alla popolazione attiva, cioè fermare il dato prima dell’età pensionabile, perché altrimenti viene influenzato dal declino demografico (quello sì, in Italia, molto sopra la media): si scopre così che il tasso di occupazione è aumentato sino al 58,52% (presumibilmente una stima per difetto se se aggiungiamo il sommerso). Andare a contare fino a 100 anni è suggestivo per la tesi: ma a quel punto distinguiamo all’interno delle pensioni quelle di reversibilità, e sosteniamo anche che sono in parte i morti a finanziare i consumi dei vivi! Per non dire del fatto che in un calcolo di questo tipo finiscono tra i parassiti proprio quegli anziani che hanno generato ricchezza e pure le donne che si sono dedicate alla famiglia, e che generano ricchezza per un altro verso.
Se è ai giovani, e alla loro disoccupazione volontaria, che dobbiamo arrivare, focalizziamoci su loro. Il brutto è che i dati non li abbiamo, o almeno non abbastanza da sapere quanti rifiutano un lavoro che farebbero bene ad accettare. Non li ha neppure Ricolfi (attenzione dunque a non seguire questa parte del suo ragionamento come se fosse il naturale fluire delle statistiche precedenti), tant’è che a un certo punto la dimostrazione passa per la testimonianza di un pizzaiolo gourmet del torinese, che lamenta di ricevere, alle sue offerte di lavoro, telefonate di gente che non vuole lavorare al locale la sera o nel week-end. Solo che, siccome il mondo è piccolo e Torino ancor più, capita che io conosca come particolarità di quella pizzeria che vi sia transitato qualche anno ad impastare il lievito, umile e indefesso, un eccellente giornalista professionista, per sovrappiù laureato in legge (e non mi è parso che ne abbia ricavato incentivo, né in loco né nella memoria del datore di lavoro che lo omette dalla sua casistica di ‘sta povera Italia di fancazzisti).
Quanto al monitoraggio dei consumi (che essendo di lusso dovrebbero tendere al rialzo), la domanda interna in Italia segna addirittura un regresso. Più di quel che Ricolfi vuole ammettere c’è una sostituzione di consumi e l’inclusione tra quelli che le persone considerano basici in quanto posizionali di alcuni in luogo di altri. Però l’osservazione per somiglianze fila molto meglio tra metropoli diverse che dentro le nazioni. Una buona parte del consumo che lui menziona (si pensi a quello legato al food) mi sembra che renda assai più affini i ceti medi di Roma, Barcellona, New York od Ho Chi Min City che non gli italiani di Milano e quelli di Roccamonfina.
Ma quel che manca, per dimostrare che il consumo signorile è di massa, sono proprio i dati, giacché quelli
proposti come definitivi non lo sono: sforbiciando i redditi dei poveri, Ricolfi calcola per una percentuale elevata della popolazione italiana un reddito medio disponibile di 55.000 euro e un consumo di 40.000. Ma sempre una media è: il sospetto (quello che l’autore vanamente vorrebbe sradicare) è che all’interno di quei redditi vi sia stata una redistribuzione verso l’alto che ha eroso il potere di acquisto della classe media, e che quella classe media tende progressivamente a far scomparire. Ma, di nuovo, entriamo in un fenomeno che va ben oltre i confini nazionali.
Non è quindi che il testo contenga falsità. Vi è davvero una discesa della propensione al risparmio generata dall’imitazione di consumi che più di una volta è facile omologare almeno nell’apparenza, ma che cela una crescente disuguaglianza e prepara l’esplosione di una bolla di quei consumi. E per il momento origina una società signorile diffusa, definizione meno accattivante che signorile di massa: una condizione variamente non sostenibile, anche per ragioni che nel libro sono omesse. E per criticarla non è poi un male il moralismo di richiamare l’attenzione sulle responsabilità individuali purché non si spenga troppo il riflettore (e questa analisi ne porta con sé il rischio) sulle condizioni sistemiche, che riconducono a una crisi strutturale del sistema capitalistico, della quale gli ultimi arrivati hanno veramente poche colpe.
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