La foto che trovate sopra questo articolo è stata scelta con grande cura. Non c’entra assolutamente niente con l’argomento, eppure è l’unica che veramente può rappresentarlo.
Più avanti, nell’articolo, vedremo quale sarebbe esattamente la foto che dovrebbe commentare l’articolo, ma non posso utilizzarla perché ho la necessità di buggerare Facebook.
Se avete pazienza un attimo, vi spiego tutto. Vi spiego anche perché ho usato un verbo desueto come buggerare. Sono costretto a raccontare due esperienze personali ma cercheremo di trarne riflessioni utili sul funzionamento degli algoritmi, la loro struttura manipolatoria e le falle dell’intelligenza artificiale.
Il mio uso di Facebook è limitato a farne un ponte verso gli argomenti che tratto sui miei blog, letterari o professionali. Siccome Facebook è diventato molto avaro sulle visualizzazioni, qualche volta promuovo il post con qualche spicciolo (l’ho fatto anche per questo che state leggendo). A quel punto FB, che tendenzialmente non ha opposto sin lì resistenza neanche se hai mandato in diretta un video in cui mitragliavi i passanti sul lungomare, diventa più diffidente. È comprensibile, condivisibile. Se deve dare una spinta a far circolare il post ti chiede di stare nelle regole.
In questo periodo è uscito per Bollati Boringhieri il mio libro “Offendersi” e l’ho variamente presentato sul Wrog. La copertina è molto diretta, forse la conoscete ma nel dubbio ve la metto qua sotto.
Nei primi giorni di uscita ho dunque pubblicato su FB un post intitolato “il post che avreste sempre voluto condividere” con la copertina del libro. Nel testo spiegavo giocosamente che chi lo vedeva probabilmente avrebbe voluto condividerlo per fare il gestaccio a una persona detestata o a un amico per cameratismo scherzoso, ma che la mia speranza era che lo condividesse per diffondere la notizia di un libro che tratta l’argomento dell’offesa eccetera eccetera. Ma ecco che FB respinge la mia richiesta di inserzione. Non sono ammesse, spiega, esortazioni troppo esplicite alla condivisione o al like.
Questa è bella, mi dico. FB è strutturato tutta in funzione del like e dalla condivisione. Non è che devi sforzarti per mostrare il tuo apprezzamento, stanno lì in bella evidenza, sono le colonne portanti dell’architettura. È talmente semplice usarli, quei tasti, che qualcuno lo fa compulsivamente, anche se non sa di cosa si sta parlando.
FB però una spiegazione me la offre. Non sono ammesse esortazioni che compromettano la spontaneità. Pensa tu, ancora una volta l’opposto di quello che ci verrebbe da immaginare. Il social accusato di manipolare le persone si preoccupa invece della loro spontaneità. Che carino.
Ponderando la questione con più attenzione però ci si rende conto che il concetto di spontaneità non è quello che (spontaneamente) verrebbe in mente a noi. FB si sforza di orientare la spontaneità: cioè di sostituirla con degli automatismi. Poi studia cosa si ricava dall’automatismo di ciascuno: quali sono i post che condivide? Quali sono quelli a cui mette il like? In seguito elabora il profilo commerciale proiettato dagli automatismi e lo vende. Infine, incatena a quegli automatismi ogni soggetto osservato, inondandolo di visualizzazioni coerenti con gli automatismi.
Ecco che qualsiasi elemento del messaggio che si risolve soltanto nel duplicare quelli dell’architettura visiva viene mentalmente assorbito all’interno dell’infrastruttura: in altre parole, il lettore superficiale (come è mediamente il lettore di post FB) avverte un richiamo fotocopia di una delle opzioni che incorniciano il post come se provenisse dallo stesso social. È come se fosse scritto: condividi questo più degli altri. Altera dunque l’automatismo e, quel che più conta, vizia la profilazione del soggetto. Quando parla di spontaneità FB sta difendendo il suo obiettivo aziendale di manipolare il soggetto, studiando e indirizzando le sue azioni dentro un campo visivo e mentale predeterminato, che come tale non deve subire alterazioni.
È un obiettivo aziendale, va bene. Basta che le persone ne siano consapevoli (e molte continuano a non esserlo). Però chiamarlo spontaneità…
Secondo round. Ho costituito un gruppo FB (mi interessava anche come studio del social) sul tema “Offendersi: conversiamo intorno all’offesa”. Visto che nel testo introduttivo del gruppo spiego trasparentemente che desidero promuovere questa discussione anche come seguito di esplorazione del tema del mio libro, nel mélange di immagini che compongono la foto del gruppo c’è pure la copertina del libro. E FB (dopo avere accettato nel caso che ho descritto prima il post con la copertina dopo che ho cambiato il titolo e rinunciato alla proposta esplicita di condividerlo) questa volta blocca il tutto. L’immagine non rispecchia le policy aziendali, relativamente a “linguaggio volgare e oscenità”.
Ora, davvero non intendo trasformare in un dramma che FB blocchi una mia inserzione. Se può essere utile adottare regole massimizzate per eccesso al fine di stroncare la vera circolazione di messaggi aggressivi, offensivi, gratuitamente scurrili ben venga. Accetterei a vita di sbattere la testa contro l’algoritmo pur di vedere realizzata una riforma deontologica dei social.
Il problema è che l’incapacità di distinguere tra situazioni si conferma ad oggi una falla dell’intelligenza artificiale (come sappiamo su FB è capitato ben di peggio, con l’oscuramento di storiche opere d’arte) e una cattiva condizione di partenza per elaborare uno spazio etico.
Per fortuna c’è il rimedio dell’intelligenza umana che interviene in seconda battuta. L’assistenza, a sorpresa, è molto reattiva. Dall’altre parte, via messaggio, c’è un essere umano al quale si può spiegare la situazione: l’immagine è la copertina del libro di un importante editore, è in vetrina nelle librerie, ha proprio lo scopo di affrontare la questione dell’offesa e così il gruppo, che adotta un codice deontologico. Eccetera eccetera. Il tipo dell’assistenza è d’accordo. Al fine di dissipare l’equivoco trasmette il messaggio al team per l’analisi manuale.
Dopo pochi minuti scrive desolato che il team conferma che l’immagine è contraria alla policy, e si applica lui a svolgere l’attività nella quale sin qui l’intelligenza umana è abissalmente più avanti rispetto a quella artificiale: risolvere lateralmente un problema, violando nella sostanza la regola di sbarramento.
Per un compito di questo tipo si può far conto sull’ultimo anello della catena, il soggetto che materialmente presta assistenza. Ma il team di revisione, essendo posto a un livello più alto e dunque più direttamente coincidente con l’obiettivo aziendale, intende tenere un margine più ristretto nella valutazione dei casi singoli, perché la personale prospettiva di ciascun team andrebbe a detrimento dell’automatismo. Introdurrebbe cioè una variabile che renderebbe meno rigido il parametro standard, e quindi una forma di “spontaneità” diversa da quella che l’algoritmo considera ai suoi fini. È più razionale, per FB, quantificare statisticamente un margine di errore rispetto al funzionamento dell’algoritmo che stabilizzare un correttivo umano che ne altera la logica interna e i suoi stretti fini commerciali.
A volte mi interrogo se sia coerente, da parte mia, elaborare una critica costante di Facebook e delle sue pratiche e impiegare tuttavia il suo sistema inserzionistico (sia pure in modo molto limitato). Allo stato, tuttavia, non mi sembra che esistano alternative credibili per chi, come me, si sforza di gettare un ponte tra la cultura umanistica e quella del web, ritenendo socialmente distruttiva l’incomunicabilità e avversione di questi due mondi. La condivisione efficace su piattaforme differenti è uno degli ideali punti d’arrivo di un simile discorso critico.
Nell’attesa, posso almeno prendere FB per il sedere, e ammetterlo esplicitamente nell’incipit che compare all’inizio del post, però usando il verbo “buggerare” che non è alla portata dell’algoritmo. E destinare a una circolazione più intensa il post grazie al canonico abbinamento bimbi più gatti, che confermerà temporaneamente (e drammaticamente) separato il mondo tra tutti quelli che avranno messo like su FB senza leggere una riga e voi, che state leggendo l’articolo.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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