Dallo stato alle imprese, come si deraglia con la misurazione

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È un errore la moderna ossessione per dati e quantità. A margine del libro “Contro i numeri”

Le tecnologie digitali ci offrono tante opportunità e risolvono brillantemente problemi. Ma sono contraddistinte da un vizio fondamentale: tendono non a farci fare le cose perché ci sono utili ma a farci apparire utili alcune cose perché le possiamo fare. E’ un tema su cui sono ritornato spesso sul wrog, ad esempio in questo articolo sul ribaltamento del rapporto tra problemi e soluzioni.

 

Lo storico Jerry Z. Muller lo riprende sotto una prospettiva più specifica nel suo libro “Contro i numeri”, pubblicato in Italia dalla Luiss. Il volume si occupa della diffusione di parametri di misurazione nelle attività più diverse, e la critica partendo da una considerazione illuminante: “Non tutto ciò che è importante è misurabile e gran parte di ciò che è misurabile non è importante”. Con l’ulteriore corollario che “la facilità nel misurare può essere inversamente proporzionale all’importanza di ciò che viene misurato”.

 

Siamo attraversati in effetti da una nuova forma di scientismo che manifesta la massima sfiducia nel giudizio umano e ricorre all’oggettività dei numeri, scatenando uno sfrenato attivismo dei parametri nelle università, nelle scuole, nelle imprese, oltre che nella vita dei singoli, che si assoggettano volontariamente al gioco del self-quantified.

 

Naturalmente la misurazione è una forma di conoscenza, e ci sono diverse circostanze in cui può sopravanzare il fallace ragionamento umano, sia nel formare uno stadio cognitivo avanzato sia nel trarre da quello un potere predittivo meno azzardato di quello umano. E ancora: circostanze in cui la misurazione consente di stabilire un sistema di premi e ricompense al raggiungimento del parametro che la misurazione stessa ha individuato come ottimale. Il sistema delle ricompense funziona perfettamente per i lavori ripetitivi e standardizzati.

Ci sono però due questioni essenziali. La prima è che la misurazione impone il processo di standardizzazione, a costo di rendere uniforme ciò che non lo è. Valorizza le somiglianze invece che le differenze e questo, ad esempio, nel management d’impresa non è affatto positivo.

La seconda, più collegata ai premi e agli incentivi che conseguono al raggiungimento di certi obiettivi, è che, riportando Muller, “quando ciò che deve essere misurato è influenzato dal processo di misurazione, la misurazione diventa meno affidabile”. Più l’oggetto sono le attività umane e meno affidabile sarà la misurazione perché l’oggetto – gli esseri umani – è consapevole di essere misurato e può reagire al processo di misurazione”.

 

Muller riporta alcuni interessanti esempi di soggetti “misurati” che barano per ricevere un premio o non essere sanzionati, e non si tratta di truffatori da quattro soldi: si parla ad esempio dei reparti di pronto soccorso inglese, che lasciano i pazienti nelle ambulanze per evitare che parta il conteggio della quattro ore entro le quali devono essere visitati; o dei college che trasformano nelle statistiche lo studente che ha ottenuto un punteggio basso in studente part-time per non includerlo nel campione. Per non parlare della frodi bancarie per il raggiungimento dei budget. Si potrebbe obiettare che lo stato e le imprese avrebbero da aumentare le risorse per il controllo. Il guaio è che già la misurazione distoglie già un sacco di risorse.

 

Alcune misurazioni sono platealmente stupide. Le università americane guadagnano punteggio a seconda del tempo che ci mettono i laureati a trovare lavoro. Ma ha senso che un fattorino assunto dopo sei mesi che è uscito scoraggiato dall’università referenzi l’università meglio di un borsista che sta percorrendo la sua lunga trafila? Si potrebbe migliorare la qualità delle misurazioni, sicuro. Ma come regolarsi, ad esempio, con le pubblicazioni? Come distinguere nel punteggio quella che viene menzionata nelle riviste scientifiche perché si propone come nuovo riferimento nel suo settore da quella che ottiene lo stesso numero di citazioni, ma solo per essere fatta a brandelli e smentire le corbellerie di cui si fa portatrice?

Si dovrebbero introdurre distinguo e sottocategorie, ma la validità di una misurazione ne patisce: il suo habitat è la standardizzazione.

In Italia la carriera dei magistrati ha fra i suoi parametri il numero di fascicoli portati a compimento. Questo significa che i giudici penali sono incentivati alle archiviazioni, che potrebbero anche essere un modo per non fare il proprio mestiere. D’altronde nemmeno si può considerare per principio l’archiviazione un’operazione di serie B, perché il magistrato che senza indugio sgombra la cancelleria da un contenzioso realmente inutile sta effettivamente rendendo un servigio. La verità è che la misurazione dovrebbe essere quanto meno completata da un giudizio analitico e che questo, almeno alla stato dell’intelligenza artificiale, non può che essere umano (peraltro sulla “competizione” tra giudici e algoritmi rimando a quel che avevo scritto qui).

 

Non parliamo poi dei danni che sta arrecando la misurazione easy nell’istruzione. “Contro i numeri” ricorda i criteri ottusi di misurazione del rendimento che ispirarono in Inghilterra la riforma Lowe (nel 1862!) e le critiche feroci che a tale impostazione meccanica rivolse Matthew Arnold osservando che agli studenti si insegnava a macinare nozioni a non a ragionare.

Ho da poco scoperto con orrore che in una facoltà di psicologia l’esame di filosofia viene sostenuto esclusivamente con una prova scritta, composta per buona parte da quiz chiusi. Come si può matematizzare l’apprendimento filosofico? In una prova orale l’errore dello studente potrebbe essere un buon punto di partenza per vedere come si districa per ritornare al ragionamento corretto, e scoprire per questa via che ha talento e preparazione meritevoli di una buona valutazione.

 

La misurazione seduce perché è più facile, e anche nel mondo delle imprese ha messo in pista una quantità – quella forse immisurabile – di consulenti professionali che assicurano risultati misurabili, che però non sono esattamente i profitti, ma performance di taglio completamente diverso che ipoteticamente dovrebbero portare ai profitti. Il campo macroscopico di quest’equivoco è l’investimento nella comunicazione, che già ha sempre presentato un problema di reale misurazione della redditività (poiché i suoi effetti possono ben essere indiretti e differiti), moltiplicato ora dall’ambiguità delle misurazioni legate ai social media.

 

Nella pubblica amministrazione la misurazione tende ad appiattire gli obiettivi dello stato, che vanno ben al di là della rispondenza ad alcuni indici economici; nelle aziende spegne la creatività e rende meno agevole la differenziazione; sarebbe venuto il momento, credo, di affidarsi ad alcuni ponderati giudizi umani per verificare, in ciascun contesto, quali dei dati che vengono raccolti siano veramente utili e che in modo debbano essere “calibrate” (più che misurate) quelle situazioni che mal si prestano a una misurazione seria.

 

In conclusione (provvisoria, prevedo di riprendere alcuni aspetti dell’argomento): se ogni tot di numeri non ci sarà un umanista che ha le idee chiare su come e quando servano e cosa significhino, la standardizzazione e le mistificazioni faranno sfracelli dovunque.

Di |2020-09-11T15:17:28+01:0024 Ottobre 2019|Limite di velocità|

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