“Ci vediamo dove c’è la statua”. “Quale statua?”. Un simile scambio potrebbe certo avvenire in una di quelle città nel mondo dove la statua non è più al suo posto, abbattuta dai dimostranti che, in questi giorni, hanno deciso di far scontare all’effige le malefatte ascrivibili al soggetto raffigurato.
Ma potrebbe tranquillamente rientrare nel normale quotidiano, poiché destino dei monumenti è spesso di rimanere invisibili all’osservatore. Stendiamo poi un velo sul numero di persone che saprebbe rispondere alla domanda: “Chi rappresenta quella statua?”. Giustamente Gabriele Romagnoli ha scritto che esse suscitano l’entusiasmo del popolo solo in due momenti: quando vengono inaugurate (chi mai ha avuto occasione di assistere a un simile evento potrà almeno ripescare traccia di una sua caricatura nell’inizio di Luci della città di Chaplin) o quando vengono abbattute.
Cristoforo Colombo? È molto abbattuto
Il loro carattere simbolico, tuttavia, rimane forte anche quando pare dormiente, altrimenti non sarebbero in grado di attirare quest’attenzione vendicativa, e nemmeno la reazione a loro difesa: anche fisica, come nel caso di quella di Churchill a Londra, che dopo l’imbrattamento patito è stata protetta prima con dei pannelli, poi con un’impalcatura, e quasi vede di ronda i militanti di estrema destra che sfilano in piazza gridando che si preservi la sua memoria, un’ironia della storia mica da poco.
L’assalto alle statue parte dal movimento antirazzista negli Stati Uniti, è cominciato da qualche anno ma vive in questi giorni un suo picco, prendendo come bersaglio di vandalismo i monumenti del generale schiavista Lee e degli altri eroi militari dell’esercito confederato e da lì a scendere, anche di epoca storica, sino ad arrivare reiteratamente a Cristoforo Colombo, cui si imputa il trattamento selvaggio (storicamente controverso in verità) riservato agli indigeni dopo il suo arrivo in America e la simpatia dei suprematisti (storicamente molto tarda). In qualche caso le contestazioni sono state assecondate o prevenute dall’autorità: a Richmond il sindaco ha deciso di rimuovere la statua di Lee. Le proteste si sono estese in Europa, e sin qui l’episodio più eclatante è stato, a Bristol, il tuffo in acqua della statua del commerciante Edward Colstom, che costruì la sua fortuna sulla tratta degli schiavi. A Parigi si reclama lo smantellamento di quella del ministro Colbert, che firmò nel 1685 il Code Noir, avente a oggetto la vita degli schiavi nelle colonie e l’espulsione degli ebrei. In Italia la statua di Indro Montanelli, in quanto “colonialista e schiavista” è stata imbrattata due volte in pochi giorni.
La Colonna Traiana e le statue di Lenin
Un nutrito gruppo di intellettuali biasima questa “iconoclastia”, eccependo che i monumenti servono a preservare la memoria pubblica, e che questi processi postumi si risolvono in operazioni di decontestualizzazione: proseguendo su questa china si pretenderà di abbattere la Colonna Traiana come simbolo dell’imperialismo romano o la reggia di Versailles, che voleva magnificare lo splendore di Luigi XIV, il vero responsabile del Code Noir. E non ci siamo forse indignati quando i talebani hanno distrutto i Buddha di Bamyan?
Non si può però pretendere che i vincitori, oltre a scrivere la storia, installino (loro o chi li celebrò) i propri busti in mezzo alla strada per l’eternità. Oggi capita di frequente che si rifiuti l’intitolazione di una via a un personaggio immeritevole. E se avesse piantato la propria effigie quando il suo seguito era numeroso ce lo dovremmo invece tenere com’è? Il suo torto era di stare dalla parte sbagliata o di non avere avuto un marmista di fiducia?
Del resto, la fine del comunismo oltre cortina è stata una storia di caduta, prima che di muri, di statue, 5500 parrebbe (si ricorda uno spettacolare trasvolo di una nell’ex Germania Est nel film Goodbye Lenin). Quanto al rispetto per le statue, hanno cominciato gli egizi ad ammaccarle per ragioni meno ideologiche (secondo il direttore del Museo Egizio di Brooklyn la ragione per cui manca sempre un pezzettino – un orecchio, il naso ecc. – è la credenza che la mutilazione della statua si riflettesse anche sul potere della divinità, e quindi qualche lestofante che voleva scampare alla punizione agiva in prevenzione).
Soprattutto, la statua occupa lo spazio pubblico, e in certi casi non lo occupa solo quale reperto (come la Colonna Traiana) ma come memoria che deborda nell’attualità, e certo è così per le statue di chi ha prosperato sul razzismo. La statua contribuisce a rendere vivo lo spazio pubblico e il dibattito che lo anima. Quando diventa un elemento di frattura comunitaria, è inevitabile che lo spazio pubblico venga “ristrutturato” per ricomporre e unire, nei limiti in cui si può. Nella statua del generale Lee non sono solo i neri a non riconoscersi bensì tutti i cittadini bianchi che solidarizzano con la lotta per l’eguaglianza.
Scheggi la statua chi è senza peccato
Non bisogna perdere, tuttavia, il senso delle distinzioni. Una cosa è il personaggio la cui vita rappresenta in via principale il fattore divisivo, come può essere per uno schiavista o un generale sudista, e una cosa è il personaggio che visse nella sua epoca, adottando le prospettive che molti adottavano o cedendo a sue personali debolezze dentro una personalità sfaccettata. Riassumere Montanelli come “un colonialista” è un po’ riduttivo, e uno “schiavista” a ben vedere era stato anche Jefferson. Ma andando a spulciare pochi rimangono immuni: Voltaire era antisemita, e persino a Martin Luther King e Gandhi avrebbero qualcosa da obiettare rispettivamente le femministe e gli africani (e di Gandhi in effetti, secondo questo ragionamento, hanno rimosso nel 2018 una statua in Ghana). Completamente fuori bersaglio, poi, quella forma di attualizzazione che viene inflitta agli artisti (ad esempio recentemente a Gauguin), che peraltro dovrebbero – nell’ambito dell’arte – essere giudicati solo per le loro opere.
Peggio ancora, quando la memoria di qualche antico paladino dei diritti viene rigettata per avere egli commesso “appropriazione culturale”. Così è accaduto al povero deputato francese Victor Schoelcher, promotore dell’abolizione dello schiavismo nel 1848, la cui statua è stata distrutta il 22 maggio in Martinica dato che la sua identità bianca offuscava la visibilità delle rivolte nere. Qui si sconfina nel fanatismo, e lo stesso quando si travisa completamente il senso di una raffigurazione pubblica e se ne chiede la soppressione, come accade per quel murales a San Francisco, che mostra degli schiavi di colore vicino a George Washington, sì, ma con intento di dileggiare il fondatore e non gli schiavi.
Lo spazio pubblico e la memoria storica
Esiste insomma il rischio di scivolare nell’ignoranza, e anche il timore che prendersela con una statua sia una scorciatoia che non risolve i nodi delle questioni scottanti. E che, non affrontando questi con la dovuta consapevolezza dalla comunità tutta, al posto delle statue rimosse appaiano presto tanti Commendatori del Don Giovanni, convitati di pietra (e di carne) a trascinarci verso l’inferno della storia dimenticata.
Per questo, bisognerebbe separare l’evoluzione dello spazio pubblico dalla coltivazione della memoria: e non distruggere le statue ma conservarle nei musei, perché la loro elevazione racconta un pezzo di storia, e anche quando ci ripugna dobbiamo avere il coraggio di esporlo se vogliamo continuare a comprenderlo.
Rispettata tale condizione, ognuno si faccia pure il suo spoil system.
Scrivi un commento