Sulla folla

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Sulla folla

L’unione fa la forza. O no?

Siamo a Gravina in Puglia, ed è appena scoppiata un’epidemia. Non si tratta del 2020 e del Covid, ma invece del 1886 e del colera. Non è però che la gente fosse più remissiva rispetto ai provvedimenti di emergenza dell’autorità, anzi. In una simile situazione – uno penserebbe – se il sindaco decide che se per una volta si salta la celebrazione del patrono San Michele non sarà mica la fine del mondo. Invece, al suono delle campane, gli abitanti, che nel frattempo si sono consolati con l’alcool, si gettano in strada al grido di “Abbasso il sindaco, viva il re, viva la regina, noi vogliamo la festa”, avviando una rivolta che si spegne insieme alla vita di uno dei manifestanti, sotto il fuoco delle forze dell’ordine.

I feriti sono parecchi e i danni pure. 28 persone finiscono alla sbarra, ed è facile presagire una condanna. Il loro avvocato difensore, Giuseppe Alberto Pugliese, tira fuori tuttavia un colpo di genio: questi non sono mica criminali comuni, dice (e in effetti non lo sono). Si sono lasciati trascinare dall’impeto di una passione, dall’ubriachezza morale che si è impadronita dei loro spiriti. Avevano cominciato solo per esprimere il proprio scontento, ma poi quel contatto tra i corpi, quella carne stretta intorno alla carne, il sentimento di forza…e ne conclude: “È l’anima della folla che pensa e comanda, è il corpo della folla che obbedisce ed esegue”. In sostanza, ciascuno può eccepire: non sono stato io, è stata la folla. La richiesta fu di applicare per estensione l’articolo 95 del codice penale allora vigente, che limitava la responsabilità individuale in caso di alterazione delle facoltà mentali a causa della follia, del furore, dell’imbecillità. Il tribunale la accolse, e per questo si tratta di una sentenza storica.

Ho trovato la riesumazione dell’episodio nel bel libro, da poco uscito in Francia per l’editore Armand Colin, Mécaniques des foules, scritto da Elena Bovo, evidentemente un cervello in fuga giacché è italiana ma ricercatrice di livello superiore all’Università di Besançon (farne rimpatriare almeno gli scritti attraverso le traduzioni sarebbe un atto dovuto). Il tema è raro, giacché la folla – stranamente – non attecchisce nell’editoria. Tuttora, quando la si voglia considerare in termini psicologici o politici, il riferimento pressoché unico rimane un testo scritto nel 1895, Psicologia delle folle di Gustave Le Bon, che deve la sua fama soprattutto alla dichiarata ammirazione di Mussolini. Le Bon spiegava, con apparente asetticità (più o meno) scientifica con quali sistemi quelle folle fossero manipolabili. Ma prima di tutto definiva l’oggetto dello studio: le circostanze in cui un agglomerato di persone acquisisce caratteristiche diverse dai singoli che lo compongono, formando un’unità mentale, una transitoria anima collettiva. Nella “folla psicologica” le persone sentono e agiscono in modo diverso che se fossero da sole. Le caratteristiche di questo fenomeno, secondo Le Bon, sono il sentimento di potenza invincibile, il contagio mentale e soprattutto la suggestionabilità: l’esito finale è che il soggetto agirebbe come un automa, e scenderebbe “parecchi gradini nella scala della civiltà. Isolato era forse un individuo colto: nella folla è un istintivo, e dunque un barbaro. Ha la spontaneità, la violenza, la ferocia e anche gli entusiasmi e gli eroismi degli esseri primitivi”.

Sulla regressione alla barbarie hanno concordato gli altri autori classici sull’argomento. Freud ci aggiungeva l’istinto gregario e la pulsione libidica dell’identificazione con un capo. Hippolyte Taine, segnato dagli eventi della Comune, vedeva la folla come negazione della civiltà. Gabriel Tarde faceva leva su elemento a lui molto caro, l’imitazione: in verità l’aveva utilizzato per spiegare l’esistenza ordinata della società; e però nel disordine della folla produrrebbe un effetto di ipnosi. Scipio Sighele, criminologo italiano che nel 1891 mandò alle stampe “La folla delinquente” (non mi ero reso conto, prima che me lo facesse notare il testo di Elena Bove, di quanto Le Bon abbia scopiazzato da Sighele), parte dal principio che le personalità individuali si annullino in una personalità unica; e spiega che, al contrario del pubblico, “la folla è una collettività eminentemente barbara e atavica” (peraltro, nell’avanzare del libro, sembra ipotizzare che pure il pubblico sia delinquentello, visto che è “animato da passioni basse e impure”).

Come mai, allora il brillante giornalista del New Yorker James Surowiecki ha potuto scrivere un libro di buon successo nel 2004 che si intitola La saggezza della folla, nel quale sostiene che se per prendere decisioni si seguisse la media di quel che pensa la folla, invece che chiedere agli esperti, si otterrebbero risultati migliori? Perché, nonostante la rituale citazione di Le Bon, Surowiecki non parla affatto di folle bensì di situazioni in cui un sacco di persone interagiscono in situazioni tra l’antagonistico e il cooperativo, tipo i mercati finanziari o il traffico delle automobili: in simili contesti, ciascuno sta per conto suo (non per questo è meno suggestionabile) e mai lo sfiora di annegare l’identità in un gruppo più vasto, che al più gli appare come “gli altri” (cosicché se un automobilista, mentre si è immesso sulla A1, accende la radio e ascolta l’annuncio: “Attenzione, un pazzo ha imboccato l’autostrada al contrario”, comincia a scansare tutti i veicoli imprecando: “Uno? Saranno cento!”).

Quando si parla di folle, è frequente fare di tutt’erba un fascio, mischiando fenomeni eterogenei. La folla non è il popolo: la distinzione viene fatta di solito per sprezzare la prima e lusingare il secondo, sempre così ragionevole! Ma a al di là della retorica, Taine pensava sinceramente che la folla politica fosse un popolo affamato ed esasperato – insomma era un popolo che si era ridotto a folla – mentre Hugo poteva omaggiare i parigini della Rivoluzione di Luglio del 1830: “eravate solo una folla. Oggi siete un popolo”.

La folla, ci pare ovvio, non è nemmeno il pubblico (quando verso la fine parlerò del web cercherò di mostrare che non è così ovvio). La folla non è un gruppo, cioè non vale la pena di studiarlo in questa prospettiva: solo pochi gruppi condividono con la folla la trasmissione di interna elettricità e il deficit di ragionevolezza. A un gruppo potremmo pensare di commissionare l’organizzazione di un congresso o un servizio di spedizioni, a una folla certamente no. C’è giusto un punto di contatto, e cioè che certi gruppi, come gli hooligans, sono sempre una folla in potenza, e perciò predisposti a trascendere nelle stesse forme violente di inselvatichimento. Un certo valore ha la distinzione della folla con la massa: questa descriverebbe solo la prossimità fisica, non l’unione spirituale. Massa è la fiumana umana e cementizia che la cinepresa di King Vidor (nel film che peraltro si chiama la folla) finge di non riuscire a fissare per più di una frazione di secondo o la parata carnevalesca e spersonalizzante di volti accalcati l’uno addosso all’altro dipinta da Ensor. È quella che disturba Ortega Y Gasset, inorridito per “l’esperienza visiva della moltitudine che si impossessa dei luoghi e dei mezzi creati dalla civiltà”, il pigia pigia in treno o al teatro di individui che si sentono uguali agli altri e ne sono felici. In pratica, se c’è casino al supermercato ce la prendiamo con la massa. Se ci si aggrega spontaneamente per menare il cassiere che ha messo le mani addosso a una signorina o si sfasciano le macchine per strada perché è diventato troppo costoso fare la spesa o tutti si calpestano per scappare dal supermercato perché qualcuno ha gridato al fuoco, ci troviamo davanti a una folla.

Possono sembrare, e sono, situazioni diverse ma scattano negli individui meccanismi comuni. Il primo, direi, è quel senso di abbondanza volumetrica che fa pensare a chi sta dentro noi siamo tanti, e a chi guarda da fuori quelli sono troppi. La folla occupa, ingombra, ostruisce, fa pressione, si compatta, vibra energeticamente nella forza soverchiante del proprio numero. Torniamo alla differenza delle ragioni che sviluppano una folla: benché contenuta in quel meraviglioso testo che si chiama Masse e potere (sempre questa confondente intercambiabilità dei termini) la ripartizione in cinque categorie proposta da Elias Canetti mi pare insuperata. La ripropongo, sostituendo masse con folle: esistono folle aizzate (che si propongono di uccidere, senza pericolo dato che la loro superiorità è schiacciante), folle in fuga (fin tanto che si resta insieme si percepisce il pericolo distribuito su tutti: a un certo punto il panico dissolve il senso intimo di unità e lo rovescia nella lotta del singolo contro tutti gli altri che gli sbarrano la strada), folle del divieto(che non vogliono più fare quello che avevano fatto finora, come i cortei di sciopero), folle di rovesciamento (quelle rivoluzionarie in azione) e le folle festive (nelle quali la meta è la festa stessa). Con un po’ di adattamento in questa geniale enunciazione rientrano quasi tutte le folle: non quelle incidentali, che si formano per vedere se ci sono morti in un incidente o stanno col naso in alto per osservare un disco volante, e sono folle tendenzialmente innocue e di rapida evaporazione. Canetti fa discendere le folle aizzate dalle antiche mute di caccia, i primi agglomerati soggetti a un surplus di eccitazione (riecco lo stadio primitivo). Ma tutte le categorie, in realtà, serbano una parentela con le mute di caccia, pure quelle in fuga, che evocano il caso in cui la preda si è rivoltata verso i predatori; o quelle festive pronte a dirigere le endorfine verso la nuda crudezza dell’aggressione.

Non conta più di tanto quale sia la spinta al formarsi della folla, che ci sia un sobillatore o che si aggreghino genuinamente gli impulsi individuali: le dinamiche prendono il sopravvento, e i confini sono facili a varcare per cieco accendersi della pulsione collettiva. Questo non vuol dire che la folla sia amorale per definizione: poche immagini ci trasmettono un senso di composta dignità come la fiumana del Quarto Stato di Pellizza da Volpedo. È escluso però che in una folla prevalga il senso critico: possono esercitarlo alcuni, che in quel momento si staccano di fatto dalla folla. Poche cose eccitano la folla quanto l’approssimarsi minaccioso di una folla contraria. Per questa ragione non sembra tanto furba la tradizione di contrapporre a una folla contestatrice la parata uniformante delle visiere sugli occhi della polizia in tenuta antisommossa, e la carica coi manganelli per giocare d’anticipo.

Per i disperati, che non trovano considerazione e visibilità, essere folla e in questa compagine occupare lo spazio pubblico è un’alternativa allettante: una folla brutalmente delinquente non di rado è prodotta da una società borghese elegantemente delinquente. O magari la segue nel tempo e sfoga l’esasperazione per le angherie precedentemente subite, oppure si autoassolve per la sua complicità sacrificando un capro espiatorio. Uno tra i più cruenti e impressionanti crimini commesso da un’orda fu quello di un direttore carcerario, Donato Carretta, intercettato il 18 settembre 1944 Roma da una folla che peraltro si era adunata per ululare fuori dal tribunale contro un personaggio diverso, il questore. Fu vano che i carabinieri cercassero di arginarla e qualche socialista presente urlasse che Carretta aveva collaborato col Comitato di Liberazione: cercarono di farlo investire da un treno, provarono ad annegarlo nel Tevere, lo presero a colpi di remo sul cranio quando provò ad emergere e appesero il cadavere appeso per i piedi a una cancellata. È improbabile che tra i vendicatori mancasse qualcuno che anni addietro aveva indicato ai rastrellatori dove stava nascosto un ebreo. Che sia distorta o in malafede, sovente la folla reclama una sua versione della giustizia. Il genere cinematografico del western è stato esemplare nel descrivere i torti della giustizia sostanziale contro le ragioni della giustizia istituzionale la quale, monopolizzando la violenza, mira a tracciare un invalicabile segno di confine tra il delinquente e la legge che, in nome dalla giustizia (procedurale) è pronta a proteggere persino lui. Non si contano le folle disperse dai colpi in aria dello sceriffo che le invita a tornare a casa, private della passione di impiccare qualcuno che sarà impiccato per ordine della corte. Purtroppo, quel che l’America (e non solo) ci racconta oggi è la narrativa, opposta, dello sceriffo (il poliziotto) che spara sul delinquente (per lo più micro-delinquente, o non delinquente affatto) o lo strangola, e l’anima etica è quella della folla che assalta lo sceriffo e/o i suoi colleghi, suscitando nuove reazioni violente dall’istituzione che ha tradito la propria funzione.

Le Bon scriveva che siccome nell’anima collettiva le attitudini intellettuali degli uomini si annullano e l’eterogeneo si dissolve nell’omogeneo, le folle non sono in grado di pensare ed eseguire atti che esigano una grande intelligenza. In compenso, le riteneva capaci di compiere atti eroici, propense al sacrificio e al disinteresse assai più che l’individuo isolato. Ricorda, Le Bon, quante folle “si sono fatte massacrare eroicamente per fedi e idee che comprendevano a malapena! Le folle che scioperano lo fanno molto più per obbedire a una parola d’ordine che per ottenere un aumento di salario”. Riguardo al primo punto, come dicevo, l’opinione dei classici è che l’intelligenza di una folla sia minata dall’irrazionalità. Dagli anni ’80, tuttavia, il sociologo Reicher ha elaborato un modello (ESIM, Elaborate Society Identity Model) volto a dimostrare che i comportamenti dei membri di una folla, al contrario, rispondono a schemi razionali:  il tutto rispolverando la tesi che l’essenza della folla sia di essere un gruppo; i suoi componenti pertanto seguirebbero delle regole, stante che l’adesione al gruppo implica sempre una struttura normativa. L’ESIM può essere uno strumento utile per prevedere effetti nefasti: attraverso delle costanti si può pronosticare quali saranno i movimenti di una folla che scappa da uno stadio dove sono scoppiati dei tafferugli, ma questo è null’altro che cercare leggi meccaniche. E riscontro una certa confusione tra la pretesa razionalità delle azioni e il compimento delle azioni elementari per raggiungere lo scopo. Essendo pur sempre un organismo, ancorché artificiale, la folla si rapporterà in modo congruo all’ambiente nella misura in cui ciò è necessario per raggiungere il proprio nutrimento (il bersaglio dell’azione): di nuovo però siamo in una sorta di meccanica più che di pensiero razionale, e normalmente la folla obbedisce più a un comando subitaneo che a una norma. Quanto all’abnegazione e al coraggio, la storia li ha resi inoppugnabili: persino quell’eroismo collettivo, però, si sminuzza in una serie di vili accanimenti contro il singolo che capita sulla strada. La schiacciante preponderanza del numero è fisiologicamente condannata alla vigliaccheria, o alla sua conversione nel panico se il rapporto di forza si ribalta.

Ritorniamo al punto da cui siamo partiti: dando per acclarato che nella folla si determini un obnubilamento del singolo – l’agire per suggestione di una folla in tumulto (articolo 62 del codice penale) – è davvero una conclusione corretta attenuare penalmente la responsabilità individuale? Non è sempre facile stabilire se sia da pesare più la coscienza offuscata dalla folla o la coscienza lucida di entrare a farne parte. Giustamente la Corte di Cassazione ha escluso che la preordinata volontà di partecipare a una manifestazione di piazza coincida con la preordinata deliberazione di commettere reati. Se però si parte con l’idea già in testa di attuare un saccheggio o una devastazione, non dovrebbe contare più di tanto che l’esaltazione ne moltiplichi l’intensità. Non posso però negare che l’articolo 62 è un valido strumento per mitigare un reato (articolo 419: devastazione e saccheggio) sanzionato in modo del tutto sproporzionato (carcere da otto a quindici anni) e spesso brandito grossolanamente per gestire situazioni di allarme sociale. Si tratta di uno dei reperti più odiosi del regime illiberale. Al di là di quest’ultimo caso specifico, alcune ragioni del farsi folla sono nelle premesse tutt’altro che propense al vandalismo e alla conflittualità: si pensi alle manifestazioni per la pace (diverse da quelle che propugnano la fine della guerra con la resa incondizionata o solidarizzano con una sola parte delle vittime) oppure contro la violenza. Ciononostante, come accaduto reiteratamente in alcuni episodi inglesi, il richiamo dell’orda, che a un certo punto sempre si insinua, manda spesso all’aria i migliori propositi e persino i preliminari accordi fra l’autorità pubblica e gli organizzatori. Forse bisognerebbe affinare le norme riguardo una responsabilità specifica di alcuni “garanti” del buon andamento, ma chiaramente non servirebbe a nulla per le folle che germinano nella collera o l’indignazione di un attimo; e a dirla tutta impedire totalmente alla folla di comportarsi da folla significa cancellare un pezzo essenziale della vita comunitaria, benché di rado il migliore. In alcune età far parte di una folla che protesta è peraltro formativo: dobbiamo inquietarci per il futuro quando i giovani se ne stanno a casa, non quando invadono le piazze. E se l’individuo è sopito di suo e vegeta in un habitat mentale ristretto, indifferente all’ingiustizia sociale, persino il furore della folla può fungere da toccasana. Si pone, all’inverso, un problema di passività della folla (in realtà, più esattamente, è una massa) quando certi delitti (come il noto assassinio di Kitty Genovese) si svolgono sotto gli occhi di un mucchio di persone che non ritengono di intervenire, diciamo che non vi vedono una ragione sufficiente per costituirsi in una folla. È un modo diverso, eppure speculare, di sopprimere la coscienza individuale per il fatto che si è in tanti (se tutti stanno fermi non ci sarà da preoccuparsi; oppure, è inutile che ficchi il naso io, ci penserà un altro).

La principale forma di passività da parte di una folla si verifica quando è al servizio del potere politico in uno stato totalitario. Le folle nell’Impero Romano, pur soggette a strumentalizzazioni e manipolazioni, costituivano nondimeno una forza attiva ed energica. Così fu nel nazismo e (più blandamente) nel fascismo solo durante l’iniziale fase movimentistica. Nei regimi esse furono disciplinate e imbrigliate, perimetrate nell’osanna del capo o nelle marce dimostrative. Nelle democrazie occidentali, la personalizzazione della politica cerca di restaurare una simbiosi diretta tra il capo e il bagno di folla, ma all’atto pratico anche il mestiere di folla è ormai incasellato nello smart working. Sopravvivono storiche occasioni celebrative o situazioni del tutto eccezionali, con numeri comunque in perpetua discesa e l’irriducibilità delle parti politiche contrapposte a sottomettersi almeno alle leggi matematiche del conteggio; in compenso qualsiasi operatore visivo accorto è ormai in grado di far sembrare gremita o desolata una piazza, la stessa, nella quale sia in corso un comizio. Chiudere qui il punto peccherebbe di miopia occidentalista: in Africa, in alcuni punti del Medio Oriente e in Sudamerica le folle politiche continuano a essere una forza reale, condizionate ma pure condizionanti (oltre che bersaglio dei militari), oscillanti tra picchi in cui si scatenano i meccanismi che ho descritto e occasioni nella quali introducono una forma di rigenerazione sociale, che a dire il vero tende a evaporare con una velocità analoga a quella con cui si disgrega una folla.

Mentre la Francia, più di ogni altro paese europeo, pare conservare una tradizione vasta ed eterogena di folle turbolente, l’Italia, nella tassonomia canettiana, sembra dare spazio quasi esclusivo alla folla festiva. Non c’è neppure più bisogno di attendere i baccanali o il santo patronale di turno: quiete folle si distendono lungo i corsi nei week-end della provincia componendo i cortei ostentatori dello struscio, mentre le notti metropolitane hanno esportato dalla Spagna il fenomeno della movida giovanile, consistente nel trarre piacere proprio dal fatto di trovarsi in mezzo a una rumorosa calca. Le caratteristiche di questa folla non sono del tutto assimilabili a quelle tipiche, ma certo il senso critico difetta a priori nel gusto di conversare negli unici luoghi in cui la voce viene sovrastata, e l’eterna happy hour sollecita brio e stordimento nell’agglomerarsi. Questa è la folla più politica che ci è rimasta, almeno se siamo d’accordo che il personale è politico.

Il web, sui social, realizza la congiunzione tra pubblico e folla cui Sighele perveniva nelle pessimistiche conclusioni sulla depersonalizzazione dentro il numero. Tarde già tra i due (pubblico e folla) intravedeva di comune quel fattore che argutamente chiamava unisono. Nella scia di commenti velenosi che si addensano colando a margine degli hate speech di un subdolo istigatore, si materializzano quelle stesse vertigini dell’essere: il senso di annullamento della responsabilità individuale, la regressione barbarica, l’eclissi dell’empatia e dei freni inibitori, il potere della suggestione, l’inclinazione al vandalismo, il sanguinolento richiamo che eccita la muta di caccia con in più una vigliaccheria al quadrato per l’assenza di un pur minimo rischio fisico. Qui non c’è attenuante che tenga, e si attende al contrario una sana introduzione di responsabilità penale.

Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.

Quanto siamo ripetitivi

Di |2024-11-11T14:30:40+01:0021 Giugno 2024|4, Limite di velocità|

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