È giusto dire che l’uomo è padrone della natura ma ormai sempre più schiavo della tecnica? Maurizio Ferraris, in un articolo di qualche settimana fa su Repubblica, contesta questo assunto, che sarebbe sconfessato dall’evidenza dei fatti attuali, nei quali la natura ci ha messo in ginocchio con la pandemia e a salvarci è stato quel prodotto della tecnica che è il vaccino. Il filosofo fa risalire l’argomento al secondo Heidegger, quello di Das Gestell; e suggerisce che il suo recepimento sia una comoda assoluzione dai crimini umani, per imputarli alla tecnica, il cui esempio storico fu l’autodifesa di Albert Speer durante il processo di Norimberga. Ferraris sostiene che tanto più la tecnica è perfezionata tanto più è completamente dipendente dall’uomo: una tecnologia rudimentale, come un bastone – spiega – è suscettibile di molti usi; ma un telefonino non è altro che la “registrazione servile delle forme di vita umana” e l’automazione nulla più che l’abilitazione della macchina ad agire come umano, sulla base della registrazione e della riproduzione dell’umano; e ne conclude che “è davvero una strana paura che le macchine prendano il potere o che gli algoritmi ci governino” (come sarebbe assurdo “attribuire la responsabilità della morte di Cesare ai pugnali e la caduta delle funivie ai forchettoni”) e, ottimisticamente, che “gli algoritmi ci dicono cosa fare solo se siamo disposti ad obbedirli”.
Anche se la narrativa di fantascienza ama indugiare sul gusto del potere che a un certo punto si insedia nella macchina e la conduce a opporsi ai suoi creatori, il discorso sul dominio della tecnica poggia su cardini differenti: l’idea di fondo (presente in Heidegger ma anche in Marx) è che la tecnica “oggettivizzi” l’uomo (insomma l’ineludibile tema dell’alienazione); e che la focalizzazione sui mezzi finisca per mettere in secondo piano i fini o, come scriveva Emanuele Severino, che siccome i mezzi consentono di raggiungere qualsiasi scopo, il fine ultimo diventi il potenziamento dei mezzi. Il confronto antagonistico non riguarda tanto la macchina e l’umanità nel suo complesso, quanto la tecnica e il singolo uomo, che da essa può trovarsi schiacciato come produttore (come era con la catena di montaggio) ed eterodiretto come consumatore. Già molti anni fa, a proposito dell’homo consumens, Gunther Anders centrava lapidariamente quello che sarebbe diventato il nodo cruciale con l’apparente onnipotenza delle tecnologie digitali: “quel che si ha non lo si usa soltanto, ma se ne sente il bisogno. Non si finisce con avere ciò di cui si sente il bisogno, ma si finisce con il sentire il bisogno di ciò che si ha”. E quello che oggi abbiamo è essenzialmente ciò che ci viene recapitato quotidianamente a domicilio dalla mediazione della tecnica.
Mi pare che il discorso sulla libertà di usare il bastone (che peraltro è un esempio limite, perché già l’aratro possiede una specializzazione che ne rende improbabile un uso diverso da quello ortodosso) si possa ribaltare. La duttilità e incompletezza dello strumento tecnico impedisce l’automazione, ma non tanto della macchina bensì dell’individuo. L’obiettivo moderno della tecnologia è quello di produrre reazioni automatiche nell’uomo, cioè di indurre l’uomo a comportarsi come una macchina (anche per favorire l’apprendimento para-umano della macchina). Ferraris, che assicura di resistere alle seduzioni dell’algoritmo al quale si vanta di far cercare i libri che dice lui, ci offre una testimonianza elitista, proveniente da una nicchia parallela rispetto al mondo corrente e piatto che anche una pagina di cronaca o un paio d’ore di osservazione empirica ci restituiscono in modo assai più cupo, e che va ben al di là delle scelte di lettura.
Rimane però in piedi la questione della responsabilità. È giusto prendersela con la macchina, o l’insieme delle macchine, trattandole come soggetto pensante, volitivo e desiderante (premesso che non era certo questa la posizione di Heidegger, che inquadrava la tecnica come sfondo e non come agente)? È ovvio che la tecnologia è prodotta da uomini, e pure che gli algoritmi più precisi sono tuttavia viziati nell’operare dai bias cognitivi immessi dal programmatore. In questo senso, la macchina è riproduttiva del sistema di dominio insito in una certa organizzazione economica, politica e sociale, alla quale sarebbe vano reagire sfasciandola o tenendo il broncio a lei invece che agendo politicamente per il riequilibrio o il rovesciamento di quell’organizzazione. E però la questione della tecnica non può porsi in modo storicamente statico, perché – vecchio e più generale insegnamento kantiano – a certi incrementi della quantità corrispondono dei salti qualitativi, che con il tempo hanno posto problemi etici sempre più angoscianti di fronte a una crescente passività e a quel carattere antiquato dell’uomo di cui parlava Anders, ossia del divario tra la velocità evolutiva della tecnica e la capacità intellettuale e morale dell’uomo di rincorrerla per darle un senso. E persino quella soggettività dell’artificiale che Ferraris irride è sempre meno paradossale. Basti qui ricordare quale sia il suggerimento dell’insigne neuroscienziato Antonio Damasio per migliorare l’intelligenza robotica: progettare macchine che, come i viventi, debbano mantenere il proprio corpo entro una gamma ristretta di comportamenti compatibili con la sopravvivenza, renderle cioè più vulnerabili per dotarle di quella fragilità che apre ai viventi la porta del regno dei sentimenti.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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