Il dibattito sulla libertà di espressione sui social ha ricevuto dalla cancellazione dell’account Twitter di Trump un’improvvisa accelerazione, ma non ancora un’impostazione adeguata. Per lo più ci si è limitati a passare dal biasimo verso le piattaforme per la carenza di interventismo (lasciano che si pubblichino cose schifose e non fanno nulla di serio per rimuoverle, si debbono considerare responsabili dei contenuti come un qualsiasi media) al biasimo verso le piattaforme per il rischio di derive liberticide (non possono essere le piattaforme a decidere chi debba essere privato della parola, e questo è un precedente pericoloso). Questo stesso articolo che avete cominciato a leggere approfitta dello spazio di una piattaforma, e potrebbe essere improvvisamente rimosso in funzione di regole socialmente non condivise.
La base dell’esistente da cui partiamo è la seguente: chiunque è in grado di poter dire quel che gli pare e piace, e potenzialmente renderne partecipe il mondo intero.
È la base dell’esistente perché così è stata costruita ma non era ineluttabile. Facebook nacque con accesso riservato agli studenti di un college. Ogni piattaforma ha delle modalità espressive in qualche modo definite: Twitter ha un limite di caratteri, Facebook prevede l’organizzazione di sottogruppi che concedono l’accesso a categorie di persone e non a tutti, WhatsApp ha un numero massimo limitato per ogni gruppo. Nulla impediva che i social, invece di consentire e ciascuno di inserire il suo pensiero senza filtri, fungessero da editori selezionando opinioni giudicate più interessanti o legate a obiettivi particolari.
La tendenziale universalità della partecipazione e del modo di è stata inizialmente salutata con grande favore in quanto diffusione di libertà. Per questo si è ritenuto in linea di massima negativa ogni restrizione, fosse pure relativa alla circolazione di falsità od offese, rimanendo legati a un baluardo del pensiero americano, per il quale la risposta a discorsi riprovevoli non è il loro oscuramento bensì la circolazione di più discorsi. Un altro appoggio filosofico è che esista un mercato delle idee e l’ottimistica supposizione che la gente finirà per scegliere le migliori.
Ma se in astratto la tesi che più discorsi offrano alle persone maggiori possibilità di scelta e orientamento potrebbe avere un senso con un numero limitato di oratori, è chiaro che in un contesto illimitato di oratori più discorsi significa essenzialmente più casino, e una maggiore difficoltà a reperire e individuare informazioni od opinioni fondate, documentate o imparziali. Inoltre, nella rete non c’è un mercato delle idee (concetto in verità piuttosto ripugnante ed economicista) ma un mercato dell’attenzione: le piattaforme cercano di organizzarlo secondo criteri di redditività all’interno dei quali il controllo delle fonti o la moderazione dei contenuti risultano elementi frenanti, venendo invece premiati in termini di accesso il sensazionalismo e l’aggressività. L’architettura delle reti, poi, tende a restringere e disseccare il singolo discorso, che deve passare per le forche caudine di una semplificazione che non è solo sintattica: è soprattutto concettuale.
Nemmeno è vero che la libertà di espressione sia tutelata senza limiti, come ben sanno gli editori che devono far fronte continuamente a richieste di risarcimento o denunce penali. Il diritto americano, del resto, è più indulgente di quello europeo sul punto ma anche più feroce quando si tratta di difendere un copyright. Negli ultimi tempi si è presa maggiore coscienza del fatto che alcune forme espressive si sostanziano in istigazioni ad azioni violente, o addirittura nell’avvio di quelle azioni, ed in ogni paese è stata introdotta una qualche sanzione dell’hate speech. La vicenda di Trump ha fatto scalpore perché si tratta dell’ex Presidente degli Stati Uniti e di un politico ancora attivo, ma Twitter aveva già cancellato 70.000 account a causa di fake news o istigazioni all’odio. Se è vero che nell’esercizio delle sue funzioni un’autorità politica gode di una particolare tutela per le opinioni espresse, è anche vero che il suo ruolo la pone in una condizione di maggiore responsabilità verso la collettività e rende necessario impedire che del ruolo stesso abusi.
Rimarrebbe di stridente, dunque, che a decidere di qualcosa che opera nello spazio pubblico siano gli amministratori di una società privata. Che però, proprio, in quanto privata – se non attua una discriminazione di categoria – è pur libera di stabilire quali regole vadano rispettate quando si adopera la sua piattaforma. Il problema allora scivola oltre, e si può inquadrare nella circostanza che la piattaforma coincida con lo spazio pubblico, e che la sua condizione di monopolista (condivisa tra pochissimi soggetti, dunque più precisamente oligopolista) faccia sì che le sue regole, decisioni, smottamenti e delimitazioni siano anche regole decisioni e smottamenti dello spazio pubblico.
Fuori dai regimi democratici, non si tratterebbe di uno svantaggio. È difficile dichiararsi contenti che i governi della Cina o della Russia abbiano dello spazio pubblico il pieno controllo. Il problema è di fatto identico: un monopolio (in un caso statale, nell’altro imprenditoriale) dal quale il soggetto rischia di venire stritolato. E un rovesciamento dell’utopia per la quale la rete avrebbe reso più vivo ed effettivo il concetto di opinione pubblica nel suo contrario.
Nei paesi democratici la prima strada è dunque la rottura dei monopoli, costringendo i signori dell’hi-tech a cedere parte dei loro imperi e promuovere le condizioni per un allargamento della concorrenza.
Sarebbe tuttavia un’azione incompleta se non si accompagnasse a un ripensamento delle architetture informatiche, una loro evoluzione verso un reale miglioramento dell’informazione e dei rapporti sociali, una riscrittura delle regole concernenti la libertà di espressione, o meglio un’armonizzazione tra quello che sarebbe consentito nel mondo fisico e quello che si può consentire nell’infosfera.
Questo significa anche che le piattaforme devono essere gravate di forme di responsabilità, abbandonando l’ipocrisia che si tratti di meri contenitori. Se sono responsabili sarà anche normale immaginare che siano tenute e negare ospitalità ad alcuni contenuti. Per temperare lo strapotere dei loro consigli di amministrazione, o dei loro padroni assoluti, e al tempo stesso impedire l’infiltrazione dei poteri politici e non sovraccaricare i tribunali, in prima battuta potrebbero essere da loro arruolate, con criteri di trasparenza e brevità del mandato, giurie selezionate di cittadini, che integrino il lavoro talora grossolano degli algoritmi. Che insomma prendano in prestito lo spirito di Wikipedia: se si riescono a compilare puntualmente e con un ottimo margine di esattezza voci di enciclopedia, sarà anche possibile coinvolgere quel tipo di persone nell’esercitare il controllo civico che aiuti davvero le piattaforme social a promuovere l’informazione, la liberà e il rispetto del prossimo.
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