Sull’uso militare dei droni
Marylin Monroe fu il primo volto pubblicitario dei droni. In realtà, non era ancora Marylin Monroe e nemmeno era ancora un’attrice: era ancora Norma Jean Daugherty, aveva diciotto anni e lavorava come operaia nella fabbrica Radioplane, che brevettava velivoli senza pilota. Era il 1944, il termine significava “ronzoni”, ed era un’onomatopea del rumore che producevano: si trattava di modellini e la loro natura era così fatua che la naturale conclusione del gioco era il loro abbattimento. Nel 2012 lo storico che aveva pronosticato “la fine della storia”, Francis Fukuyama, si trastullava nel suo garage (pure devi organizzarti il tempo in un mondo in cui è finita la storia), costruendo droni, che utilizzava soprattutto per raccogliere dall’alto immagini di scene della sua famiglia. Ammetteva peraltro che “un mondo in cui le persone possono essere regolarmente e anonimamente prese di mira da nemici invisibili non è piacevole da contemplare”. Intanto era appena trascorso il decennale delle prime vittime di un’operazione militare killer compiuta da un drone. Era accaduto il 4 febbraio 2012 quando il Predator (nome di battaglia del velivolo), che alla caccia di Bin Laden sorvolava la città afgana di Khost a pochi chilometri dal confine pakistano, uccise tre persone. Nessuno ha mai fugato il dubbio che non si trattasse di terroristi ma di tre comuni, poveri disgraziati che andavano a curiosare tra i rottami.
La guerra in Ucraina fa aggirare antichi fantasmi sul territorio europeo, e ci restituisce le immagini di carni dilaniate sul fronte. Ma anche è la prima nella quale, tra gli strumenti bellici, vengono massicciamente impiegati i droni. Non la prima in senso assoluto, neppure in Europa: la vittoria degli azeri sugli armeni nel conflitto del Nagorno-Karaback ha avuto la sua chiave di volta nel massiccio utilizzo dei droni turchi Bayraktar, di ultima generazione. L’idea che i droni sostituiscano gli umani sui campi di battaglia può apparire accattivante: a parte la mancanza di piloti che rischiano la pelle, la migliore potenza di calcolo dello strumento tecnologico dovrebbe risparmiare molte vite degli attaccati, centrando con precisione i bersagli militari e scansando quelli civili. Il drone si presenta come l’interferenza robotica perfetta, quella che sottrae all’uomo solo i compiti sporchi, pericolosi e disagevoli; e la realizzazione dell’utopia telechirica, professata negli anni sessanta dallo scienziato John W. Clark, ovvero la sottrazione dei vulnerabili corpi umani agli ambienti ostili grazie alla realizzazione degli odiosi compiti da parte di macchine controllate a distanza (Clark pensava soprattutto ai danni che l’uomo può ricevere dal calore o dalle radiazioni). L’ultimo tassello della specie che si ripara dai pericoli è quello di una guerra trasformata in un torneo per macchine, nella quale l’arbitro fischia la fine quando una delle parti ha finito i robot e gli umani possono alzarsi dal divano per sedersi al tavolo delle trattative. La guerra in Ucraina mostra un realismo più commisto dove, nel migliore dei casi, i droni servono a ispezionare il terreno e favorire missioni letali, che come da simpatica tradizione si svolgeranno tra soldati, con la coda delle rappresaglie sui civili. I droni tuttavia possono procedere direttamente all’azione mortale. Lo scenario della guerra in corso è utile per immaginare l’evoluzione tecnologica dei conflitti. Che spazio occupano in questo contesto i droni militari? Contribuiscono a ridurre la crudezza materiale delle guerre o ne appesantiscono il fardello morale?
Per ragionare sui droni è giocoforza partire dalla loro attitudine (sino all’anno scorso la principale) di inserirsi dentro conflitti a bassa intensità, ossia guerre non strettamente dichiarate o che si trascinano senza una chiara formalizzazione dei contendenti, estendendo notevolmente la “proiezione di forza”: che una volta era l’invio di truppe, e adesso è il controllo dello spazio aereo, con modalità differenti da quelli dell’aviazione. In una puntuta disamina filosofica, Teoria del drone, pubblicata in Italia da Derive e Approdi (nel 2014, ma il testo è ancora attualissimo), Gregoire Chamayou osserva come i droni militari tendano a surrogare il combattimento con la relazione unidirezionale tra un cacciatore e una preda che si nasconde, e suggellino il definitivo tramonto del valore eroico sul campo (né possono resuscitarlo le patetiche assegnazioni di onorificenze del governo americano agli operatori dei droni, coloro che li comandano a distanza). Chamayou mette in discussione diverse superficiali supposizioni riguardanti la riduzione della violenza e la razionalizzazione veicolata dai droni: i quali perseguono piuttosto la seduzione di una guerra permanente. Che ragione c’è di lesinare sulle missioni, una volta che risultano poco dispendiose, sia in termini monetari di costi/benefici sia di vittime umane (proprie)?
Come in altri campi, il gadget tecnologico maschera l’assenza di una strategia (qui politica). E, quando si tratta di combattere il terrorismo, suscita la forte tentazione di non stare troppo a sottilizzare sulle fratture sociali profonde e sul modo di risanarle. Quanto al risparmio di vite civili, benché il margine di errore sia elevato (specie se sono in gioco corpi militari che attraversano una fase critica di efficienza: gli errori commessi in Somalia dai droni russi somigliamo a certi impaludamenti delle sue truppe nella campagna ucraina; nelle missioni americane, invece, vige una certa propensione a ottenere la certezza dell’obiettivo per eccesso), è innegabile. Ma Chamayou oppone, in modo arguto, che le comparazioni si attuano tra fattori omogenei: e l’equivalente di un drone diretto su un bersaglio all’estero non è una pattuglia di bombardieri ma un corpo speciale di persone fisiche che devono avvicinarsi all’obiettivo per colpirlo.
Quest’ultima considerazione, tuttavia, non varrebbe per una guerra in corso. Se parliamo di guerre in corso, dobbiamo per prima cosa retroagire al momento in cui non lo erano: è in quella fase che la maggiore facilità di acquisire informazioni concernenti un potenziale campo avverso e di colpirne bersagli rende la pace più instabile (qualcuno ricorderà come nel 2019 due episodi di droni, uno per parte, abbiano elevato sino al punto di rottura la tensione fra Stati Uniti e Iran). Detto in altre parole: quel che semplifica tecnicamente l’azione militare la rende anche più probabile. L’unica eccezione (della quale però faremmo volentieri a meno) è la deterrenza nucleare reciproca. Nella storia delle armi, ogni aumento del distanziamento fra la leva (l’arco, il grilletto, la miccia, il pulsante) e il punto di lancio o di esplosione ha reso le guerre più sanguinarie, oltre che più vili. E la mediazione dello schermo, che l’educazione (o la dis-educazione) addestra a includere nella sfera della simulazione, raffredda ulteriormente la pietà verso la vittima, e conduce (per ragioni sia fisiche che psicologiche) a preferire l’uccisione alla cattura.
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Gli Stati Uniti continuano a dominare il mercato, e le stime (ormai da considerare al ribasso) prevedono che ne acquisteranno altri 50.000 entro il 2028. Ma i droni stanno diventando un diffuso e fondamentale strumento geopolitico, e nel giro di pochi anni i paesi che ne fanno uso sono aumentati del 58%: Pakistan, Irak e Nigeria hanno condotto attacchi con droni forniti dalla Cina, la Turchia ha guadagnato molto ascendente grazie alla sua produzione (si dice, favorita dal fatto che ne sia a capo il genero di Erdogan: ma questo è uno di quei casi in cui è facile scambiare la causa per l’effetto). Anche Israele, cui si devono le prime applicazioni belliche, ne sta facendo tesoro diplomatico. La diplomazia dei droni però non sostituisce la diplomazia dei cannoni: la precede e la sollecita.
Esistono due macrocategorie: i man-in-the-coop-drones e i man-on-the-coop-drones. Nei primi c’è la partecipazione umana nel controllo, i secondi ricevono gli input e procedono verso il bersaglio. Anche sopra questi ultimi residua un supervisore che interviene in caso di bisogno, ma si intravede nelle nuove generazioni prodotte la tendenza a diluire il dominio dell’uomo, specie nei cosiddetti drone-killer o drone-kamikaze. Del resto, se la premessa generale è che le macchine sono più efficienti nel processare le informazioni utili per realizzare un compito, è giocoforza che il potere di intervento umano sia sempre più considerato un rischio di intralcio ed errore. Dall’altro lato, è difficile pensare che droni militari, progressivamente più autonomi, possano rispettare le tradizionali leggi della robotica di Asimov (in particolare, non recare danno a un essere umano): e se pure quei bastioni etici sono stati erosi dal montare delle innovazioni, è complicato trovare posto ai droni anche in un upgrade della deontologia robotica adeguato alla nuova intelligenza artificiale.
Sarebbe incompleto, tuttavia circoscrivere la questione dell’attitudine offensiva dei droni alla progettazione espressamente militare. La cronaca più recente sta portando alla luce quel che era già evidente, e cioè come i droni commerciali siano facilmente riconvertibili ad uso terroristico o bellico. A novembre del 2021 droni quadcopter disponibili in commercio con solo 1000 dollari (magari pagabili in comode rate) hanno sorvolato la fortificata zona verde di Baghdad per attaccare la residenza del primo ministro sganciando dell’esplosivo e centrando di striscio il bersaglio. Droni di quel tipo sono in grado di circolare, inosservati, in mezzo alle centinaia di quelli che scattano innocuamente foto. In Ucraina uno dei fenomeni più interessanti è stato l’ampio dispiego di droni commerciali: per lo più a servizio di ispezioni di locali bombardati, di ripristino di servizi elettrici o documentazione di crimini, ma ovviamente anche per azioni più strettamente di intelligence e sabotaggio, e quasi certamente di attacco. La principale azienda fornitrice in Russia e Ucraina di questi apparecchi, la cinese Dij, ha deciso di sospendere temporaneamente le vendite nei due paesi, rivendicando la propria policy di uso non militare che l’aveva indotta a rifiutare di apportare modifiche idonee a mutarne agevolmente la destinazione (salvo, presumibilmente, che per il suo governo).
Non si può ragionare di colpo fuori dal contesto: se c’è da sostenere un paese invaso gli si invieranno i mezzi che gli servono, droni o non droni, e se c’è da disegnare un progetto di difesa europeo lo si costruirà secondo gli armamentari strategici che in quel momento ne garantiscono l’efficienza. Non possiamo tuttavia nemmeno condannarci a vivere dentro un contesto pericoloso e moralmente degradante, e urge creare le basi per un sistema cooperativo che provveda a trasformarlo.
È quindi necessario che i trattati di non proliferazione delle armi estendano la loro attenzione ai droni militari, misurandosi anche con le regole etiche emergenti in tema di intelligenza artificiale. E, per le ragioni che ho detto, il mercato di droni non commerciali va completamente rivoluzionato, introducendo i vincoli e i controlli che concernono il loro possesso (naturalmente, sul modello dei paesi che questi vincoli, per le armi, ce li hanno) e riguardano la produzione, cioè introducendo impedimenti tecnici all’utilizzo dannoso. Credo che l’idea futurista di un cielo coperto dai droni dovrebbe cominciare a sembrarci più inquietante (ed esteticamente più deturpante) di quella della campagna trafitta dalle pale eoliche. So bene che i droni sono in grado, già oggi, di salvare vite umane, ad esempio approvvigionando di risorse alimentari e farmaci zone non comodamente raggiungibili, e troverei folle un’umanità che rinunciasse a una simile opportunità. A questa, ed altre attività di valore umanitario, scientifico, sociale o artistico, dovrebbero essere dirette le loro ricognizioni. Nelle condizioni di rischio che ho descritto, mi sembra folle, invece, l’umanità che si compiace di farsi servire la pizza a domicilio con un drone. E non venitemi a raccontare che si eccita per la prospettiva in nome della sostenibilità ecologica del mezzo di trasporto.
Corrado Augias, Il Venerdì
Francesca Rigotti, Il Sole 24 ore
La conclusione del conduttore di Fahrenheit – Tommaso Giartosio
Queste sono le tre ragioni per cui ci si offende:
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Hai detto male di me
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Hai violato un confine
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Non ti sei accorto di me come, e quanto, avresti dovuto
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