Come il VAR sta guastando il calcio e cosa ci dice che non riguarda strettamente il calcio
“Sai caro, il bacio di prima mi era sembrato sincero e appassionato, però rivedendolo al VAR …”.
Ci pensate se un fresco fidanzamento potesse sgonfiarsi così?
Voi direte: e vabbè, ma il fidanzamento non è mica una partita di calcio. Ma siamo poi sicuri che il principio con cui viene applicato nel calcio sia tanto diverso? E, soprattutto, che il calcio ne abbia davvero bisogno?
Per chi non è addentro allo sport pedatorio, il VAR è uno sistema di controllo delle azioni decisive di una partita di (il gol, il rigore, il fuorigioco, l’espulsione), che con l’impiego di sofisticate tecniche digitali aiuta l’arbitro a non commettere errori. Può pertanto determinare, da parte dell’arbitro stesso, la modifica della decisione che aveva già preso.
In questo articolo mi comporto come se fosse intervenuto il VAR. Infatti ho cambiato opinione: all’inizio mi era parso sacrosanto (e stupido e passatista sostenere il contrario) che il VAR fosse una misura migliorativa, idonea a ridurre torti, errori e contestazioni. Ora, come se fossi stato chiamato al VAR, rinnego tutto. C’è voluto tanto tempo, dite? Eh, ma non è che come siamo avviati col VAR sia tanto differente. In alcuni recenti episodi si è arrivati a cinque minuti di attesa, come se non si trattasse solo di applicare principi fisico-matematici, ma discuterne i fondamenti. Non è da escludere che un giorno, la squadra che sta festeggiando a cena la fresca vittoria, veda interrotto il suo pasto da un addetto al VAR che entra nel ristorante e dice cupamente: “Signori, mi dispiace interrompervi ma dovete tornare in campo. Dopo un attento esame ci siamo resi conti che era al 93’ era da assegnare il rigore alla squadra avversaria”.
Che il VAR non fosse così razionale forse si doveva dedurre dal suo progenitore, la moviola che Enzo Tortora introdusse alla Domenica Sportiva nel 1965, ossia il riesame al rallentatore delle azioni più discusse della giornata di campionato. Essa si rivelò un pericoloso elemento surriscaldante delle tensioni, non limitandosi a rilevare degli errori – peraltro combattendo ad armi impari (l’occhio umano in diretta, posizionato dove capita e giudicante in velocità reale contro una ripresa rallentata e vista da più angolazioni) – ma acuendone la dolorosità per via della sadica reiterazione delle immagini. In alcune trasmissioni, venne elevata a dimensioni giganti e trovò un degno erede nel telebeam, capace di calcolare i centimetri di fuorigioco o i chilometri della velocità del pallone, quasi si trattasse di una formula chimica o della teoria dei quanti. Questa perversa e viziosa inutilità, però, si pensò potesse diventare salvifica se invece di essere relegata a chiosa postuma di querulanti televisivi fosse stata collocata ai bordi del campo, sbugiardando all’istante l’arbitro fallace e indirizzando il match verso il risultato giusto. Dopo decenni di discussione, si pervenne alla realizzazione di quel sogno, nella forma del VAR, perorato a livello internazionale, lanciato nella partita americana New York Red Bulls- Orlando City B nell’agosto del 2016 e varato nella nostrana serie A un anno dopo. Il primo episodio da protagonista fu al 37’ minuto di Juventus-Cagliari l’assegnazione di un calcio di rigore contro la Juventus. Contro la Juventus! Forse anche quello parve un segno del fato, il presagio che ora c’era, finalmente, un giudice a Berlino (comunque Buffon parò sprezzantemente il rigore. Forse quello era il segno del fato).
Si volle precisare che lo strumento si sarebbe limitato a segnalare solo errori chiari ed evidenti. In realtà, il prepotente VAR non si limitò a riformare gli errori ma riscrisse le regole: l’esame analitico indusse a prendere in considerazioni falli di mano insulsi, contatti inevitabili e il “fuorigioco molecolare”. Il tallone di Wesley, giocatore dell’Aston Villa che nemmeno aveva segnato ma solo partecipato in modo probabilmente ininfluente all’azione, fu il debordamento decisivo del confine e giustificò l’annullamento per fuorigioco del gol del pareggio in una partita inglese: il tallone di Wesley, rimasto, come quello di Achille, imperfettamente immerso nello Stige; e modello di un nuovo corso, nel quale l’unità muscolo-scheletrica-spirituale del calciatore scompare a favore di un atomistico smembramento reso disponibile all’autopsia.
“Il calcio è una questione di centimetri” fu il lapidario aforisma che negli anni ‘80 il presidente della Roma Dino Viola riservò al gol annullato a Turone nella partita della Roma con la Juve, che sancì lo scudetto dei bianconeri. Quel paradosso, ora, potrebbe essere la massima geometrica che governa l’arbitraggio, errato solo per eccesso: è una questione di millimetri. Oggi il gol di Turone non sarebbe stato annullato, ma quel che Viola intese dire mi sembra più profondamente la ridicolaggine di attaccarsi a simili distanze fisiche per decidere un evento sportivo.
E però, per quanto si possa contestare un surplus di matematizzazione, il fuorigioco ha almeno il pregio dell’oggettività (più o meno, perché entro piccolissimi limiti può sbagliare anche il VAR). Ma un contatto o un fallo di mano avvengono all’interno di un contesto e nel quadro di una volontarietà (o di una sua assenza) che il VAR non è in grado di rilevare: meglio, il VAR mostra ma non interpreta. Se usciamo dal calcio e torniamo all’esempio iniziale del bacio, in molti casi il VAR è chiamato in causa non per misurare la sporgenza della lingua ma per giudicare la genuinità del trasporto. Come hanno scritto, simpaticamente parafrasando Nietzche gli autori di un libro filosofico sul calcio, Corrado del Bò e Filippo Santoni de Sio: “Non esistono falli ma solo interpretazioni”.
È qui che si infrange il mito dell’oggettività: il giudizio passa comunque per l’umano, prima l’assistente del VAR e poi l’arbitro, cui spetta la decisione finale, che egli prende tuttavia sotto una pressione incomparabile di quella ante-VAR e più propensa a soddisfare la macchina. Gli arbitri, oggi, sembrano in effetti spinti agli estremi dentro la gradazione che va dall’accomodante deresponsabilizzazione al furioso esibizionismo.
L’introduzione del VAR ha da dirci diverse cose che non riguardano strettamente il calcio. La prima, già felicemente colta da Paolo Ruffino in Ultimo Uomo, con tanto di riferimento a Baudrillard, riguarda il primato dell’iperrealtà, ovvero la generazione di modelli e simulazioni per rappresentare un reale che non esiste. Il “VAR ha introdotto un nuovo ordine di realtà nell’interpretazione di un evento sportivo: quello visto dalle telecamere ma non dall’occhio umano. Ed è questo successivo ordine di realtà a essersi sovrapposto al precedente prima di obliterarlo”. Come esempio Ruffino cita quello del calciatore turco Arlsan che nel 2020 è stato espulso per avere mostrato su un cellulare (immagino non il suo) all’arbitro un errore aveva commesso (e quindi, come giustamente osserva Ruffino, Arlsan dal suo punto di vista faceva bene ad arrabbiarsi, perché seguiva un diverso concetto del rapporto tra realtà e razionalità rispetto a quello arcaico dell’arbitro e orientato alla priorità gerarchica della rappresentazione mediatica rispetto al ricordo dell’esperienza dal vivo). Nel VAR insomma è disseminata la traccia di quella sopraffazione degli eventi da parte della loro mediatizzazione, che non resta relegata al calcio ma, come ben sappiamo, si estende anche a una pandemia o a una guerra.
La seconda è l’irrompere ideologico della sorveglianza digitale in ogni dove: siamo abituati a considerare che in mancanza l’esperienza sia monca. E infine, l’affiorare confuso di quelle questioni che travagliano oggi i nostri conflitti riguardo al vero, al giusto e alla responsabilità, malamente riversate sullo sport.
Il vero del VAR, come abbiamo visto, non è il vero del calcio, che dovrebbe passare per l’evidenza dell’occhio. Se poi ci riferiamo al VAR quale modo per rendere più giusto l’esito di una partita di pallone siamo fuori strada ancora peggio: tre centimetri di fuori gioco o un contatto involontario, ma a ben vedere neppure certe coscienti turpitudini di gioco, non sono scherzi della sorte più ingiusti dell’inciampo sul pallone, della fortuita deviazione sul palo, del filo d’erba che altera il rimbalzo, della tempesta che interrompe la partita (e in termini psicologici, poi, nulla è più falsante che vedersi annullato un gol dopo averlo festeggiato per due minuti e avere atteso l’esito del controllo per altri tre, lunghezza che peraltro stride per definizione con l’errore chiaro ed evidente). Parliamoci chiaro: la metà delle volte il risultato di una partita è ingiusto, ed è proprio questo margine di inesattezza cosmica che rende bello il pallone e lo accomuna esteticamente all’epica di una tragedia greca o l’ingarbuglia nei fati avversi che ci fanno piangere alla fine di un romanzo. Va bene un correttivo per i casi estremi: una persona sola con un mini-VAR (e il relativo risparmio di sei miliardi: guardate che se ci tagliano il gas, i soldi da qualche parte dobbiamo andare a risparmiarli) per censurare sull’istante aberrazioni ciclopiche (“oh, hai espulso quello sbagliato!” “occhio, che il terzino l’ha colpito con un temperino”; se volete facciamoci stare anche qualche fallo che proprio grida vendetta a vista d’occhio) e tranquilla verifica a posteriori per sospendere a tempo indeterminato gli arbitri scarsi, specie se sbagliano da un lato solo. E poi riscoprire quel sommo filosofo greco, Anassimandro mi pare, che disse “Rigore è quando l’arbitro fischia”!
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