VIAGGIARE O NON VIAGGIARE
Tua cugina è stata a Roma e ce lo fa pesar
E sì, viaggiar si deve disse un giorno
E sbottonatosi il paltò tutto il paltò
Tutto il viaggio raccontò
Quando descrisse anche il bidet
Ci siam sentiti come due pezze da piè
(Paolo Conte)
“State a casa” era uno degli slogan durante il Covid. Ma c’è una nuova generazione convinta che si tratti di un motto con portata generale, perlomeno se si tratta di varcare una frontiera. La trentenne poetessa spagnola Mayte Gomez Molina lamenta la sua delusione all’arrivo a Parigi, dove tutto era “esattamente uguale alle foto/ meno la spazzatura e i topi/ i senzatetto/ la polizia ovunque (…) Vorrei ci fosse un posto remoto/ non fotografato/ un pezzo di terra che rimane/ inesplorata/ dove i nostri impulsi/ diritti non arrivano”.Gli fa eco il ventisettenne catalano Pol Guash, suggerendo che “forse preferiresti pagare le bollette invece di/ cucinare il salmone sulle pietre ardenti accanto a una cascata/ preferiresti andare a vedere il solito bar per vedere vecchi amici/(…) e non pagare qualcuno a Bali per una scimmia ammaestrata”. Un recente articolo su El Pais inserisce tali testimonianze letterarie come emblema della generazione X, cresciuta nel disincanto dall’ideale romantico del viaggio come rito di iniziazione (una volta, direi, passato il brio dell’Erasmus), nella dolorosa consapevolezza delle sofferenze del pianeta e nell’educazione sentimentale nell’immobilità spaziale davanti allo schermo. Si tratterebbe in fondo di un ritorno al lontano passato, quando viaggiare pareva balzano, e di fronte agli altri era opportuno giustificarsi, come affermava il medico Paracelso nel 1537, in un’epoca in cui fiorivano trattati su come viaggiare utilmente (tipo per la diplomazia o il commercio), tenendosi al riparo dalla vanità e dal vagabondaggio. Del resto Petrarca, già un paio di secoli prima, aveva osservato che viaggiare fa perdere soldi, i legami amicali e un sacco di tempo.
Anche se l’industria turistica rimane quella più trainante del pianeta, e anzi proprio per questo, tornano a levarsi voci critiche contro questa attività che tanti di noi percepiscono intimamente come quella più eccitante della propria esistenza. In primo luogo le voci dei residenti delle località di richiamo, invasi da orde di turisti che scompaginano il loro riposo notturno e la loro organizzazione economica. Barcellona, nel volgere di un paio d’anni, è passata da meta dell’accoglienza vacanziera a roccaforte restia all’espugnazione dove i residenti sparano per strada con pistole ad acqua agli invasori e il sindaco promette di cancellare tutti gli Airbnb entro il 2028. Ibiza o le Canarie, delle quali avevamo quasi dimenticato esistessero fuori dal turismo, cominciano a fare barricate. In una quantità di città o borghi europei si leggono cartelli che incitano i turisti a starsene a casa loro. Intanto, le amministrazioni introducono a Venezia una nuova tassa giornaliera di 5 euro e a Dubrovnik si accingono a vietare il molesto rollio dei trolley. Persino in Kashmir non ne possono più (dagli torto! Negli ultimi due anni sono arrivati cinque milioni e mezzo di visitatori). Cresce una certa insofferenza intellettuale che attacca alle radici il mito del viaggio come crescita o scoperta. Ne dà buon resoconto l’appena uscito in Francia Renoncer aux voyages. Une enquete philosophique, di Juliette Morice. E in Italia il testo di riferimento degli ultimi anni è Il selfie del mondo di Marco D’Eramo, anch’esso viaggiante (eh sì, la metafora resiste) nel tempo (indagine da Mark Twain al Covid-19).
Le principali imputazioni contemporanee al viaggiare si focalizzano su due aspetti: il primo è che per effetto della piatta omogeneità prodotta dalla globalizzazione i posti si somigliano tutti, l’esotico è scomparso, insomma non c’è più niente da vedere. Un correttivo di tale tesi è che non ci sia più nulla da vedere di autentico: cioè, la diversità esiste ma è posticcia, è un’apparecchiatura, una scadente recita teatrale per mimare tradizioni scomparse o mai esistite e celebrare l’identità di luoghi che proprio per effetto del turismo l’hanno perduta. Il secondo e più recente capo d’imputazione concerne la salute del pianeta. I viaggi inquinano, specialmente quelli aerei: è nato in Svezia un movimento, il flight shaming, che mira a dissuadere dall’uso dei velivoli per alleggerire l’atmosfera del personale carico di qualche tonnellata di diossido di carbonio. Se pure, però, i turisti arrivassero a piedi alle tombe egizie nella Valle dei Re, il loro solo respiro e la produzione di umidità e funghi che ne consegue ne farebbero scomparire le decorazioni nel volgere di un paio di secoli. Egualmente il loro arrivo crea deforestazione e smottamento del sito a Machu Picchu e l’Everest non è solo la vetta più alta del mondo, ma anche la più alta discarica.
A questi difetti di equilibrio, ne aggiungerei un terzo, ovvero la portabilità del proprio mondo. La tecnologia digitale infatti non solo ci spoilera abbondantemente quel che troveremo mentre stiamo ancora progettando il viaggio sul divano di casa, ma ci seguirà nella spedizione rendendoci più distratti – lasciandoci attaccati a incombenze, musiche, diversivi, notiziari e conversazioni identici a quelli che ci ingombrano nel quotidiano – oltre che smaniosi di condividere l’immagine di un tempio prima ancora di esserci entrati in qualche forma di sintonia spirituale. Infine, ragionando sulla dimensione critica del viaggio, non si può prescindere dalla storica e antagonistica distinzione tra turista e viaggiatore (personalmente feci scoperta della sua enunciazione ne Il tè nel deserto di Paul Bowles, ma essa data in realtà alla fine dell’Ottocento), per la quale il primo è lo zotico fetente e il secondo l’illuminato cosmopolita. Da questa presunta dicotomia vorrei partire per riesaminare la questione nel suo complesso, e offrire il mio contributo alla questione se questa benedetta valigia sia da riempire o debba invece essere riposta nello scantinato, affinché i pronipoti la rivendano un giorno quale vetustà antiquaria, tipo oggi i vasi da notte o i portafiammiferi.
“Ho visitato ieri Chambord. Ho scolpito il mio nome sulla torretta più alta, preso un pezzetto della croce su cui Francesco I incise i suoi versi”. “Scendendo ho preso un pezzetto di marmo del Partenone, così come avevo raccolto un frammento di pietra della tomba di Agamennone”. Sto menzionando due post sui social dei soliti vandali imbecilli che riempiono le fila del turismo di massa? No, i passi riportati sono candide confessioni rispettivamente di Victor Hugo e di Chateaubriand. Già questo non è monito insignificante riguardo alla linea labile che passa tra il viaggiatore e il turista; o forse tale linea è del tutto inesistente, come ha ipotizzato la filosofa Agnes Callard sul New Yorker: “chiamiamo turismo quando viaggiano gli altri”. In effetti, il personaggio letterario rimasto come paradigma del viaggiatore, il Phileas Fogg del Giro del mondo in ottanta giorni, compì il suo record con un continuo mordi e fuggi senza vedere nulla, peggio del più sciatto turista di nave da crociera. E se vogliamo dare credito a Kipling, che additava nella velocità la morte del viaggio, la cui essenza risiederebbe nella lentezza e persino nella fatica e nella sofferenza, è innegabile che sia rimasto più nello spirito il turista intruppato in un torpedone che raggiungerà la meta non così lontana in una ventina di ore piuttosto che l’intellettuale che con i cambi di volo appropriati atterrerà nel medesimo tempo in un altro continente.
Sono pochi, insomma, a potersi accreditare come “viaggiatori”, ed è più onesto riconoscere che siamo tutti turisti, salvo che lo si può essere in modo attivo e scrutatore, o in modo massificato e passivo (o inserirsi in una media tra i due estremi, magari anche nello stesso viaggio). Un difetto d’impostazione che affligge il secondo tipo è che parte per un luogo non per essere là, ma per esserci stato, e non abbandona mai questa prospettiva, neanche per minuto quando è sul territorio che sta teoricamente visitando e sullo sfondo del quale certifica la sua presenza con il selfie. Inoltre, come già rimarcava lo storico Daniel Boorstin, il turista cerca la caricatura, “non il giapponese ma il giapponesizzante”; è magnifica la metafora di Enzensberger, che “il turista autentica il manifesto pubblicitario che l’ha spinto a partire”. Aggiungiamo pure che questo soggetto è infinocchiato da una messinscena collettiva e non vede al di là della sua guida (fisica o cartacea). Cosa ne dobbiamo ricavare sul piano pratico? Poco. Non solo ha diritto a viaggiare quanto ce l’hanno quelli più colti e svegli, che comunque i loro teatrini più sofisticati se li sciroppano, ma tornerà con la mentalità più aperta che se non si fosse mosso dai metri quadri del suo quartiere. Chi, pretendendo di parlare per gli altri, nega che valga la pena di viaggiare di solito è uno snob (che viaggia abitualmente) o uno stupido. O Chesterton, che era uno stravagante con il gusto del paradosso. O Kant, che conosceva la geografia meglio dei viaggiatori, ma era un genio e lo sarebbe stato pure se avesse rinunciato all’unico suo svago, la passeggiata delle sette.
E però, questo visitare il mondo non è ormai un’attività circolare e fine a se stessa, un po’ come quella follia dei flights to nowhere, nati nel mezzo del Covid, con aerei che si libravano in volo e tornavano ad atterrare nello stesso scalo da cui erano partiti, giusto per restituire la sensazione briosa di adoperare un mezzo, sganciato dalla propria finalità? Nel senso: è vero che alla fine dove ti sposti ti sposti, il meglio te lo sei perso da anni, perché le tradizioni più autentiche sono tramontate e così lo spirito originario del luogo, e tutto è finto e volgarmente turistico, e comunque tutto circolarmente sovrapposto e omologato? Gli estremisti di questo genere di argomenti dovrebbero imparare qualcosa dal grande antropologo Claude Levi Strauss che in “Tristi tropici” sviluppa l’argomento grosso modo così: certo, mi piacerebbe esser vissuto i tempi dei grandi veri viaggi e godere dello spettacolo di uno splendore non ancora rovinato. Ma se è vero che più vado all’indietro e più trovo usi e luoghi incontaminati, è anche vero che sarei stato troppo ignorante per capire veramente qualcosa di quegli usi e costumi, per aggiungere delle riflessioni alla pura e superficiale curiosità. “Meno le culture erano in grado di comunicare tra loro meno i loro emissari erano in grado di cogliere la ricchezza e il significato di questa diversità”. Cosicché l’alternativa è “tra viaggiatore antico, confrontato a un prodigioso spettacolo, di cui quasi o tutto gli sfuggiva o peggio gli ispirava canzonatura o disgusto; oppure viaggiatore moderno che insegue le vestigia di una realtà scomparsa. Sono perdente su due tavoli”. Ma perdente per sua colpa, perché, aggiungeva: “Tra qualche centinaio di anni in questo stesso luogo un viaggiatore altrettanto disperato quanto me piangerà la scomparsa di quel che avrei potuto vedere e mi è sfuggito. Vittima di una doppia infermità. Tutto quello che percepisco mi ferisce e mi rimprovera senza tregua di non guardare abbastanza”.
Insomma, un eccesso di lagna è sempre indizio di una deplorevole cecità: in ogni luogo del passato sono rimaste tracce di bellezza, e qualcuna è stata disseminata in luoghi più recenti (va da sé, insieme a una quantità rimarchevoli di nefasta bruttezza). Un viaggio del tutto deludente, prima che del luogo, è colpa del turista che evidentemente non ha saputo programmarlo nel modo corretto per le sue aspettative o non ha adattato l’itinerario in corsa o non ha mobilitato a sufficienza i sensi. Di paesaggi e segni della storia, o alla peggio di interazioni con i locali passibili di uno scambio di tratti culturali, ce ne sono ancora a iosa, per chi è motivato e capace. Ma come la mettiamo con il difetto di autenticità? Di quella sovrabbondanza di “tipico” e “pittoresco” riguardante fenomeni sociali che hanno da tempo perso il loro slancio vitale e sono attaccati artificialmente alla spina al solo fine di intrattenere i turisti? In realtà anche questa è un’impostazione semplicistica: quel che considereremmo “autentico” di un posto era di solito il frutto di contaminazioni di precedenti incontri con culture diverse; e quel che rappresenta l’autentico di oggi in certe amene località, se fosse ostentato sulla scena, susciterebbe cruccio e noia negli stessi residenti.
Il “tipico” da pataccari non per forza cancella quello più sincero: mantenendo viva l’attenzione sull’esistenza di un’usanza aiuta a tenerla in vita rinnovata, dentro nicchie differenti dal turismo di massa. A dirla tutta, poi, da oltre un secolo, da quando lo spirito del capitalismo ha preso le redini, non residua neppure una vera differenza tra autentico e falso, tra spontaneo e teatrale: gran parte del tempo delle nostre relazioni sono spese agendo sotto una maschera sociale e come se si fosse parti di una recita collettiva su un palcoscenico. Un po’ è inevitabile nell’organizzazione sociale, un po’ è disturbante; ma assai più per il fatto che infetta le giornate ordinarie che per il suo ripetersi in quelle di vacanza. Tuttora c’è il vantaggio che ciascuno, quando viaggia, può scegliere di assistere alla rappresentazione coerente con la sua sensibilità e i suoi mezzi, così come ciascuno sceglie se trascorrere una serata con Shakespeare o con un reality show (e la proporzione tra gli uni e gli altri determinerà se sia più probabile che a decidere i destini della terra sia un Trump o un novello Lincoln).
Poi c’è il problema che i viaggi inquinano, ma ormai in modo dirompente, specie alcuni. Credo che a tutti sarebbe evidente che, se la sostenibilità del pianeta lo richiedesse, sarebbe tuttavia idiota pretendere che la gente riorganizzi la sua esistenza in rifugi sotterranei. Non è che sia tanto distante chi ipotizza di impedire alle persone di viaggiare, salvo che nelle frazioni raggiungibili con la bicicletta. Se siamo a un punto così grave significa che gli sforzi congiunti dei governi umani debbano consistere nel lavorare sugli aggiustamenti tecnologici e di organizzazione sociale che rendano possibile farlo. E tra le misure plausibili la più meschina (eppure sin qui la più in voga progettualmente) è quella classista, che si risolve nel rendere più costosi i viaggi, ovvero restringerli a prerogativa esclusiva dei ricchi. Rendiamo obbligatorio piuttosto lo smart working in luogo dei viaggi d’affari, ma preserviamo quel nucleo del senso di vivere che consiste nello scoprire il mondo. Chiaramente della categoria non fa parte il viaggio che consiste nell’impadronirsi di un paese, fare casino fino a tarda ora, nutrirsi nelle catene delle multinazionali, lasciare ottanta lattine di birra sulla riva o schiattarsi la musica a palla sullo yacht davanti a una spiaggetta dove qualcuno stava godendo il silenzio: a parte i rimedi che dirò alla fine, queste non sono persone (non in quel contesto), sono pacchi, sostanzialmente indifferenti al fatto di trovarsi in un luogo piuttosto che in un altro. Ci si regolerà come per la circolazione delle merci o dei carichi infiammabili, che ben possono essere limitate in vista di un interesse superiore. Eliminiamo le tratte aeree in tutti i percorsi che possono essere in un tempo ragionevole attraversate in treno: ma i cambiamenti dell’organizzazione sociale non possono essere isolati. I treni dovranno pur decuplicarsi, e i costi tenuti bassi attraverso misure di governo e accordi internazionali, e si dovrà entrare nell’ordine di idee che il peso specifico della velocità si riduca dentro il concetto di performanza dei servizi, e della nostra stessa esistenza (potremo compensarlo con la velocità delle transazioni che si perfezionano per via digitale).
Riguardo all’essere tanti, nello stesso momento in un posto, non credo si possa prescindere da un accesso selezionato per rotazioni: quando però sento quelli che propongono di ridurre a brevi passaggi i transiti nei siti (una disgraziata fusione di consumismo e virtualità), penso alla tristezza che mi ha colto vedendo i credenti inginocchiati a Gerusalemme davanti alla pietra del Santo Sepolcro, dopo averla raggiunta magari da un altro continente, costretti ad alzarsi dopo trenta esatti secondi da due sorte di buttafuori, uno dei quali batteva seccamente le mani gridando marziale: “Okay, stop!”. Il limite delle grandi crociere o di tanti viaggi organizzati è che già implicano simili sintesi, che nella sostanza negano persino lo scheletro di un viaggio, ancorché turistico. Sono formule che vanno ripensate con altre maggiormente rispettose dell’ambiente e più stimolanti, più frazionate (da un certo posto di arrivo si potrebbe procedere con mezzi di trasporto più piccoli e scaglionati nel tempo), ma sempre mettendo al primo posto l’accessibilità da parte dei meno abbienti. E al primo posto ex aequo la tutela dei residenti.
Perché è proprio questo il profilo che da cinquant’anni si è progressivamente trascurato: si è fatta passare la frottola che in qualche modo il turismo porti sempre ricchezza, perché arriva gente che spende e così mette in circolo denaro. Oltre al fatto che il turismo da crociera sui luoghi lascia poco e nulla, più in generale le comunità più munite di attrattive (le capitali, i luoghi esotici o dotati di qualche peculiarità storica o naturale) si siano riorganizzate per il comodo dei turisti invece che dei residenti. Per scoprire poi l’idiozia della premessa: certe spianate alberghiere a fini turistici hanno orbato le prospettive panoramiche, e l’invenzione del sistema Airbnb ha elevato in modo insostenibile il costo delle locazioni ordinarie, quando non le ha in pratica espulse dai centri, come accaduto a Lisbona. E l’espansione del settore enogastronomico è avvenuta a spese di tanti altri settori che tutelavano l’esistenza di una comunità di quartiere. “L’uomo è ciò che mangia” diceva Feuerbach. “L’uomo? È quello che mangia” risponderebbe un animale al suo cucciolo che gli chiede informazioni etologiche, indicando quei tipi seduti ai tavolini che ricoprono l’intera superficie di centri storici, nei quali persino un branco di lupi a un certo punto, assalito dalla noia, si domanderebbero come è possibile che non si trovi un cinema o una bottega di cucito.
Fra la prevaricazione sui locali o il distanziamento sanitario esiste una terza via, e non è la monetizzazione del disturbo (paga, almeno, e ti facciamo entrate): la suggerisce l’amministrazione danese – i paesi scandinavi sono sempre degli ottimi laboratori creativi di interventi politico-sociali). Potremmo definirli incentivi a comportarsi civilmente e con rispetto della comunità. Da questa settimana, chi va in bicicletta o prende i mezzi pubblici può “incassare” un cocktail omaggio in un roof-bar o del tempo extra su una pista da sci. Tra i comportamenti che generano benefit c’è persino svolgere dei piccoli lavori di giardinaggio, o di raccolta rifiuti al parco. È solo uno spunto, ma la base ideologica è incantevole, e assai ampliabile. A questa parte di spinta gentile ne aggiungerei una sanzionatoria piuttosto pesante, comprensiva di rimpatrio seduta stante per i comportamenti disturbanti. E una tassazione elevatissima per i viaggi nei resort esclusivi per finanziare, da parte di chi può permetterselo, il turismo culturale. In termini politici, al noto obiettivo di tornare a fare del consumatore un cittadino aggiungerei quello di fare di ogni turista un viaggiatore, almeno un poco.
Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.
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