Non sarà comparabile a quel che accadeva in Germania Est, ma la paura che il compagno di pianerottolo spifferi all’autorità che in casa si fa bisboccia ad onta del lockdown (o anche che se lo inventi, come pare sia capitato) ha gettato un altro macigno sul mito del buon vicinato, specialmente quello urbano. Il vicino su cui si poteva contare, nel caso fosse finito il prezzemolo in casa (capita ancora la scampanellata di salvataggio, certo: le ultime mie due ricevute riguardavano un cavatappi e un’aspirapolvere)sembra si stia eclissando.
Una notevole indagine sul vicinato italiano promossa nel 2016 nientemeno che da Nestlé, interessata ad esplorare la buona mediazione che il caffè potrebbe apportare ai rapporti di ringhiera (che meraviglioso modello di brand journalism! Ma di questo parliamo un’altra volta) tracciava un ritratto agghiacciante della percezione che gli italiani hanno del proprio vicino. Il 61% dei 1800 intervistati non solo non pratica alcuna frequentazione di vicinato ma teorizza fieramente che mai vorrebbe rimanervi invischiato. I più asociali sono i manager (68%) e i milanesi (69%). Il 45% evita di usare l’ascensore se deve infilarsi insieme a un vicino, il 39% si accerta che non ci sia nessuno sul pianerottolo prima di aprire la porta.
È davvero esistita un’epoca aurea del vicinato urbano? Se scorriamo i massimari di giurisprudenza ci accorgiamo che le controversie condominiali rappresentano una quota cospicua del contenzioso, e non certo da ieri. E non sarà un caso se il rapporto di vicinato costituisce un tema scabroso della cinematografia, dove il vicino viene prospettato come alieno, invasore, assassino, enigma vivente. Da La finestra sul cortile a Funny Games, da American Beauty a Rosemary’s Baby, da Uno sconosciuto alla porta ai telefilm di Dario Argento, per ragioni diverse, sarebbe sempre stato meglio che l’altro appartamento fosse rimasto sfitto (in compenso Earl Kesse/John Belushi alla fine è stato ben contento che fossero giunti I vicini di casa).
La letteratura è meno terrificante, ma prevalgono le conflittualità. Il romanzo Turbine, la migliore uscita narrativa del 2018, svuotava di ogni illusione comunitaria anche il vicinato poderale. In Sommersione, la sorprendente opera italiana del 2020, l’azione più torbida del torbido narratore è l’avvelenamento del cane della vicina. Va controcorrente La figlia unica, mio personale top romanzesco dell’anno trascorso, nel quale la protagonista scambia oltre ogni sua aspettativa (e con un segno importante sulla sua vita) affettività con la famiglia che è venuta ad abitarle a fianco, una vedova e il figlio, della cui esistenza all’inizio si accorge dalle loro liti belluine. E in effetti, l’ingresso nella famiglia del vicino è l’unico, vero modo per cessare di essere l’intruso che pascola sul confine.
Prima di tornare su questo punto (e sull’aiuto che ci offre il teatro nel comprenderlo), due parole su perché il vicinato abbia così ridotto la sua importanza relazionale e simbolica negli ultimi trent’anni. La risposta è: le persone hanno più risorse di scelta riguardo a chi frequentare, e uscire di casa per spostarsi di qualche scalino viene vissuto come momento di staticità. Chiaramente, il maggior potere di scelta è connesso alla disponibilità economica, ragion per cui c’è passa una notevole differenza tra i quartieri operai e quelli borghesi.
La Rete ha completato questo processo, collegando individui sempre più lontani e al tempo stesso risucchiando dentro questa forma di contatti il tempo casalingo. È significativo che un tentativo di recuperare il rapporto di vicinato debba passare anch’esso sotto le forche caudine dei social (come nella piattaforma Neighborood di Facebook e di Nextdoor).
La concorrenza dello schermo è un fenomeno che riguarda anche i bambini, che sono meno interessati a intercettare sul balcone il bambino del piano di sotto che a intercettare on line i messaggi dei cuginetti o degli amichetti più lontani (o a disinteressarsi del contatto umano). Nell’esperienza del bambino si tratta sicuramente di una perdita: ve lo dice uno le cui prime esperienze di vicinato all’arrivo in un complesso di case nuovo e pieno di coetanei sono state: 1) una corsa con l’ambulanza all’ospedale col braccio rotto, perché essendo alla prima esperienza di pallone veniva travolto dai neo-compagni come da una mandria di bisonti mentre si piazzava inerte in mezzo al cortile, sentinella in attesa del cambio della guardia; 2) al suo primo invito a una festa conquistava, grazie al suo eloquio esageratamente forbito, il cuore della bambina vanamente agognata da tutto il palazzo e si assicurava l’odio dei maschietti presenti, che provvedevano a stendere un’apocrifa e sgrammaticata lettera di disdetta dell’appuntamento fissato presso il salumiere (non erano ancora gli anni dell’happy hour, però la spesa era un’occasione mica male) che il giorno dopo la bimba avrebbe letto sgomenta. Ma tutto si appiana nella vita! (la bambina però non l’ho rivista, traslocò poco dopo). E il vicinato dell’infanzia e dell’adolescenza sarebbe diventato in realtà un manto protettivo e una scuola di vita relazionale.
Nella vita adulta, e dunque nelle diverse sistemazioni abitative, ho constatato che il vicinato ha qualche bagliore comunitario quando c’è da fare squadra per difendere (e dunque da attuare forme di vigilanza riguardo agli intrusi oppure azione comune contro condotte esterne di disturbo) o per realizzare (progetti legati al miglioramento stabile della vita abitativa). Si tratta di azione collettive, condominiali ma quasi sempre è dove c’è quello spirito (e l’architettura che lo favorisce) che si prende l’abitudine di guardare più a lungo in faccia il singolo vicino, e aumentano le chance che diventi pure un amico con il quale è piacevole passare la serata.
Tanto più la piacevolezza dell’esistenza è a portata di passeggio tanto meno si avverte le necessità di addolcirla con gli scambi di vicinato: tendenzialmente, dunque, peggio il centro che la borgata (dove però i conflitti assumono una portata devastante) e la collina.
Ma nessuna ubicazione può mai redimere il peccato capitale del vicinato, e cioè che l’abitare è la cosa più personale che esista, e quel che filtra della presenza altrui – oltre a smantellare la nostra autodeterminazione: come riposare con quella televisione al massimo? – rompe quello zoccolo duro di interiore eremitismo, o di chiusura dentro la cerchia familiare ristretta, e mette a repentaglio i segreti (banali o cruciali che siano, ma comunque i segreti) che si rivelano soltanto nell’abbandono domestico. Se è vero che l’individuo indossa mutevoli maschere nelle sue interazioni sociali, è vero che il vicinato consente di coglierlo sovente nel retroscena (per usare la terminologia di Erving Goffman), contro la sua volontà (si pensi alle liti che travalicano le pareti). L’unico modo di accettare che il vicino – oggettivamente – si intrometta nelle mura familiari è spingere quella presenza terza sino all’interferenza, alla catarsi, all’ordalia, all’eucaristia. Farne, rispetto alla famiglia stessa, un arbitro o un risolutore.
Questa possibilità di intreccio tra le relazioni familiari e lo sguardo, non più profanatore ma purgante, del vicino è resa a meraviglia nel teatro di Eduardo De Filippo. Nel grande commediografo napoletano il vicinato è una presenza costante: si va dalla tensione tra Ferdinando Quagliolo e i figli del notaio Frungillo che accusano il primo di avere avvelenato il loro cane (un topos letterario!) alla veglia carica di sollecitudine di tutto il palazzo intorno al capezzale di Luca Cupiello, e in mezzo – nel corpus eduardiano – gradazioni di respingimento e accoglienza. Ma due sono le opere che illuminano l’ambiguità parafamiliare del vicino: Questi fantasmi e Le voci di dentro. Chissà se alla Nestlé l’idea di brandizzare il caffè nella fenomenologia del vicinato l’ha fornita proprio Questi fantasmi, dove il protagonista Lojacono si intrattiene in conversazioni amichevoli col dirimpettaio (senza che mai uno abbia varcato la soglia di casa dell’altro. Il dirimpettaio, peraltro, non appare neppure nella commedia ma è un muto fuori scena al quale si rivolge Eduardo), la più famosa delle quali dedicata alla preparazione del caffè. Il Professore, come viene appellato il vicino, pesca sempre Eduardo in momenti personali delicati (crede di vedere i fantasmi in casa ma non vuole che il vicinato lo sappia), e ne suscita sovente l’irritazione (ma questo sta sempre affacciato? Ma gli avessero fatto la fotografia? Non tiene mai che fare?). Poi però il Professore raccoglie le confidenze di Lojacono e ne diventa il coach, ispirandone un’azione che entrambi ritengono risolutiva della questione dei fantasmi ma in realtà risolve la crisi matrimoniale di Lojacono. Una volta che è stato introdotto a un segreto familiare, il vicino qui diventa il deus ex machina.
Ne Le voci di dentro, Alberto Saporito accusa di assassinio i suoi vicini, li fa arrestare ma poi si rende conto di avere sognato tutto. Rimane chiuso in casa con il terrore che i Cimmaruta (i vicini) lo aspettino fuori per bastonarlo. Invece, uno per volta, i membri della famiglia si recano gentilmente da Eduardo cercando di estorcergli la confessione di avere veramente assistito al delitto, e ciascuno additando un altro familiare (il padre, la madre, il figlio, la figlia) come il sicuro colpevole. In questo caso lo sguardo del vicino, pur soltanto onirico, ha rivelato alla famiglia il suo livello di disgregazione. Il vicino che supera la barriera dell’indifferenza si eleva al rango di analista dell’intimità.
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