C’è una cosa che accomuna i terroristi della jihad e gli hater, gli odiatori del web, ed è la vigliaccheria. Un tratto psicologico che, peraltro, si è ormai diffuso a macchia d’olio. In un libro della Princenton University di Chris Walsh, Cowardice,
si trova un interessante grafico che rappresenta l’uso della parola codardia (cowardice) nei libri dal 1800 ad oggi.
Dopo un costante declinare della curva sino a una diminuzione dell’80%, vi è stato un improvviso rialzo nel XXI secolo, a partire dall’attentato alle Torri Gemelle. Secondo l’autore, tuttavia, non è che sia aumentata la codardia: si è solo riscoperto il fascino di quest’offesa, che tende a screditare al massimo grado l’avversario e viene così utilizzata in modo indiscriminato. Che i seminatori di morte dell’integralismo fanatico siano o meno vigliacchi ha scatenato un virulento dibattito, specialmente negli Stati Uniti, e parecchi hanno sottolineato come al contrario questi individui vadano incontro coraggiosamente alla morte e abbiano forse quel pizzico di disinteressata fierezza che nel mondo occidentale è andata smarrita. E’ davvero così?
E’ opportuno distinguere tra codardia e vigliaccheria. Della prima l’etimologia è il latino “cauda”, coda, originante dall’animale impaurito che scappa con la coda tra le gambe. L’espressione si è diffusa nel campo militare, per i disertori o per coloro che mostravano pavidità in vista dell’imminente battaglia. Il codardo commette soprattutto un’omissione (non fa qualcosa per paura) che talvolta degrada in vizio morale ma non è quasi mai malevola, al massimo è una lacuna del temperamento. Ed è difficile dire se avesse ragione Don Abbondio nel sostenere che “il coraggio uno non se lo può dare” o se una buona terapia di pensiero positivo possa rimediare a questo deficit.
La vigliaccheria è un campo più variegato. Essa non si genera dalla paura ma dalla frustrazione, dall’invidia, dalla meschinità, dall’assenza di scrupoli, dalla prevalenza assoluta del calcolo utilitaristico sulla pietas e sull’umana solidarietà: è l’esercizio della forza sopra l’inerme o comunque in una condizione di asimmetria. Su questo tipo di determinazione si innesta poi la paura, nella forma della mancata assunzione delle responsabilità del proprio gesto. Il vigliacco si nasconde oppure conta sulla passività del suo bersaglio.
La linea di demarcazione tra il codardo e il vigliacco è sottile, tant’è vero che il codardo, quando percepisce che il vigliacco sta vincendo la sua partita nei confronti di altre persone, non si limita a non intralciarlo ma si associa e diventa vigliacco a sua volta.
Ancora più che la paura quel che in entrambi risalta negativamente è l’assenza di coraggio, che è il compimento di azioni che implicano un concreto rischio di opposizione, accollandosi fino in fondo le conseguenze di questa opposizione.
Per il coraggio, celebrato come dote guerriera, esiste una data precisa del declino: il 10 agosto 1332 a Dupplin Moor 2000 arcieri inglesi, schierati su due fianchi, impedirono l’avanzata dei soldati scozzesi, che erano in numero dieci volte superiore, lasciando sul campo una catasta di cadaveri che si sollevava oltre cinque metri da terra e inauguravano il principio cardine della moderna strategia bellica, colpire da lontano il nemico prima che si approssimi al corpo al corpo (non altrettanto decisive erano state le catapulte per gli assedi, già sperimentate dai greci). In seguito, dalla mitragliatrice al cannone, dal bombardamento aereo al siluro proveniente dal sommergibile (inizialmente assai deplorato come violazione del codice basico di deontologia bellica), l’azione di guerra avrebbe preso a imparentarsi più con la vigliaccheria che con il coraggio: il coraggio sarebbe stato sempre frutto di un accidente o dell’impossibilità tecnica di risolvere la partita in modo più spiccio, raggiungendo il culmine nella carne da macello che si fronteggiava per settimane, mesi, anni nelle trincee. All’inverso, con il trascorrere del conflitti il comando dello stato si sarebbe tenuto sempre più lontano dal campo di battaglia. Le aggressioni, che ancora nella prima guerra mondiale erano rivolte da militari contro militari, nella seconda si sarebbero svolte dapprima nonostante riguardassero anche civili e poi esattamente rivolte contro i civili invece che i militari. Questo carattere si sarebbe accentuato nelle guerre combattute nel mondo dopo il 1945, anche se gli occidentali se ne accorsero con sgomento nella guerra civile balcanica.
Il terrorismo, quale pratica di violenza politica, si è incamminato sulla medesima china. Inizialmente rivolto verso obiettivi specifici che in qualche forma incarnavano l’avversario, ha poi messo in conto che ci potesse scappare la vittima innocente e infine, siccome la vittima innocente suscita lo scalpore mediatico cui ambisce il terrorista, si è diretto verso quella, meglio se moltiplicata nei numeri. Così, nonostante la militanza in sé comporti dei rischi, anche il terrorismo ha divorziato dal coraggio.
Sono coraggiosi i terroristi della jihad? Quelli che cercano la morte per ottenere la grazia divina (che in fondo è pur sempre un tornaconto) sono per lo più scarti sociali o casi clinici. Quelli che li indottrinano abitano lontano, e quando sono veri membri di cellula fanno come il terrorista di Barcellona che scende dal camion che è sbandato e cammina tra la folla, sperando di confondervisi. Nel nostro piccolo degli anni Settanta, in Italia, si ricordano più episodi di resa invocando la prigionia politica che conflitti a fuoco. Oltre ovviamente gli agguati mattutini a gente accuratamente scelta tra chi non poteva né sapeva difendersi.
Quando ci si interroga sull’odio in Rete si trascura il carattere dominante, che è quello della vigliaccheria. Se esistesse la possibilità che al mattino squillasse il campanello e aprendo la porta un individuo si sentisse domandare da tre uomini con le spranghe: “Buongiorno, è lei lupetto33? “ le aggressioni verbali si ridurrebbero del 90 per cento. L’hater,anche se posta il proprio nome – che in linea di massima non dice niente a nessuno – esercita una pratica simile alla vecchia lettera anonima, miracolosamente combinandola con l’esibizionismo. La libertà espressiva che si concede, volta ad arrecare il massimo grado di sofferenza al destinatario (eclatante il caso dei messaggi ricevuti dalla Boldrini), è abitualmente antitetica alla fracchiana remissività nel quotidiano che lo colloca fisicamente davanti ad altre persone: è questo a destinarlo al girone dei vigliacchi più che a quello dei codardi.
Non vorrei offrire l’impressione di considerare la disposizione allo scontro fisico il paradigma del coraggio (ed è ovvio che ci va coraggio a incalzare un pregiudicato con il microfono mentre e vigliaccheria da parte di costui colpire con una testata quello che ha il microfono). Come però non si può negare che, in altri contesti, fare del microfono una lancia pretendendo la risposta, pena lo svergognamento, è una forma di vigliaccheria). Al contrario, il rifiuto della violenza (che però rifiuto dovrebbe essere in modo globale, comprendendo quella morale e verbale) è a volte l’esercizio più virtuoso del coraggio. Come ammise il comandante Zuchov, che dirigeva i plotoni di esecuzione “Bisogna essere un eroe per disertare nell’Armata Rossa”. Le radici dei grandi gesti di eroismo sono sempre nel dire no a qualcuno, benché il dire no non sia di suo, per forza, un atto di coraggio.
Regolarmente i totalitarismi nati all’insegna dei valori eroici inculcano nella società il germe della codardia e attribuiscono ai capi il primato della vigliaccheria. Il regime che rivendicava il furore dell’arditismo era lo stesso che tolse il lavoro agli undici professori universitari che, unici coraggiosi e non codardi, respinsero la richiesta di pronunciare il giuramento di fedeltà al fascismo. Quando il coraggio fisico viene posto in primo piano, quasi sempre è in corso un attentato verso il coraggio morale.
Non è diverso da ciò che accade in contesti mafiosi. Chi segue Gomorra, se non la cronaca, sa che tutti gli omicidi dei camorristi sono esecuzioni alla schiena, o nel migliore dei casi una pistolettata su una faccia sulla quale nemmeno fa in tempo a dipingersi lo stupore. E’ storia vecchia. Un volta, a Napoli, il boss Lucky Luciano incassò una paccariata da un uomo geloso in mezzo alla folla che gli arrossò la guancia e gli fece scivolare il cappello. Lo raccolse da terra senza scomporsi e rassicurò gli astanti che non era accaduto nulla di importante. Due ore dopo erano già in partenza due killer dall’America. La carriera del capo di un’organizzazione criminale è quella di crearsi, anche davanti agli occhi dei seguaci, il diritto a comportarsi da vigliacco.
Gli autori classici non hanno speso troppe parole sulla viltà, preferendo mettere la penna al servizio della celebrazione del coraggio.
In uno splendido e recente romanzo francese sin qui non pubblicato in Italia, L’effroi (Lo spavento), Francoin Garde costruisce la storia di un violinista, Sebastian, che reagisce all’inatteso gesto di un direttore d’orchestra, il quale prima di avviare la direzione di Così fan tutte di Mozart, in modo del tutto imprevedibile tende il braccio in segno di saluto nazista e sibila: “Heil Hitler!”. Nello sconcerto silenzioso della sala, che si accinge comunque a proseguire l’evento musicale, Sebastian si alza, prende lo strumento sotto il braccio, volge le spalle al direttore d’orchestra e si incammina verso l’uscita. Solo a quel punto i colleghi tutti lo imitano e la platea avvia a contestare sonoramente il direttore. Il direttore dell’Opera parigina in principio è indignato con il suo dipendente, che ha pur sempre impedito lo svolgimento del concerto in cartellone. Ma cambia atteggiamento quando, nel volgere di poche ore, Sebastian diviene un eroe nazionale, conteso da tutti i canali televisivi e applaudito in ogni contesto pubblico in cui appare. Ma presto quel coraggio viene presto risucchiato nell’anonimato: per eccesso? Perché in realtà è quanto avrebbero dovuto, all’unisono, fare tutti i presenti, e dopo un po’ la presenza del coraggioso è un imbarazzo per la massa codarda? A un certo punto del romanzo, in effetti, cominciamo a chiederci se, indipendentemente dall’odiosità della posizione politica, non sia stato eroico il direttore d’orchestra che si è avventurato in un gesto certamente condannato all’impopolarità. Ma apprenderemo poi che è un miliardario appagato che cercava la posterità della gloria in un gesto simbolicamente estremo: e alla fine si redimerà ipocritamente in nome della musica, con i teatri che torneranno ad accoglierlo trionfali dopo le tardive scuse pubbliche, mentre Sebastian, minacciato da qualche fanatico e passato di moda per i media, si rifugia in un paesino, oscuro insegnante in un conservatorio.
In effetti, il coraggio nasce sovente da un gesto che anticipa quelli degli altri, e non sapremo mai se quelli si sarebbero mossi lo stesso, se erano intimamente in movimento e hanno silenziosamente consegnato il testimone a chi ha compiuto il gesto coraggioso oppure se, passata l’occasione del guastatore, tutto sarebbe proseguito come prima. Non sapremo mai fino in fondo se Rosa Parks, la donna di colore che per prima rifiutò di cedere il posto in autobus a un bianco, sia stata un frutto o una radice.
Da quando gli atleti neri hanno cominciato a inginocchiarsi durante l’inno nazionale, per testimoniare come i simboli dello stato americano contengano anche la sopraffazione etnica, la bandiera è tornata (come negli anni sessanta) un simbolo eroico quando la si contesta e non solo quando la si onora. Però Colin Kaepernick, l’atleta che ha inaugurato la protesta, è rimasto disoccupato, senza squadra. E nessun collega ha smesso di giocare per la propria fino a che lui non verrà reintegrato nella sua o in un’altra.
Il coraggio per imitazione è di rado una catarsi sufficiente per la codardia che lo precedeva. E’ una buona notizia che le donne dello spettacolo (e ora non solo quelle) abbiano deciso di denunciare finalmente le molestie che hanno subito, e una vergogna aggiuntiva che molte manifestazioni di solidarietà maschile rendano evidente quanta omertà avesse coperto i molestatori, classici vigliacchi cha abusano della loro posizione (è una forma di vigliaccheria frequente e diffusa, che non riguarda solo l’ambito sessuale: anche l’insegnante scolastico che maramaldeggia sull’alunno compie un atto di vigliaccheria). E però rimane una differenza tra chi ha scelto di non cedere e chi ha pensato prima a costruire la sua carriera, e anche una differenza tra parlare subito e dopo venti e trent’anni, non foss’altro perché quella omissione ha consentito che venissero perpetrati altri abusi a danno di altre donne per tutti quegli anni che sono seguiti.
E’ venuto il momento di domandarci se, in generale, la vigliaccheria e la codardia non abbiano preso piede semplicemente perché abbiamo accantonato il coraggio come valore delle nostre interazioni. Insomma, non credo che usiamo più del dovuto la parola vigliaccheria, ma piuttosto che ci limitiamo a usare la parola coraggio in contesti deboli e gratificanti per chi li percorre (il calciatore che vuole tirare il rigore, l’imprenditore che investe nella sua intuizione, il milionario opinionista televisivo o l’opportunista politico che spara opinioni sconvenienti, che poi di solito sono sconvenienti per quelli che le subiscono, non di rado scelti tra gli ultimi della terra) perché il coraggio non paga. Diamo per scontato – ed è quello che massicciamente viene insegnato ai figli – che l’arte di non esporsi sia più vantaggiosa, galleggiamo nell’oceano pieno di detriti conformistici e sgraniamo quotidianamente il rosario di piccole viltà (negarsi, non rispondere, simulare) che costellano le giornate degli umani, rese ancor più agevoli e frequenti dagli strumenti digitali. Si insinua il dubbio che nella stessa selezione evolutiva il coraggio sia d’impiccio; e anche il dubbio che il bullo a scuola (un ragazzo che ha appreso precocemente la vigliaccheria) o il deficiente che quest’estate ha affisso un cartello offensivo verso l’handicappato cui aveva sottratto il parcheggio, siano solo la punta dell’iceberg.
Per scacciare la vigliaccheria dovremo perseverare nel coltivare e pure diffondere intorno a noi quel suo antidoto che è il senso profondo della dignità. Capire e far capire, insomma, che il vigliacco non calpesta veramente la dignità altrui ma essenzialmente la propria.
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