“Ehi bambola!”. Ancor più che in un volgare abbordaggio maschile, questa frase risulterebbe spiacevole nel contesto di un rito voodoo, quelli praticati conficcando spilli, appunto in una bambola, al fine di cagionare male in una persona lontana. Questa fosca cerimonia, presente nell’immaginario comune, però è un’invenzione del cinema hollywoodiano, che a sua volta l’aveva presa in prestito da leggende nate nell’America bianca per screditare la religione di diaspora cui si attaccavano gli schiavi africani. E di religione a tutto tondo, sincretica e con diverse somiglianze con la religione cattolica (al punto che in alcuni paesi africani, come il Benin ci sono persone che aderiscono a entrambi i culti), specialmente per il ruolo degli spiriti protettori, non troppo dissimile da quello per i santi. Vari dittatori, questo sì, hanno sfruttato e deformato il voodoo per turpi scopi (in Nigeria per costringere alla prostituzione e schiavitù sessuale). Nel continente americano, la sua maggiore presenza si registra nell’isola haitiana, e la ragione per cui ne parlo qui è la straordinaria ispirazione musicale che ha originato da molti decenni.
Nelle uscite di questi primi mesi del 2023 due dischi haitiani starebbero comodamente in una classifica delle dieci migliori di world music. Il legame con il vodou (nome haitiano della religione voodoo) non è affatto virtuale ma del tutto incarnato nei due artisti in questione, Erol Josué e Moonlight Benjamin, al punto che entrambi ne sono sacerdoti. Enol Josué è un personaggio interessantissimo, per il quale la diffusione della cultura vodou costituisce lo scopo di vita. Direttore dell’istituto etnografico della capitale Port-Au-Prince venne istituito sacerdote da giovanissimo, a vent’anni decise di svolgere la sua missione all’estero, poi l’emergenza del terremoto lo persuase che era meglio stare in patria vicino alla sua gente. Nel suo Pelerinaj (Pellegrinaggio), un album che esce a 15 anni dal precedente, canta sovente nel linguaggio liturgico del langaj, i testi oscillano tra lo spiritualismo e i riferimenti al degrado dell’attualità nel suo paese. La musica, fedele alle danze tradizionali, ha una forte impronta blues e una percussione afro. La linea ritmica subentra su una linea melodica che rimane spesso immutata, resa magnifica tuttavia dalle acrobazie vocali e variazioni d’ottava di Josué e da improvvisi e non prevedibili colori strumentali o corali. Si riconosce l’impianto cerimoniale dei canti sacri, ad esempio in Badij, traccia d’apertura che raggiunge vertici struggenti, anche se il brano più ricco è l’intimo Kwi A, dove la voce del cantante rimbalza tra la nota malinconica di un violoncello, una percussione frenetica, l’eco del coro e l’ostinato degli archi (il pezzo immediatamente successivo, Sigbo Lisa è però una chiave d’accesso più immediata alla magia della musica di Josué). Le sorprese comunque non mancano: Gede Nibo è un quai-parlato su un trio con sassofono squisitamente jazz.
Anche Moonlight Benjamin- già nota al pubblico italiano che da anni ha avuto varie occasioni di ascoltarla in concerto- ha una biografia di partenza e ritorno. Cresciuta in un orfanatrofio cattolico per la morte della madre durante il parto, è andata a studiare musica in Francia e a diciannove anni è rientrata (sia pure non per risiedere stabilmente) nell’isola natia per essere a sua volta istituita sacerdotessa (a dimostrazione della stretta relazione tra la musica e la religione, un fenomeno piuttosto frequente nelle grandi cantanti locali). Benjaimin canta in francese e creolo con una voce ruvida, vagamente alla Nina Simone, e un repertorio che, pur avendo assimilato ritmi afro-caraibici, attinge con le chitarre elettriche ed acustiche a molte sorgenti, blues ma soprattutto rock, e nei brani si avverte una discreta ascendenza maliana. Il suo Wayo suona molto vario, ma per farsene conquistare al primo colpo suggerirei la splendida Freedom Fire, che, salvo la qualità ritmica, fonde insieme tutte le particolarità dell’album.
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