Non c’è articolo sul web3, in queste settimane, che non cominci dicendo: in queste settimane si parla molto del web3. Quando accade che un tema concentri improvvisamente l’attenzione le possibilità sono tre:
- È realmente accaduto qualcosa di nuovo.
- È in corso un’operazione mediatica nel senso che i media hanno “costruito” il tema rispondendo alle aspettative dei lettori.
- È in corso un’operazione mediatica eterodiretta, cioè l’attenzione è finanziata direttamente o indirettamente da marketer.
Prima di capire in quale delle tre ipotesi navighiamo, ricordo per sommi capi in cosa consista il web 3. E, procedendo per cronologia storica: il web1 è l’Internet originaria, quella in cui diventa più facile trovare informazioni; il web2 è la rete attuale, quella in cui è più facile farle circolare in uno schema di interazione a più livelli. Il web1 rientra ancora nell’utopia dell’etica originaria: gratuito, libero e democratico. Il web2 è il fallimento di quell’utopia: controllo e monetizzazione dei dati privati sopra piattaforme detenute da corporation multinazionali e mosse dal solo movente del profitto o in alternativa strumento di vigilanza e repressione da parte di governi dittatoriali.
Il web3 dovrebbe consistere nel ritorno allo spirito che ha fatto nascere il web1. Il suo marchio di identificazione è la sottrazione dei dati privati dalle piattaforme big tech per distribuirli invece lungo i canali della blockchain e per questa via controllarli e riprenderli o spostarli quando si preferisce. La sua parola d’accesso è: decentramento. Non ci si connetterà più a server centrali ma a registri distribuiti della rete, con accesso a tutte le informazioni, e secondo meccanismi di intercomunicabilità.
Tornando alla triplice alternativa, possiamo serenamente escludere che ci fosse un’ansiosa richiesta pubblica di informazione (infatti l’apertura in questi giorni si parla molto di web3 dovrebbe essere sfumata tipo in questi giorni si comincia a parlare un po’ di web3). Dopo dieci anni dalla sua realizzazione, la blockchain non ha minimamente conquistato il consumatore tipo. C’è stato allora un fatto di cronaca che l’ha spinto? Beh, uno ci sarebbe stato. Una DAO (un’organizzazione autonoma decentralizzata), nata dalla sera alla mattina, ha messo insieme nel giro di una settimana, mediante crowdfunding, 43 milioni di dollari in criptomonete per concorrere a un’asta nella quale era posta in vendita uno delle ultime stampe originali della Costituzione americana, per metterlo simbolicamente a disposizione pubblica. Non è andata bene, perché un hedge fund (sospetto di volere avversare la DAO e la sua trovata promozionale) ha offerto qualcosa in più. Si tratta di una curiosità più che di una notizia, ed è in realtà un segno di come la risposta corretta dell’alternativa sia la terza. Intorno al web3 c’è un certo fermento tecnico ma rimane questione per pochi iniziati. E così chi è interessato a farlo decollare sta pensando che occorra un salto di qualità nel marketing. In effetti, come ha detto un imprenditore del ramo, rinominare i bitcoin all’interno del web3 è stata una sensazionale operazione di marketing.
Tutte le persone sane di mente auspicano un radicale mutamento dell’attuale modello socio-economico-tecnologico. Riguardo al modo in cui si sta presentando il web3, tuttavia, si riscontrano subito alcuni profili non troppo attraenti.
Il primo è che il centro dei discorsi sul web3 riguardano come funziona. Non funziona affatto in modo semplice, cioè il novanta per cento delle persone anche quando glielo hanno spiegato, se va bene (ma proprio bene) capisce solo gli elementi di superficie. All’attuale stadio antiquato dell’uomo, minaccia di rendere l’uomo ancora più alienato. C’è una differenza tra non sapere come funziona un’automobile e guidarla lo stesso (che fu già una notevole forma di alienazione) e non sapere nemmeno come funzionano le strade. Ma quando dico che parlare prevalentemente di come funziona (con i token, gli NTF, la blockchain, gli smart contract) è un problema, intendo che si parla assai meno di quello a cui serve. Sì, certo, proteggere meglio i propri dati (se è vero: per il momento la storia dei token include una discreta serie di violazioni). Ma il web 1 aveva un programma forte di utilità (troviamo tutte le informazioni che ci servono) e tutto sommato anche il web2 (facciamo leggere quello che scrivo a chi voglio io). Il programma forte del web3 non è ancora tanto chiaro. E per questa ragione sembra accentuare quella che è già diventata una caratteristica del web2: occupiamoci di quel che tecnicamente si può fare, perché per il solo fatto che è possibile farlo le persone lo faranno, e poi eventualmente (eventualmente) si rifletterà se valeva la pena di farlo. Il web3 potrebbe peggiorare il flusso incosciente delle azioni indotte dalla tecnologia, simile a una situazione alienata nella quale non sapessimo esattamente perché ci troviamo su una strada con la nostra vettura.
Il secondo problema è che mentre sia il web1 che il web2 si sono focalizzati sull’idea della gratuità (ovviamente il web2 in modo sempre più posticcio: sì, non si paga un denaro ma c’è il prezzo dei tuoi dati, se non paghi non sei il cliente ma il prodotto ecc…), nel web3, invece, emerge nettamente il profilo del guadagno. In questo senso non è certo il distacco da un modello capitalistico. E il miraggio che fa intravedere non è tanto il guadagno generalizzato ma un guadagno sproporzionato (illude sulla generalizzazione del guadagno sproporzionato). Non a caso, i suoi paradigmi attuali sono le speculazioni sulle criptomonete e il mercato dell’arte: in teoria, che un artista possa vedere rimunerato il suo lavoro non è una cattiva cosa, anzi. Anil Dash, inventore insieme all’artista Kevin McCoy, del primo NFT (token non fungibile) creato proprio per tutela e remunerare il valore degli artisti e dunque impedirne lo sfruttamento lamenta su The Atlantic come “niente sia andato come doveva”, “oggi si paghino prezzi da capogiro per opere che pochi mesi fa sarebbero state semplici curiosità”, “quando qualcuno acquista un NFT non sta acquistando l’effettiva opera d’arte digitale: sta comprando un link ad essa…che in molti casi risiede sul sito web di una nuova start-up che rischia di fallire nel giro di pochi anni. Tra decenni come si potrà verificare se l’opera d’arte è collegata all’originale?” e “in questo momento gli NFT sono costruiti su un castello di carte assoluto costruito dalle persone che li vendono”. Un sistema esageratamente autoreferenziale finisce solo per correre dietro alle truffe al fine di gonfiare i prezzi di ciò che si vuol vendere: un recente eclatante caso, rivelato da Bloomberg, è la vendita di un “coso” digitale (un raro NTF di Cryptopunks…ah!) in criptomonete per l’equivalente di 532 milioni di dollari, che in realtà attraverso un giochino ingegneristico-finanziario vedeva la stessa persona nei panni di venditore e acquirente.
Il terzo problema è che dietro la maschera retorico-populista (che fa leva, come nella maschera retorico- populista nella politica, sulla redistribuzione del potere in chiave peer-to-peer) c’è un massiccio investimento dei venture capitalistics (27 miliardi di dollari nell’ultimo anno). Ancora una volta le regole di uno spazio pubblico saranno dettate nell’ottica di un obiettivo speculativo.
Nel manifesto Keep the web free, say no to web3 (lanciato dal programmatore-opinionista Stephen Diehl) è contenuta una delle più interessanti obiezioni filosofiche al web3: è ideologicamente regressivo perché, in dispetto dell’abbondanza illimitata offerta dalla rete, crea scarsità artificiale, con le stesse regole dei giochi da tavolo (è la procedura tecnica delle criptomonete, e in generale della blockchain e dei token). Se la spostiamo sul piano di una più immediata evidenza materiale, l’allargamento del web3 pone insostenibili problemi energetici, poiché Il consumo dei suoi algoritmi è incompatibile con ogni forma di sostenibilità. Nel web3, inoltre, vedo un ritorno non al web1 ma al pre-web1: quando cioè si pensava che il cuore della realtà virtuale non consistesse nell’organizzare la realtà in un modo più creativo ed efficiente bensì nel trasferire la coscienza in un mondo parallelo e fittizio, lasciando alla vita reale l’inane fatica di seguirla.
Il web3 si prospetta quale ulteriore modello di predazione anarco-libertario-capitalistico (solo: una fazione diversa), destinato tecnicamente a una nuova centralizzazione e che nulla a che vedere con la formazione di una comunità democratica e più giusta. Per questo è meglio orientare gli sforzi dei riformatori su un web 3bis. O per non sbagliarsi, e mettere più distanza con i predecessori, direttamente su un web 6 o 7.
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