Non è certo una novità che i giornali dedichino ampio e dettagliato spazio alla cronaca nera. Nel 1551 si poteva leggere su un foglio del Wuttenberg, completa di ogni dettaglio morboso, la terribile storia di una donna che aveva assassinato i propri quattro figli e poi si era suicidata. Qualche secolo prima della nascita dei plastici di Bruno Vespa, un giornale di Zurigo raccontava il crimine di un uomo che aveva ucciso una bambina di 10 anni e ne aveva smembrato il corpo, mediante dettagliate illustrazioni xilografiche, che partivano dalle membra sparse sul pavimento e si concludevano con l’esecuzione capitale. Da queste sue origini, la cronaca nera si è stabilmente insediata nelle tradizioni giornalistiche, sia pure con un’estensione non omogenea tra un paese e l’altro.
Esiste tuttavia una differenza fra la cronaca nera tradizionale e quella dei giorni nostri: la prima si concentrava sulla ricerca del mostruoso, su ciò che di abnorme e innaturale contenevano il delitto e il criminale. La cronaca nera di oggi, all’inverso, mette al centro la normalità che si rivela nel crimine. Ogni crimine, pare, poteva essere previsto, e costituisce l’anello finale di una coerente e deforme catena sociale che ha affilato il coltello o caricato l’arma da fuoco. L’esempio più evidente in Italia è quello dei reati commessi da immigrati. Ciascuno dimostrerebbe la quantità di pericoli che il loro sbarco ha portato nelle nostre strade. Nel caso orribile di Colleferro invece si abbina la fede fascista alla propensione al crimine di sangue. Saviano ribatte che bisogna andare più a fondo e riconoscere la bancarotta morale indotta dal degrado delle periferie, per nulla interessato al fatto che Colleferro sia un paese operoso e piuttosto normale, e comunque non una periferia degradata. Ma per costruire un teorema che leghi i grandi crimini a una falla sociale la fantasia non si pone limiti. Il direttore della Stampa deduce dal delitto di Colleferro che vadano vietate le arti marziali (alcune almeno), benché non risulti che siano stati commessi altri delitti da praticanti di arti marziali e benché il significato dell’arte marziale sia nel controllo della violenza e non nel suo impiego. Ma un gesto criminale non può più essere spiegato da una psicologia individuale e un ristretto corto circuito relazionale. È necessario che il criminale diventi non un rappresentato (dal resoconto giornalistico) ma un rappresentante (di una tendenza, di un male sociale, di un gruppo pervertito).
Questo passaggio dall’osservazione del particolare (che comunque viene rinforzata) alla ricerca dell’universale potrebbe essere una buona cosa sul piano culturale, se non fosse però che essa risponde a un disegno strategico di consenso da parte dei media e della classe politica. I media e la classe politica assumono i fatti di cronaca come se si trattasse di inserirli dentro un modello precompilato. Il fatto di sangue deve essere piegato a una lettura che conferma non tanto la linea del giornale quanto le aspettative dei suoi lettori, che il giornale vuole compiacere.
Per quanto piuttosto generalizzata, la tendenza raggiunge in Italia dei picchi poco frequenti altrove: sulle prime pagine dei nostri quotidiani la cronaca nera spesso supera il 50%, e il dato aumenta notevolmente se si consulta il sito web di un quotidiano; il divario con paesi come la Francia o la Germania è abissale. Non si può certo dire che dipenda dall’intensità criminale. Il nostro paese è al ventunesimo posto in Europa nella graduatoria, guidata dalla Finlandia, dei reati, e molto in basso per numero di omicidi: 0,89 per 100.000 abitanti, contro i 6,03 della Lituania e anche l’1,20 della Francia e l’1,10 della Gran Bretagna. Gli omicidi annuali in Italia in vent’anni sono calati da 1.400 a 350.
È nel suo insieme il mondo che è diventato un posto fisicamente più sicuro. La metà degli omicidi vengono commessi in solo 23 paesi, dove risiede il dieci per cento dell’umanità. Ma persino nella tristemente nota città messicana di Juarez in tre anni si sono ridotti del 90 per cento, in due decenni sono diminuiti di quattro quinti a Bogotà e Medellin e di due terzi nelle favelas di Rio de Janeiro.
I morti di adesso non traggono grande consolazione dal far parte di un gruppo che storicamente esprime comparativamente una minoranza, ma le cifre evidenziano una chiara sproporzione tra la realtà dei fenomeni e la loro percezione. Ovviamente quel che regola la vita delle persone non è tanto la realtà quanto la percezione che ne hanno. E tuttavia media e classe politica lavorano per esasperare le percezioni negative, poiché costituiscono la loro rendita. È giusto segnalare l’influenza dannosa che i social determinano nell’amplificazione di queste percezioni: ma sarebbe interessante contare quante volte le alimentino limitandosi a far circolare i link di giornali a diffusione nazionale.
Il lettore che aspira a sottrarsi alla manipolazione dovrebbe analizzare ogni collegamento tra un delitto e la più vasta attribuzione sociale della responsabilità ponendosi alcune domande: funzionano veramente i passaggi di questa correlazione? Il media o il soggetto politico che propone questa chiave di lettura, l’ha già utilizzata in situazioni che rispetto a questa presentano rilevanti differenze? Dal punto di vista causale, questa spiegazione è sufficiente? Esiste un altro aspetto per spiegare questa vicenda sul quale bisognerebbe focalizzarsi e che non è stato incluso nel discorso? Questa spiegazione si fonda su un dato statistico? (il lettore ideale, poi, dovrebbe praticare la verifica delle fonti di cui ho parlato in quest’articolo). Ovviamente dico lettore, ma è da intendere come sinonimo di ascoltatore o spettatore). E soprattutto essere consapevole che coloro che lo informano o indottrinano sono in conflitto d’interesse rispetto al suo rasserenamento: come ho detto sopra, hanno la necessità di formare e accentuare quella percezione negativa che si insinua in lui attraverso la crescente instabilità della sua personale esistenza (che è cosa profondamente diversa dall’insicurezza) e di spingerlo a incanalare questa fragilità in uno sfogo mirato verso certe categorie di persone o eventi pubblici.
Quel che di retroterra disvelano i delitti di cronaca di rado riguarda i protagonisti principali. Al tempo dell’omicidio di Novi i giornali si accanirono a cercare schemi dentro i quali inquadrare la condotta dell’assassina Erika, che trucidò la madre e il fratellino. Ma a quale paradigma poteva mai ispirarsi un orrore simile? Più interessante sarebbe stato ragionare sulla psicologia del suo complice, il fidanzatino Omar, che quella sera in cui partecipò all’efferatezza si sarebbe invece orientato per un panino al pub senza problemi, se Erika glielo avesse proposto. In lui emergeva, declinato al suo estremo, un tratto di apatia generazionale. I fratelli Bianchi, se hanno ammazzato Willy nel modo barbaro che affiora delle ricostruzioni, sono troppo al di sopra delle categorie, ma invece i loro genitori, che nel primo commento ridimensionano l’episodio perché la vittima era solo un immigrato, sono invece un tipo sociale. E un tipo sociale è quella parte di pubblico che cade nella trappola del bias di disponibilità, cioè la tendenza a sopravvalutare l’importanza causale o statistica eccessiva di quel che ricorda. E, siccome è ferocemente incatenata al presente, ricorda solo quanto è appena accaduto.
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