“Scritto, diretto e interpretato da…”. Charlie Chaplin è stato il più grande tra i grandi che hanno potuto permettersi questa schermata in apertura del film. Ma l’Oscar non lo ha vinto in nessuno di questi ruoli: lo ha vinto invece, come compositore, nel 1972, per la colonna sonora di Limelight (peraltro uscito vent’anni prima ma rimasto lungamente oscurato negli Stati Uniti per via del maccartismo). Infatti, e questo è un caso assolutamente unico, egli poteva aggiungere a questa già invidiabile centralizzazione di ruoli “musiche di Charlie Chaplin”.
Chaplin era figlio di due cantanti e imparò a suonare ad orecchio sia il violino che il pianoforte. A partire da Luci della città musicò personalmente le scene, intonando la melodia con la bocca chiusa mentre si accompagnava piano e un giovane David Raksin– che stava lì perché raccomandato da Gershwin- trascriveva le note sulla partitura, dato che Chaplin non sapeva leggere la musica. Per abbinare il sonoro alle immagini aveva in testa un concetto molto netto: la musica doveva fungere da “contrappunto”. Non inseguire la comicità della scena ma sovrapporle uno strato sentimentale.
Una mostra parigina alla Cité de la Musique, che si conclude questo week-end, offre l’occasione di meditare in modo organico sull’importanza che la musica rivestiva nei suoi film, specie sotto due profili.
Il primo, checché…ne dicesse Chaplin, è l’innesco della comicità mediante una compenetrazione della musica dentro i movimenti del corpo. Prestando attenzione a questo aspetto, molte sue scene memorabili si possono osservare come se fossero autentici balletti.
Il secondo è la profonda strutturazione del discorso narrativo attraverso la musica. Quando Chaplin usa la musica altrui c’è sempre una ragione: in Luci della città, il miliardario dalla sbronza facile si desta con Charlot che dorme al fianco, e parte il tema delle Mille e una notte di Rimsky-Korsakov…(qui il contrappunto è ironico).
Tutti poi ricorderanno che mentre Chaplin si trastulla con il gigantesco mappamondo nel Il grande dittatore i suoi lenti funambolismi vengono scolpiti dal Lohengrin di Wagner, la musica preferita dai nazisti. E però Chaplin era troppo amante della musica per condannare senza appello Wagner. Opera così una scelta commovente (del resto il Lohengrin è commovente): le fa chiudere il film sulla scena in cui le persone guardano speranzose verso il cielo. Anche il Lohengrin viene purificato e recuperato.
La musica non di rado avverte di quel che sta per succedere, oppure etichetta l’azione dentro una categoria, emotiva oltre che tematica. In Tempi moderni una ballata popolare americana descrive la scena in cui Chaplin si trova fortuitamente alla testa del corteo degli scioperanti con una bandiera. L’ha in realtà raccolta, caduta a terra da un camion, e la agita camminando velocemente sperando di farsi notare d chi l’ha smarrita. Ma la polizia interpreta il gesto come segno inequivocabile che egli è a capo della protesta e lo sbatte in prigione. Lo stesso accompagnamento musicale ritornerà tuttavia due volte, una per commentare una situazione come altrettanto pericolosa e un’altra per anticipare che su Charlot stava per piombare un nuovo arresto. Anche la musica, quindi, segue un filo di citazioni interne, come gli elementi dell’azione.
La sua attività di compositore con gli anni addirittura si incrementò: non soltanto scrisse le musiche dei film sonori ma si occupò di comporne ex novo tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta per i suoi vecchi film, Il circo e Il monello. Indubbiamente i suoi capolavori rimasero la colonna sonora premiata con l’Oscar e la struggente “Smile”, che chiudeva il film “Tempi moderni”.
A renderla famosa fu soprattutto l’incisione di Nat King Cole, ma le cover- alcune con sopra dei testi- furono molteplici: ad esempio Dean Martin, Elvis Costello, Eric Clapton, Michael Jackson, Madeleine Peroux, i Pearl Jam, Sun Ra, Stevie Wonder e Celine Dion.
Tante sono belle, per carità…
Ma cosa può eguagliare l’emozione di ascoltare l’originale rivedendo la scena del film che le era abbinata?
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