Non tutto è idilliaco sopra il lago Titicaca, in Bolivia.
Sembrano persone, i boliviani, estremamente pacifiche: eppure non sfuggono alla tradizione della violenza politica che affligge l’America latina. Hanno alle spalle il loro bagaglio di sanguinose guerre di confine, e il carico di frustrazioni che ne è conseguito, visto che sono riusciti a perderle tutte. In questi giorni le loro strade sono agitate da contestazioni di crescente turbolenza, legate all’ennesimo broglio elettorale nella storia del continente. L’uomo che ha truccato le carte è il presidente uscente Evo Morales, la cui maggioranza si è impennata negli ultimi conteggi delle schede. Se la vediamo dal punto di vista procedurale, Morales è l’ennesimo demagogo autoritario e corrotto che cerca di forzare la costituzione e il mandato popolare. E tuttavia, se la mettiamo sostanzialisticamente, dobbiamo pur riconoscere che egli, primo indigeno asceso ai vertici dello stato, ha finalmente avanzato il regime di eguaglianza etnica del paese provando a garantire alle diverse etnie autoctone significative conquiste sanitarie, culturali e sindacali: ciò che lo rende sinceramente e meritatamente amato da quella parte della popolazione. Per capire come stavano sul piano la dignità le cose prima di Morales (eletto per la prima volta nel 2005) basti ricordare che era alle donne quechua e aymarà che vestono sempre con i loro abiti tradizionali (le cosiddette cholitas: un appellativo sprezzante sin dai tempi della colonizzazione spagnola, riabilitato negli ultimi anni), tale abbigliamento era vietato nei luoghi pubblici. Adesso, i funzionari hanno persino l’obbligo di imparare le lingue di almeno tre minoranze (in tutto le etnie sono almeno 36), oltre al castigliano.
Uno dei tanti luoghi dove Morales è popolarissimo è l’Isla del Sol, la perla boliviana del Titicaca, il lago più alto del mondo, 3800 metri, condiviso con il Perù, abitato esclusivamente da nativi. Il viaggiatore che ha la fortuna di contemplare il paesaggio dalla sommità si trova immerso in un paesaggio stranamente familiare: una macchia mediterranea con cespugli aromatici, felci, eucalipti, bacche simili al mirto. Sulle pendenze delle mulattiere si arrampicano le cholitas, con le loro gonne a più strati, la bombetta nera, le lunghe trecce nere legate al fondo da due fili colorati (simili a quelli che adornano le orecchie dei lama) e che di solito disfano alla sera distanti da occhi che non siano quelli del marito. Ai piedi calzano ballerine scure indifferenti agli spigoli dell’acciottolato che quasi scheggia le piante dei turisti sotto la protezione gommosa degli scarponcini. Hanno dietro la schiena uno scialle arcobaleno dentro il quale trasportano i bambini e guidano la fila dei muli sopra i quali hanno abilmente legato le valigie dei turisti. Si occupano di gran parte dei lavori più duri (e anche di cucinare la sopraffina trota del Titicaca, rinominata con discutibili accorgimenti di piccolo marketing nei modi più assurdi, compreso alla “napoletana”), ma anche delle tessiture della lana di alpaca che sfociano nei meravigliosi maglioni; mentre i mariti quando non sono impegnati in lavori stagionali nel resto del paese sono eternamente risucchiati in lavori di costruzione, muratura e sopraelevazione, che un giorno renderanno questi luoghi meno selvaggi di adesso, e che ne frattempo si traducono in una corsa a sequestrare la visuale panoramica dell’albergatore concorrente e farla propria.
Quest’ultimo tipo di competizione è assimilato con grande sportività. I problemi nascono altrove. L’isola, per quanto totalmente omogenea e anzi interamente parentale, è divisa in tre piccoli centri, Challapampa al nord, Challa al centro e Yumani al sud. Tre insediamenti creati dalla frattura della montagna più che da una scelta: il passaggio dall’uno all’altro implica un erto attraversamento pedonale oppure un approdo in barca. La maggior parte dei resti inca sono a Yumani, ma ne esistono anche a Challampampa. Quelli scoperti di recente sono più interni, appena prima del confine di Challa, i cui abitanti però si sono stufati di fungere da transito per i visitatori, reclamando la compartecipazione comunitaria delle risorse provenienti dallo stato e dei proventi incassati direttamente. Quattro anni fa la polemica ha cominciato a degenerare, e i nativi di Challa hanno cominciato a presidiare le strade che conducono al nord e sbarrato l’accesso ai turisti; in seguito anche via mare, lanciando pietre agli invasori. Incredibilmente Morales continua ad astenersi nella contesa auspicando un accordo fra i capi delle rispettive comunità.
Altro che intesa! Le fazioni si sono affrontate con bastoni e sassate. Le notizie non hanno modo di filtrare, e quelle meno recenti riferiscono di diversi feriti e sette morti, ma la sensazione è che le violenze riemergano sporadicamente, interrompendo una situazione di stallo che immiserisce entrambi i gruppi (mentre Yumani risplende, e il turista può anche ripartire ignorando la furia che ribolle sotto la quiete apparente: per quanto tempo gli altri accetteranno che Yumani possa concedersi il lusso della neutralità?).
Ma non è nemmeno esatto parlare di gruppi, visti gli interscambi quotidiani sussistenti fino al 2015 fra le 800 famiglie tutte di lingua aymarà e le strette parentele. Ci troviamo semplicemente di fronte a una microcomunità spaccata e autolesionista che mette in crisi l’idea della “piccola comunità etnicamente coesa” come modello ideale di convivenza, specialmente in un ambiente economicamente non evoluto oltre il livello dello scambio commerciale basico e socialmente non frammentato dalla colonizzazione. Una volta di più dobbiamo constatare che basta un po’ di denaro per corrompere pure la più antica delle solidarietà.
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