“Oh, finalmente un po’ di silenzio!”. Credo che nessuno guardando le strade rese mute dall’equivalente del coprifuoco sia sbottato in questo modo, neppure il più accanito critico del rumore quale forma di ammorbamento della quiete.
Questo dimostra che il silenzio non è mai una cosa buona in assoluto, e neppure una cattiva: quel che deve premerci è solo il buon silenzio; scoprire in che cosa consista è un apprendimento lungo e per lo più personale. In ogni caso mai può rientrarvi il silenzio che sia introdotto dalla tragedia o dalla paura. Né il silenzio che si contrappone alla libertà di violarlo.
Quando una città tace negli orari che di solito la animano, ci rendiamo conto che il silenzio la rende innaturale, allo stesso modo in cui la rigidità mortuaria rende irreale un corpo (ovviamente è diverso quando il silenzio è la sosta della notte o del giorno festivo, che equivale al riposo notturno del corpo, e alla sua bellezza). Chi vive dentro la cintura urbana non si trova come se improvvisamente fosse immerso nella natura, perché il silenzio incornicia bene un ruscello o il fianco di una montagna ma provoca orticaria contemplando l’asfalto, una fila verticale di abitazioni, una strada di commerci. E soprattutto il silenzio della natura non è mai veramente silenzioso: è piuttosto una selezione di suoni, di solito centellinati, che creano effetti armonici e ritmici nei quali cerchiamo di ricostruire le trame di senso che abbiamo perduto. Ma nella vastità muta delle città di questi giorni il senso è un animale selvatico e fuggiasco, dopo anni di faticosa (spesso mal riuscita) domesticazione, e che adesso trova ostruite tutte le tane in cui cerca riparo.
In prossimità di un balcone della mia casa c’è una piccola, tranquilla pizzeria che svolge funzioni di pendolo, perché la sua serranda si abbassa ineluttabilmente alle ventitre e quaranta. Mi capita di pensare a quei rumori assenti, che quando non trovano un significato simbolico (come la cadenza dell’ora) sono obiettivamente molesti, dalla serranda che cala al peggiore di tutti (salvo la turbolenza dei cantieri), lo scorrere del trolley sul lastricato. Mi domando se non faremo un giorno come il protagonista di un racconto di Dino Buzzati, che mentre registrava le meravigliose note di Purcell dalla radio si incupiva per le dispettose schegge sonore che la sua donna disseminava sulla musica: risatine, colpi di tosse, tacchi marcianti. Ma viene il giorno in cui il suo orecchio, incollato al mangianastri, cerca di estrarre la vera musica che rimpiange: i segni acustici della presenza di quella donna che ora non gli è più accanto.
Filtrano nello spazio sgombrato dalla vita esterna le voci del vicinato, ma neppure tanto; come se in quel tempo inatteso, del quale molti hanno approfittato per rimettere ordine, fossero state riposte nella credenza anche le escrescenze sonore del proprio esistere. Alle cinque di mattina, da quando un paio d’anni fa vi si sono installati dei quietissimi vicini, sento provenire dall’appartamento superiore il pesante passo sul parquet del piede scalzo scosso da un’incombenza dimenticata, unica increspatura nella risacca silente del sonno di quartiere: va avanti e indietro per un minuto, e poi tutto si acqueta, evidentemente nessuno deve recarsi al lavoro all’albeggiare. Siccome con la famiglia vive un gatto, col tempo ho immaginato che uno dei padroni scattasse per soddisfare le esigenze alimentari da pensionato del micio. Un mattino che faticavo appena di più a riaddormentarmi, ho messo insieme una fantasia della quale mi sono ormai persuaso, del tutto coerente con l’indole un pochino gradassa di quel gatto, che per mesi aveva pisciato sulla nostra edera, segnalando così l’avvicendamento nel territorio. Non è il padrone, è il gatto! Il gatto che infila di soppiatto i piedi del padrone mentre quello è disteso ignaro e percuote il pavimento con una marcia da militare. Sessanta secondi dura la bravata; poi li rimette al loro posto e torna a infilarsi nella cesta. La sua tenacia nel rinnovare il rito, anche durante l’epidemia, è il più saldo legame uditivo con i giorni che precedevano il virus, quasi un pietoso rimbocco di coperta.
In certe occasioni nelle quali si vuol portare conforto o esprimere simpatia a una persona fisicamente prossima, il parlare è nemico del toccare. Un gesto di calore, la vicinanza trasmessa da una mano poggiata sulla spalla, quando sono incursioni in un’intimità che non veniva data per scontata, si giovano della sottile elettricità con cui il silenzio le veicola. Quello di questi giorni è invece un silenzio che aborre sempre il toccare: la distanza di sicurezza dalla persona passa persino per le impronte che ha lasciato il suo passaggio, cancellate dal disinfettante.
Aumenta il numero di persone che circolano imbavagliate dalla mascherina: mai l’effige di un morbo – e della protezione contro di esso – si era tanto identificata con un simbolo del silenzio. Le immagini della rete sono piene di camici bianchi e di protezioni bianche, non risuonano, cadono come neve sui nostri schermi. La malattia colpisce i polmoni, e dunque per prima cosa zittisce, rigetta in gola quel che non è ansimare.
Quando scendevano le bombe dal cielo i nostri nonni o genitori si ammucchiavano nei rifugi, che li separavano dal pericolo ma non dal boato. Stare insieme per ordine pubblico però era diventata una specie di festa. Mio padre e mia madre, in quei sotterranei, si avvicinarono al fidanzamento, benché il pudore impedisse loro di celebrare l’incontro come altri amanti con le scritte sui muri, ancora oggi leggibili lungo la passeggiata turistica dentro le grotte di Napoli. L’ordine pubblico del coronavirus precetta in senso opposto, confinando nelle case, anche chi è costretto a ruotare stancamente la manopola della propria solitudine. Allora come oggi c’è l’attesa che finisca l’incubo. Ma questa volta il sospetto è che la fine non sarà improvvisa e catartica, e non ci sarà da fare chiassosa fiumana per le strade tracciando, in un giorno e orario che spezza la maledizione, la linea precisa del prima e del dopo.
Sopravvive sugli schermi il caos delle voci pubbliche. All’inizio della crisi l’allenatore tedesco del Liverpool, Jurgen Klopp, rispose stizzito a una domanda sul tema durante una conferenza stampa: “Non tollero che su un argomento così serio si chieda a me. Sono solo uno con un cappellino e la barba tagliata male, preoccupato come voi”. La sua indicazione è stata presa sin troppo alla lettera, e il mondo ha scoperto che esiste una quantità industriale di virologi, e nessuno di loro che di fronte a un microfono sia capace di replicare: “Ma con tanti colleghi, viene proprio da me? Mi scusi, torno a lavorare”, e nemmeno che davanti a un computer riesca a trattenersi dalla fregola di twittare.
Dopo le cinque del pomeriggio il silenzio si fa più sordo, una vibrazione dal sottosuolo. Le piazze lo rendono rimbalzante dentro la loro circolarità. A un certo punto si levano i concertini dal balcone, che però passano il repertorio di un juke-box col tricolore. Altre volte gli applausi, senza precisamente un destinatario, come nelle campagne a scacciare i piccioni. Gli edifici dove ci si incontrava sono in buona parte chiusi, e sarà un lavoro duro scrostare il silenzio che si sta accumulando sulle pareti. Nelle stanze di casa i più fortunati distinguono il canto degli uccelli, o tirano fuori il servizio buono delle parole di vicinanza più profonde. Collegarsi in video grazie alla Rete aiuta a colmare la lontananza; ma stiamo guardinghi, perché è un attimo che quello diventi il modo normale di recintare gli altri, pure i più prossimi. I veri cantieri, nei giorni che arrivano, saremo noi stessi.
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