Venti anni fa, esattamente in questo giorno, moriva mio padre. Ha offerto mille scintille per i miei fuochi. Cominciare questo spazio web proprio oggi è un modo per celebrarlo ancora. 7 novembre 2016.
Vittorio Bassetti, mio padre, arrivò tardi, più che ventenne, alla scherma.
A diciassette anni aveva saltato 1.75 in alto, miglior prestazione stagionale di uno juniores.Aveva praticato la corsa a ostacoli, il canottaggio, giocato a tennis nella napoletana Villa Comunale(era nato a Roma nel 1925, ma a sette anni trasferitosi all’ombra del Vesuvio) con il campione d’Italia Sirola.Nella scherma, allora assai statica, aveva tratto beneficio dal consistente background atletico. In pochi anni si era classificato tra i primi dodici sciabolatori d’Italia.Nel corso degli assoluti si era trovato opposto al nazionale Aldo Masciotta e dalla familiarità che questi aveva manifestato con la giuria comprese che doveva ridurre a nulla o quasi le possibilità di giudizio sulle stoccate. Riuscì a tenere a distanza l’avversario, andando avanti e indietro, e a imporre lunghi tempi morti all’incontro. Si arrivò così allo scadere del tempo sullo zero a zero (poteva capitare allora, e anche nella sciabola). “Oh, adesso possiamo stare qui anche due giorni” commentò ad alta voce. Dopo di che, sull’a voi, infilò lo scatto più veloce della sua vita e vibrò un plateale e decisivo traversone all’avversario, ancora immobile.
Le modeste risorse finanziarie lo costringevano a frequentare le gare in economia, e ove possibile cercava d’imbucarsi. Durante una gara internazionale, si sedette al ristorante degli atleti al tavolo del maestro livornese Bini. Quando arrivava il cameriere, si accodava con ampi gesti e muti assensi alle ordinazioni del commensale. Terminato il dolce se la squagliò, autorizzato da un cenno d’intesa di Bini. “Cameriere, mi porta il conto?” disse Bini. “Va bene signore, per due?” “Pe ddue?” obiettò sbigottito Bini. “ Ma il signore…” “So ‘na sega io chi era il signore, sarà stato un polacco, un russo, non parlava mai!”.
Mentre calcava le pedane lavorò come giornalista al Tempo, affiancandosi a colleghi forse meno dotati di lui ma più pazienti: sarebbero tutti più o meno diventati direttori di giornali o agenzie stampa, mentre lui abbandonò la partita. Frequentava con grande competenza le corse dei cani. I cavalli lo appassionavano meno ma animò per qualche tempo una sala corse, descrivendo in finta diretta radiofonica le corse agli scommettitori. In realtà le corse erano già finite, e lui badava a infilare il nome del vincitore solo sul traguardo dopo avere descritto con passione cavalcate sfibranti e sorpassi mai accaduti.
Il mestiere di maestro di scherma gli parve sufficientemente bohemien per il suo temperamento. Cominciò allenando i compagni di sala più giovani e gli universitari napoletani, poi cominciò a crescersi dei bambini. Rivelò una sorprendente vocazione pedagogica: il segreto per risultare credibile agli occhi dei rampolli era che non li ammaestrava da uno scranno cattedratico ma li conquistava dimostrandogli che sapeva fare più casino di tutti loro messi insieme. Trasmetteva poi la qualità fondamentale della sdrammatizzazione: la gara andava preparata con serietà ma se le cose andavano male non era una ragione sufficiente per guastarsi il buon umore. Con gli allievi si prestava alle gag più incredibili, e possedeva un repertorio continuamente rinnovato di scherzi. Una volta rallentò di un paio d’ore un campionato italiano per la circolazione di una presunta bomba da consegnare a un ufficio postale. Un’altra, soggiornando in albergo prima della gara, lasciò che gli atleti militari dell’Aereonautica scattassero puntualmente al suo passare sull’attenti, perché con la complicità di un capitano si era fatto passare per maggiore. E quando il receptionist gli citofonò in malo modo perché con gli amici faceva chiasso in stanza, scese nella hall immediatamente salutato dall’attenti dei militari che pregò di rimanere “comodi”, mentre il direttore, scoperto con raccapriccio che la camera incriminata era quella del maggiore, si scusava mortificato per il “dannatissimo equivoco”. Quando negli anni ’70 venne fuori il film “Amici miei” furono in molti a pensare che ne avesse scritto lui la sceneggiatura, tanto le celie di Tognazzi e compagni parevano prese di sana pianta dalla sua biografia. Il gruppo napoletano, raccolto attorno al suo maestro come fosse un santone, destava simpatia e qualche volta invidia. Un paio di volte alla settimana passava la serata con loro in trattoria. Alcuni allievi ammisero che gli sarebbe piaciuto che il loro padre fosse stato il maestro Bassetti. Inevitabilmente, proprio tale immedesimazione filiale, col passare degli anni, scatenò rivalse edipiche ed emancipatorie, ed uscì dalla cappa deamicisiana. Ciò provoco diversi dispiaceri al maestro Bassetti, che ai ragazzi aveva offerto tutto se stesso, il che significa anche i suoi non pochi difetti. Però aveva sinceramente promosso e vissuto le loro vittorie con una passione e un affetto che ampiamente travalicavano lo stretto tornaconto narcisistico. Al suo funerale nel 1996 schermitori di diverse generazioni riapparvero, commossi. Mi fa specie, tuttavia, che nei dieci anni successivi, nessuno di loro mi abbia mai chiesto l’ubicazione della sua tomba.
Non si vorrebbe, peraltro, suscitare l’impressione che Vittorio Bassetti fosse nulla più che un buontempone. Fu maestro nelle tre armi: nella spada ebbe un prima categoria in Giancarlo Toran, suo ideale continuatore nella tutela sindacale dei maestri (si veda più avanti); nel fioretto femminile tirò su un’onesta squadretta che per due anni si piazzò tra le prime quattro d’Italia. Ma il suo pane fu la sciabola dove vinse con i suoi allievi oltre cinquanta titoli italiani. La squadra del Cus Napoli vinse ripetutamente gli assoluti e partecipò alla Coppa Europa. In campo internazionale vanno almeno ricordate le medaglie olimpiche Marco Romano e Dino Meglio, ma furono tantissimi quelli valorizzati e non pochi quelli miracolati. Dal punto di vista tecnico portò in voga la linea in un’epoca in cui la sciabola non la considerava; per poi rinnegarla quando divenne esageratamente di moda. Non aveva però una ricetta specifica perché era convinto di doversi adattare lui alle caratteristiche dell’allievo. La sua maggiore forza era la tattica e in effetti i risultati erano frutto, più che della continuità delle lezioni, della capacità di far ragionare gli schermitori in pedana. A complemento, poi, si piazzava a bordo pedana e impartiva indicazioni al limite della teleguida. Dopo avere guardato uno sciabolatore per un assalto aveva perfettamente capito quali fossero i suoi riflessi condizionati e quindi previsto le sue azioni, quasi come un veggente. Tutti i suoi atleti, così, risultarono efficaci nei controtempi e nelle seconde intenzioni.
Altro suo primario campo di attività fu la tutela sindacale dei maestri di scherma. Riuscì persino a ottenere la presentazione di un disegno di legge relativo a un albo professionale della categoria, per proteggerla dall’abusivismo. Ma soprattutto fu protagonista di epiche battaglie che ruotavano attorno all’Associazione Italiana dei Maestri di Scherma, l’Aims. Fu vice presidente (ma sostanzialmente presidente, essendo a lungo dimissionario il presidente) dell’Aims in contrasto con la Fis, che, dopo varie fasi del conflitto, considerò decaduto quel consiglio direttivo e ne fece eleggere un altro. Ma quello di Bassetti, che contestava in primo luogo il principio per il quale un’associazione di maestri dovesse essere “organo interno della Fis”, non si dimise e convisse animatamente con l’altro. Quando il leggendario presidente della Fis, Nostini, fece ritirare registri e incartamenti del Consiglio osteggiato, Bassetti lo denunciò per appropriazione indebita. Era un periodo nel quale quasi tutti, dirigenti inclusi, s’inchinavano supinamente all’autoritarismo di Nostini, e al suo scintillante carisma, e nessuno osò contrapporvisi con la decisione del maestro Bassetti, che di fascino del resto ne aveva del suo e di Nostini rappresentò per molti anni la vera opposizione. I due si combatterono ma anche stimarono: in ogni caso la sovraesposizione costò al maestro Bassetti lunghi anni di ostracismo dalle convocazioni federali per trasferte e allenamenti. Né egli poteva sopperire al deficit economico che ne conseguiva con la paga da fame che gli corrispondeva il Cus Napoli, con il quale pure ingaggiò un lungo contenzioso giudiziario. I maestri di scherma in quel periodo erano anche privi della pur minima tutela sindacale, e in generale tenuti ai margini di ogni leva decisionale. Che uno di loro, un giorno, potesse diventare presidente della Federazione è ipotesi che avrebbe fatto inorridire i dirigenti di quell’epoca, che piuttosto avrebbero fatto campagna elettorale per il boia di Treblinka. Il maestro Bassetti, tuttavia, costituzionalmente inadatto a vivere una qualche forma di sudditanza, si tenne al centro delle varie elezioni dirigenziali, spostando pacchetti di voti o spingendo, non sempre con successo, suoi candidati. Nel corso degli anni si tirò addosso qualche critica per via dei frequenti spostamenti di alleanze. Le sue battaglie io le seguii tutte, anche perché me le raccontava in diretta da quando avevo sei anni, e posso giurare che mai una volta egli girò la faccia a qualcuno per sua convenienza o elaborò piani segreti alle spalle di chicchessia. Va tuttavia riconosciuto che, non essendo rancoroso, le inimicizie alla lunga gli venivano a noia e che il suo approccio verso il prossimo era dettato dalla polarità simpatia/antipatia, categorie che per effetto di una certa creativa propensione anarchica subivano frequenti rimescolamenti. Così, negli anni, si trovò talvolta a fianco di quelli che pure aveva avversato, e questo potè obiettivamente creare qualche disorientamento.
Un piccolo capolavoro lo compì a partire dal 1980, quando, tornando alla vecchia passione giornalistica che nel tempo aveva coltivato solo collaborando con “Il Mattino”, fondò “La Stoccata”, unica rivista specializzata di scherma, a parte il bollettino federale. Otto pagine in formato tabloid, teoricamente bimestrali ma in realtà cadenzate secondo gli estri del direttore. Dal punto di vista aziendale la conduzione del giornale era discutibile, e non soltanto secondo i criteri che insegnano alla Bocconi. Non di rado, brevi manu durante le gare, avvenivano sia la consegna delle copie agli abbonati sia la sottoscrizione degli abbonamenti stessi, che il nostro aveva l’abitudine di appuntare a penna dietro qualche foglio spiegazzato che estraeva dalle tasche. Ma chi prendesse oggi in mano quel giornale stenterebbe a credere, per la qualità sia delle idee che lo animavano sia dello stile grafico, che dietro di esso vi fossero sostanzialmente un’unica mente e un’unica mano. Le lampadine e il punteggio accesi dal lato di chi tocca e non di chi viene toccato, il ranking mondiale e nazionale, l’eliminazione diretta dal primo turno e molti altri aspetti regolamentari della scherma attuale trovarono sulla “Stoccata” la loro prima perorazione, quando ancora nessuno ne sosteneva la necessità. Ingessato da anni di stereotipati commenti alle gare da parte del bollettino federale, che voleva dal primo al quarantesimo di un torneo tutti efficaci nell’attacco come nella parata e risposta, l’ambiente venne salutarmente scosso dal registro, ora analiticamente tecnico ora ironico, del giornale: che non esitava neppure a bacchettare l’atleta di grido, il dirigente, il maestro, sollevandone la permalosità ma infine abituando tutti a non prendersi esageratamente sul serio. Sotto il profilo stilistico “La Stoccata” conteneva spunti degni più di una rivista letteraria che di un giornale sportivo. Bassetti era irresistibile quando scriveva aneddoti storici, racconti di trasferte o distillava fulminanti sarcasmi in poche righe. La sua unica lacuna, a causa della volubilità nelle idee (che in politica lo portò a votare in vita per tutto l’arco costituzionale, dalla monarchia all’estrema sinistra), era la teorizzazione. Per questo l’editoriale era una vera sofferenza, che lo costringeva a estenuanti riscritture per intere giornate. Personalmente lo giudicavo quasi sempre insoddisfacente e nebuloso, e temperavo a un certo punto la mia perplessità più per solidarietà che per convinzione. Ma puntualmente accadeva il miracolo: tale era il carisma dell’uomo che i lettori, che per prima cosa si fiondavano sull’editoriale, vi scorgevano significati traversi e reconditi che mai l’autore si era sognato di sottintendere. Da lì si persuadeva egli stesso di averli partoriti, e quel senso finale circolava col suo avallo, come un’opera d’arte contemporanea accetta talora di essere ultimata dalla posizione concettuale dei suoi fruitori.
In tipografia, per la composizione dei numeri, teneva da solo i ritmi di un’intera redazione. Forse fu quel logorante impegno, unito all’accumulo di stress in una vita combattiva e certo non ripagata secondo i meriti dal punto di vista economico, a farlo precocemente ammalare di disturbi neurologici. Ebbe qualche episodio ischemico, che il suo medico tardò ad inquadrare. Nel giro di poco tempo la scioltezza del suo eloquio s’inceppò e lo sguardo diventò perso. Ci recammo da un neurologo famoso, che riceveva circa settanta pazienti per pomeriggio e che aveva sincronizzato e ottimizzato i tempi, arrivando a scrivere la ricetta mentre citofonava alla segretaria per far entrare il prossimo. Ci teneva, comunque, quel luminare a dimostrare che si ricordava bene di chi aveva in cura, ma non sempre ci prendeva. “Oh, il nostro aviatore” disse a mio padre quando entrò da lui la seconda volta. Eppure, nel giro di pochi mesi lo recuperò. Al settanta per cento, magari, che però per un soggetto sopra la media non era nemmeno poco. Ma fu a quel punto che Vittorio Bassetti dimostrò, al massimo grado, il suo talento per vivere. Da mondano egocentrico che era stato si trasformò in un saggio misurato. Tirò fuori una grande e serena capacità di ascolto del prossimo, che pure non era mai stata la sua specialità. Lui, che quando un appuntamento era alle otto di mattina al lato opposto della città potevi stare certo che a quell’ora stava facendosi la barba, adesso arrivava mezzora prima dovunque. Si ritirò sostanzialmente dalla scherma (chiusa al tredicesimo anno “La Stoccata” e durata un anno la pregevole parentesi di un’agenda monografica sul suo sport), rifiutandosi di invecchiare pateticamente in pedana, e snobbò cerimonie e premiazioni. Gli allievi compiangevano la ridotta verve, i nemici erano certi che in realtà dietro ogni elezione del comitato regionale o della federazione, ci fosse, segreta, l’azione subdola del Grande Burattinaio: era inaccettabile, per tutti costoro, che Vittorio Bassetti, fottendosene della scherma, passasse ore fuori al suo balcone a rileggere gli amati De Filippo, Di Giacomo e Pirandello o a godere, con grande commozione, di piccole gioie. E senza mai spendere una parola di nostalgia per il passato viveva nel suo presente, con la medesima soddisfazione che aveva provato quando il suo presente comprendeva la quotidianità con i figli, quel po’ di gloria, gli incontri galanti e l’amata buona tavola.
Nel 1996 aveva 71 anni. Aveva un cuore bizzoso, sotto controllo. A fine ottobre un ictus sembrava dovesse portarlo via. Lottò. Il 6 novembre mi telefonò, con un bel tono di voce, che non interpretai subito come voler lasciare un bel ricordo. Ti volevo tranquillizzare, disse. Stamattina ho provato a uscire, fuori dal portone di casa. Mi voglio riprendere.
Il giorno dopo fu l’ultimo suo.
Remo, volevo chiedertelo appena ci siamo conosciuti, se tuo padre fosse per caso Vittorio, quello che il mio chiamava semplicemente “il Maestro Bassetti”, e per lui non si andava oltre, nello sport e nella stima; papà era del ’23, e bazzicava il Molosiglio, amico e compagno di goliardia di Sirola e soprattutto Beppe “Mannaggia” Merlo… .e ogni volta che uno schermidore napoletano si faceva onore, lui evocava il nome del Maestro Bassetti… che dirti di più, appena sei a Napoli facciamo incontrare anche i nostri ricordi!
…ovviamente a mio padre. Chiunque abbia avuto un padre importante si ritroverà in questo tuo ritratto filiale, controllato e mai scontato, dal quale traspare, forse tuo malgrado, un grande amore