E’ possibile che l’investimento mortale di un pedone da parte di un veicolo self-driving di Uber fosse inevitabile. E’ però un’occasione per ricordare quanto impegnativa si presenti, dal punto di vista morale oltre che tecnologico, la realizzazione delle auto senza guidatore. Anche se i produttori tendono a svicolare al riguardo, gli algoritmi dovranno pur ordinare una scala gerarchica di soluzioni e indurre il sistema di intelligenza artificiale a “scegliere” come procedere quando si tratti di sacrificare qualcuno (del genere: salvo il guidatore o butto sotto tre pedoni?).
Questa forma di dilemma morale, nell’attesa di proiettarsi nel mondo dell’IA, ha ottenuto una certa attenzione dalla recente filosofia morale, originando una sorta di branca a se stante, detta “trolleyology” per via dell’esempio che ha originato una serie di varianti. La versione basica si deve a Philippa Foot e consiste nell’aut aut che si para dinanzi al conducente di un carrello ferroviario: sulle rotaie ci sono cinque persone che sta per investire, a meno che non scarti sul binario secondario sul quale sta lavorando un operaio. Cosa deve fare? Orientarsi al principio che è meglio stroncare una vita che cinque?
Il problema può essere variamente complicato. Immaginiamo che non ci sia nessun operaio sul binario ma invece, vicino a me affacciato sul ponte soprastante la ferrovia, un signore grasso che se scaraventassi di sotto arresterebbe la corsa del treno (la stazza abnorme del soggetto è condizione necessaria del ragionamento e della diversa utilità allo scopo rispetto all’eventualità che mi sacrificassi io). Perché dovremmo considerare l’ipotesi più immorale di quella della deviazione del treno addosso all’operaio?
Sia il primo che il secondo caso rientrerebbero nella teoria del “doppio effetto”: a salvarne la moralità sarebbe la “buona intenzione”. Ci sarebbe una differenza tra volere la morte di un essere umano e metterla semplicemente in conto come probabile per raggiungere un fine diverso, moralmente valido. Se con un balzo felino l’operaio si mettesse in salvo o se miracolosamente l’uomo grasso rimanesse illeso ne saremmo lieti. Per questa ragione qualcuno ha ulteriormente arricchito il modello prevedendo che non basti la deviazione sul binario laterale ma che l’operaio (o in alternativa un uomo grasso legato sul binario) debba per forza essere travolto per fermare la corsa del treno il quale, diversamente, rientrerebbe sul binario principale e ucciderebbe le cinque persone che avevamo tentato di salvare. Sarebbe allora veramente sofistica la distinzione tra l’intenzione diretta e indiretta: sarà anche vero che lo scopo principale era quello di salvare diverse persone ma il collegamento con l’omicidio dell’altra persona è necessario.
La filosofia del carrello ferroviario è un modo per approcciare, a partire da casi estremi e paradossali, situazioni che si verificano nelle realtà, senza bisogno di aspettare il varo definitivo delle auto intelligenti: la moralità di condotte che inglobano il sacrificio di esseri umani è all’ordine del giorno negli scenari di guerra. Un caso famoso, piuttosto analogo a quelli che abbiamo visto, si prospettò per un sottufficiale delle forze speciali americane in Afghanistan, che insieme ad altri militari dovette decidere la sorte di tre giovanissimi pastori disarmati in cui si erano imbattuti, trovandosi in bilico tra la decisione di sopprimerli e quella di liberarli, accettando il rischio di essere da loro segnalati alle milizie talebane. Optarono per la seconda soluzione e ciò costò la morte di quasi tutti i componenti della pattuglia, oltre che dei sedici militari che cercarono di soccorrerli con un elicottero. Al ritorno manifestò il proprio pentimento per la decisione.
E quand’anche la legge della guerra imponesse un atteggiamento di estraneità rispetto ai nemici (che però non dovrebbe riguardare i civili), cosa dire dell’aviazione che vuole distruggere un sottomarino pericoloso per tutte le navi in rotta ma ha il tempo di farlo solo fino a che nuotano nella stessa area i sopravvissuti di un mercantile del suo stesso paese, appena affondato?
Ma ci sono altre persone che, per il ruolo che esercitano, si trovano chiamate a soppesare vite che entrano in conflitto. Se un ospedale dispone di un farmaco nella dose che salverebbe la vita di un uomo o, in alternativa, quella di cinque, meno gravemente malati del primo, dovremo senza indugio orientarci sui secondi? Mettiamo però che nello stesso ospedale cinque altri pazienti siano in attesa di organi differenti per un trapianto, che certamente non arriveranno nel tempo necessario per salvarli. Cosa rende ripugnante, rispetto al caso precedente, una sprangata sulla tempia al fattorino della lavanderia che ha appena consegnato i camici e al quale si possono vantaggiosamente sottrarre gli organi? Ci torneremo fra un attimo.
L’argomento che stiamo trattando si può più ampiamente categorizzare come dilemma del male minore, e in questa chiave, magari senza i medesimi risvolti drammatici, è un tema con cui ci confrontiamo tutti, quotidianamente. Un primo insegnamento della trolleyology è che non dobbiamo far troppo conto sul fatto che ci siano i conducenti che fanno il loro mestiere, e quindi si arrangino loro: lo spettatore sul ponte che decide se spingere sulle rotaie l’uomo grasso assume in quel momento la responsabilità del conducente, non solo se agisce ma pure se non agisce, perché gli eventi sono determinati dalle omissioni non meno che dalle azioni. La posizione morale fondamentale, dunque, è la disponibilità a farsi chiamare in causa dagli eventi per indirizzarne il corso e assumerne la responsabilità. I casi macroscopici e fantasiosi dell’uomo grasso e del binario servono in realtà ad allertarci verso le minute occasioni in cui possiamo attivarci come soggetti morali, se non creando il bene almeno minimizzando il male di quanto ci tocca e ci circonda.
In certe posizioni sul carrello, tuttavia, esiste un’eccessiva propensione a confondere l’utile con il giusto (secondo quell’atteggiamento filosofico detto utilitarismo, che fa coincidere in effetti il giusto con la maggiore quantità di utilità per il maggior numero di persone). Per un utilitarista, tuttavia, diventa difficile spiegare perché non si debba accoppare il fattorino per trapiantarne gli organi a cinque persone.
Per spostarci su un’immagine più realistica, gli utilitaristi giustificano il diritto penale come prevenzione: non è importante punire il colpevole (tanto ormai il danno è fatto) ma impedire i crimini futuri grazie alla deterrenza (la pena cioè si rivolge a tutti quelli che non sono il colpevole: ecco, guarda come rischi di finire). Ma se conta solo l’utilità generale, perché non colpire i figli del trasgressore (come in effetti fa, proficuamente dal suo punto di vista, la mafia)? Un utilitarista si impegolerebbe in una serie complicata di analisi costi/benefici per dimostrare che una misura del genere non sarebbe conveniente. Ma, messo alle strette, dovrebbe ammettere che la sanzione non avrebbe l’utilità auspicata perché la gente si ribellerebbe, ripugnando questo sistema al comune senso di giustizia. In questo modo, tuttavia, si riconosce che non è l’utilità a creare la giustizia ma la giustizia a condizionare l’utilità.
La differenza tra il fattorino e il malato cui viene negato il trapianto, ma anche tra l’operaio che già si trova sul binario e l’uomo grasso che vi viene spinto, riporta al secondo imperativo categorico di Kant: agisci trattando l’uomo come fine e mai come mezzo. Che risulti vantaggioso o meno per un congruo numero di persone o finanche per la collettività intera, non sarà mai ammissibile “servirsi” di un uomo, contro la sua volontà (e oltre certi limiti neppure con quella).
L’etica, però, non si risolve mai completamente a tavolino: la sua difficoltà consiste nel misurarsi con la situazione concreta (quel che invece ripugnava a Kant, che era propenso a denunciare all’aguzzino il fuggiasco nascosto pur di non mentire). E se l’uomo grasso fosse il sabotatore del treno? O invece gli uomini sui binari dei terroristi pronti a far saltare una scuola? Quanto poi al concetto di utilizzare l’uomo come “mezzo” è un concetto passibile di varie estensioni. Lo insegna la storia degli sfruttamenti e anche la storia delle insurrezioni contro lo sfruttamento fomentate da gruppi che si servivano degli uomini sobillati come mezzi per conquistare il potere.
Adottare un punto di vista morale, insomma, non significa terminare un discorso ma cominciarlo.
p.s. nel frattempo, dimagrire è un’idea salutare. Anche per non finire sotto un treno.
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