FIDARSI È MALE, NON FIDARSI È PEGGIO

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Come rispondereste alla domanda: “bisogna fidarsi della maggior parte delle persone?”. Probabilmente in modo molto diverso a seconda del vostro paese. In Brasile optano per il sì il tre per cento degli intervistati. Cioè, il novantasette per cento non si fida. In Norvegia a fidarsi sono il 65%. La tendenza a fidarsi del prossimo sarebbe uno dei fattori che compongono l’identità W.E.I.R.D (wealthy, educated, democratic, industrialized, western), l’idealtipo occidentale, ma specialmente quello europeo. In Alabama e Mississippi, per dire, solo il venti per cento si fida degli estranei (ma in North Dakota il sessanta per cento). Nel Nord Italia si rasentava il 50 per cento, però negli ultimi anni sta scendendo a picco; in Sicilia da tempo non è oltre il 26%. I più fiduciosi del mondo sono i danesi, il 74% niente meno. Al punto da lasciare regolarmente i bambini che dormono in carrozzina fuori dal ristorante. Non capiscono che ragione ci sarebbe di preoccuparsi. Giudicano così anche se vanno negli Stati Uniti e quelli, che li prendono per matti incoscienti, li arrestano per tale forma di incuria (accadde nel 1997 a una madre danese a New York, e poi dovettero rifonderle 60.000 dollari per carcerazione ingiustificata).

Provare fiducia verso gli estranei rende più felici, è comune opinione delle scienze sociali: è anche vero, però, che poche cose come il tradimento della fiducia rendono più scontenti, e quindi è una scommessa che va pesata. A favore giocherebbe pure un dato economico: sussisterebbe cioè uno stretto legame fra l’inclinazione alla fiducia esterna e la crescita. Uno studio del 2002 calcolò, per gli Stati Uniti, che un incremento dal 36% al 51% di persone che manifestano fiducia verso l’esterno metterebbe in tasca a ciascun americano 400 euro in più all’anno (virtualmente, cioè secondo la comune logica statistica per cui se un uomo mangia due polli e un altro nessuno sarà come se ne avessero mangiato uno a testa). Pur di buttarla nel capitalismo si usa parlare di “capitale sociale”. Fidarsi è soprattutto un atto pragmatico. Il sociologo Niklas Luhmann ha scritto che se non lo facessimo neppure potremmo alzarci al mattino, paralizzati dalla paura. L’economista neoclassico Kenneth Arrow osserva che la fiducia è un “lubrificatore sociale” che risparmia un sacco di problemi e garantisce efficienza. Hobbes fa nascere la società dalla mancanza di fiducia che gli uomini nutrono reciprocamente, benché nella sua visione il “contratto” con cui si legano non li renda intimamente più fiduciosi.

Anche un peroratore di una democratica società aperta come il compianto Tony Judt ha dovuto riconoscere che vivere in una società omogenea, dove le persone condividono le stesse caratteristiche fondamentali di nascita e i costumi, rende le cose più facili – il che giustificherebbe l’atteggiamento degli scandinavi, da sempre poco fiduciosi verso l’accoglienza. Ciò non toglie che la sfiducia verso il diverso degeneri in forme di irrazionalità. Quando un barcone con un centinaio di migranti sta avvicinandosi alla costa, una decina di milioni di italiani sono del parere che non ci sia da fidarsi di loro, e sia meglio respingerli al largo: eppure quand’anche fosse vero, dal punto di vista del singolo davvero non è probabile che fra sessanta milioni di persone uno di quelli vada a infastidire proprio lui! Secondo il noto dilemma del prigioniero (che evito qui di sviscerare per intero) irrazionali sono anche i criminali non colti sul fatto che richiesti di confessare in cambio di una pena più lieve, finiscono a scontare una pena maggiore perché non si fidano l’uno dell’altro e quindi confessano entrambi, denunciando il compare.

Non è semplice tracciare una netta linea di demarcazione, opponendo le persone prossime e gli estranei. In realtà, una buona parte delle relazioni sociali si svolge con persone che conosciamo fino a un certo punto, o con enti che in qualche modo conosciamo ma sono rappresentati da individui di cui non sappiamo nulla (come chi risponde al call center di un’azienda). Vista più in generale, la fiducia è quell’atteggiamento per il quale ci aspettiamo che altre persone: 1) non ci procurino danno 2) ci assistano o aiutino in alcune circostanze 3) ci diano quel che troviamo giusto ricevere e non trattengano più di quel che è giusto che debbano ricevere loro da noi.

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Vedete bene che in questi termini ci stanno dentro i due estremi del parente stretto o dell’estraneo totale – con la differenza di contenuti delle nostre aspettative – e ovviamente tutti coloro che stanno in mezzo. Anche chi è diffidente verso persone che non appartengano alla propria cerchia, quando si tratterà di un’operazione medica specialistica o di votare alle elezioni, salvo poche eccezioni non si rivolgerà ai figli. Personalmente, credo che chi tende a fidarsi delle persone vicine si porrà nello stesso modo verso le persone non prossime – naturalmente con la cura nello scegliere di quale soggetto in particolare fidarsi più che di altri suoi “competitor” nella stessa funzione; e sarà abbastanza propenso a fidarsi di estranei, salvo valutare (a ragione o per pregiudizio) che in alcuni ambienti, orari e contesti l’estraneità diventi un fattore fuori controllo, nei limiti del possibile da evitare o circoscrivere. Sovente, la fiducia viene esercitata secondo il metro della propria sensibilità. Non sono le esperienze negative a renderci sospettosi verso le azioni altrui, ma la scarsa fiducia nella nostra personale rettitudine a farci apparire implausibile che qualcuno agisca secondo criteri non biecamente utilitaristici.

Sceglierei quattro parole quali simboli della fiducia: il segreto, la delega, la promessa e la porta aperta. Ognuna di esse si indirizza teoricamente verso categorie differenti: condividiamo il segreto con una persona intima; deleghiamo a compiere un’attività per nostro conto una persona prossima, che riveste delle mansioni (ad esempio una segretaria); ci scambiamo promesse con persone concrete, anche se le conosciamo appena, per ottenere qualcosa di particolare (ad esempio in un contratto di fornitura); teniamo la porta aperta per farci entrare una pluralità di persone indistinte oppure per nostro comodo, o invece con la sicurezza che nessuno oserà varcarle, e quindi in nome di una fiducia assoluta nell’umanità che ci circonda (nel caso più paradigmatico, siamo tanto fiduciosi che possiamo dormire con le porte aperte). Nella vita vera, e con l’avanzare della contemporaneità, queste barriere sono estremamente permeabili. Nessuno ha maggiore accesso ai nostri segreti delle app che esigono, per il loro funzionamento, di accedere a tutte le foto e i file che riassumono la nostra esistenza sui dispositivi. Siccome non siamo in grado di stare dietro a tutta una serie di compiti che eccedono le nostre conoscenze, rilasciamo deleghe in modo indiscriminato.

Se la vediamo dal lato opposto (quando ci presentiamo come estranei, siamo considerati meritevoli di fiducia?), siamo esposti a un costante sistema di sorveglianza, anche visiva (che raggiunge in Cina i massimi livelli: un segnale da non trascurare, dato che la Cina si pone sempre più credibilmente come un efficiente modello di governo alternativo alla democrazia occidentale) e a una sfinente trafila probatoria per dimostrare che non siamo bot, hacker o spam ogni volta che prendiamo una strada elettronica, specie quella del pagamento per l’acquisto di un bene o di un servizio. Parallelamente, lo sviluppo della tecnologia digitale mette in crisi alcuni modelli storici di acquisizione della fiducia: guardare un’immagine o persino sentire la viva voce di qualcuno non sono più evidenze incontrovertibili colte dalla nostra percezione. Un problema ulteriore è che gli strumenti di cui ci servivamo per stare nella realtà non erano viziati da interessi contrapposti ai nostri. Di un’auto, una lavastoviglie o una cartina geografica potevamo fidarci, confidando perlomeno che non perseguissero un obiettivo eterodiretto, diverso dal nostro. Lo smartphone, al contrario, rimanendo, attraverso i software che ospita, fedele agli scopi del suo produttore – o di quegli stessi software cui il produttore dà accesso- diventa un nostro rivale (un antagonista) in quello che noi vorremmo fosse il controllo consapevole del nostro ambiente per agirvi secondo principi di autodeterminazione. In altre parole, facciamo dello smartphone un nostro stabile delegato.

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Benjamin Constant riduceva l’esercizio della democrazia a una questione pragmatica: siccome non abbiamo tempo per interessarci alla politica, nominiamo dei rappresentanti come fossero degli attendenti, dei fiduciari. Adesso ci regoliamo allo stesso modo pure per le cose più minute: la pratica della fiducia è diventata in parte una necessità e in parte un’abitudine. Forse per esorcizzare il timore di tutto delegare, accettare acriticamente le promesse commerciali, perdere la custodia dei segreti e spalancare le porte dell’intimità, scegliamo nello stato il capro espiatorio per sfogare la nostra sfiducia. Sicuramente c’è un difetto alla radice nella struttura della democrazia: che la fiducia venga concessa a qualcuno che chiede con insistenza di esercitare il potere (eppure se in una vacanza di gruppo qualcuno facesse troppa pressione per tenere la cassa qualche dubbio ce lo faremmo venire). Ciononostante, rimane inspiegabile come da un lato si palesi sfiducia verso persone che hanno scelto di svolgere compiti nell’interesse della comunità, come i magistrati o i medici durante il Covid; e dall’altro si riempiano i ristoranti che servono pesce crudo, dando per scontato che seguito di un corto circuito i gestori buttino via il pesce che ha perso la qualità igienica dell’essere abbattuto piuttosto che servircelo sorridenti nel piatto. Il pragmatismo della fiducia è dunque da ricondurre a un confort emozionale. Ci fidiamo di quelli di cui ci fa piacere fidarci, per non perdere tempo a usare il cervello e combattere i pregiudizi. Accade così che Trump sia un governante nel quale avere fiducia, anche se ci penseremmo dieci volte volte prima di comprare da lui un’auto usata.

La fiducia porta dentro una naturale ambiguità. Quale segno di fiducia più schietto di una vigorosa stretta di mano? Eppure le origini di tale gesto hanno origine da una somma sfiducia: si porge la mano abile al combattimento per mostrare che è disarmata. La fiducia infine, nonostante la sua pretesa razionalità, non si concilia con le leggi di mercato. Pensiamoci: ci sono luoghi in cui passeggiamo serenamente di notte, certi che un bastone non ci si calerà sul cranio. Secondo le comuni leggi economiche, i rapinatori dovrebbero per questa ragione indirizzare la loro professione in Giappone o nei borghi umbri, dove coglierebbero i passanti di sorpresa, piuttosto che a Caracas o a Tijuana. Eppure non accade. Forse perché quel che genera più sfiducia nei delinquenti (e fiducia nei camminatori notturni) è una comunità coesa e compatta, che sarebbe ancora capace di indignarsi e di correre in soccorso.

Di |2025-01-17T13:54:15+01:0017 Gennaio 2025|5, Motori di ricerca interiore|

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