Prendiamo qualcuno di questi imprenditori che hanno deciso di donare centinaia di milioni di euro per la ricostruzione della guglia di Notre Dame: possiamo dire che sono stati gentili? Sarebbe un po’ riduttivo. E prendiamo invece la signora che si trova affiancata a noi mentre entrambi ci dirigiamo verso l’ingresso di un negozio: ci fermiamo sulla soglia, le facciamo un segno di incoraggiamento con la mano e magari le diciamo anche: “Prego”. Insomma, non l’abbiamo sbattuta contro la porta a vetro per entrare prima di lei. Di nuovo: è una manifestazione di gentilezza? In questo caso direi: è pochino per entrare nella categoria. Evitare un atto di villania non ci rende automaticamente delle persone gentili. In mezzo a questi due esempi, ovviamente, c’è uno spazio enorme. Ma in quale punto di quello spazio deve collocarsi un gesto o una parola per poterlo veramente considerare gentile?
Per praticare una virtù bisogna pur sapere in cosa consista. Curiosamente, anche menti solitamente brillanti tendono a mischiare la gentilezza con altre qualità che magari rendono più probabile che una persona sia gentile, ma certo non coincidono con la gentilezza. Lo psicoanalista Adam Phillips, cui dobbiamo per esempio un buon saggio sulla monogamia, si è cimentato qualche anno fa, insieme a Barbara Taylor, in un “Elogio della gentilezza”. Immaginare il loro brainstorming, prima di scrivere il testo, è stordente. L’empatia? La mettiamo, sì. L’altruismo? Per forza. La generosità? E come tenerla fuori! Vivaddio, ma la gentilezza non è essere come Gesù. E’ molto meno. Per fortuna. Così è alla portata di tutti. Talmente di tutti che alla fine concluderemo (poi vedremo perché): ma come si può essere tanto stupidi da non essere gentili?
Visto che i primi due esempi non funzionavano riproviamo con un altro. La signora uscita indenne dal latente conflitto per entrare nel negozio, che ha pure una certa età, ora sale affaticata le scale del palazzo che la conducono al suo appartamento portando le pesanti borse della spesa. Un giovanotto la incrocia nella direzione contraria e le lancia un “Buongiorno”. Fin qui al massimo è stato educato (si è comportato conformante a certe convenzioni sociali). Poi ritorna sui suoi passi, le chiede se non le serva un aiuto, insiste se la signora dice di no e con delicata fermezza gliele sfila se capisce che quel non si disturbi non era mica tanto convinto. Ecco, questo è un atto gentile.
Possiamo quindi cominciare a indicare una prima caratteristica della gentilezza: l’attenzione. Più precisamente la gentilezza è una forma di attenzione verso il prossimo implicante un accorgersi che. Voi direte: vabbè, ma anche dire buongiorno significa accorgersi che sta passando qualcuno. Qualcuno però è uno qualsiasi (qualsiasi persona che occupa uno spazio). Quella persona lì, anziana e con la sporta della spesa, è una roba diversa. Un “buongiorno” con un sorriso, rivolto proprio a quella persona perché è quella persona, già costituisce un atto di gentilezza. Piccolo, ma pur sempre un atto di gentilezza.
Certo, l’attenzione non basta: se il tizio che scendeva le scale fosse stato uno scippatore, e le avesse sfilato invece la borsa, non gli avremmo imputato di essere stato disattento. “L’accorgersi che” deve essere seguito da una condotta ispirata alla benevolenza. Se ci spostiamo dal singolo atto alla persona, potremmo dire che una persona gentile ritiene che il prossimo sia meritevole di benevolenza fino a prova contraria, e si comporta di conseguenza.
Aggiungiamo una terza componente: deve sussistere una certa corrispondenza tra il comportamento gentile e lo stato mentale di chi lo compie. Magari della vecchina incontrata per le scale con la spesa in passato di solito pensiamo: “Crepa vecchia megera!”, perché ci spia da dietro la tenda e una sera ha chiamato i carabinieri perché aveva scambiato la baldoria di una festa di compleanno per il racket della prostituzione. Ma in quel momento stiamo pensando: “Sarai pure una maledetta strega, ma mi spiace che tu faccia questa fatica, mi ricordi mia nonna adesso” e dunque c’è una coincidenza tra quel che stiamo facendo e la nostra rappresentazione mentale. Se no non lo faremmo. Diversamente staremmo agendo così per un nostro tornaconto (speriamo che si ricordi di me nell’eredità). E allora si esce dal campo della gentilezza e si entra in quello dell’ipocrisia.
Che dire allora di tutte quelle situazioni in cui qualcuno è gentile perché se no lo licenziano, oppure per non perdere un cliente, come nelle relazioni commerciali? E’ gentile il cameriere che si affretta a riempire il calice del vino appena lo poggiamo vuoto sul tavolo? In quel caso meno che mai, dato che persegue l’obiettivo di spingerci a ordinare una seconda bottiglia. Ma comunque e sempre in quei contesti di ruolo viene praticato il gioco della gentilezza. Né si è gentili, né si è ipocriti: fa parte dell’esperienza attesa, come il tavolo con vista e la cottura dell’orata. Qui non ho mai usato per gentilezza il sinonimo di cortesia perché vorrei riservarlo a queste forme di gentilezza ritualizzata. Dal nostro venditore e dai suoi rappresentanti ci aspettiamo che siano cortesi (il che non impedisce che di propria iniziativa possano travalicare l’etichetta del caso e diventare veramente gentili. O veramente ipocriti).
Penelope Brown e Stephen Levinson hanno adottato un interessantissimo modello universale della cortesia (politesse) che è appunto distinta dalla gentilezza (kindness). Della cortesia hanno distinto quella positiva (evidenziare delle cose buone) e negativa (mitigare delle cose cattive). Ad esempio, segnalare una vicinanza con un “caro mio” o sottolineare approvazione con “ma che splendida giacca” sono forme di cortesia positiva; sfumare una mancanza rendendo il discorso impersonale con “Non si dovrebbe fumare qui” o camuffare l’imposizione con “Le spiace darmi i documenti?” sono forme di cortesia negativa. Giustamente, siccome parlano di cortesia (considerandola il rispetto di regole di urbanità), Brown e Levinson possono focalizzarsi sugli atti linguistici, che sono la quasi totalità. Ma nella gentilezza parlare a volte non è necessario. Anzi, le gentilezze che rimangono più impresse sono quelle silenziose o addirittura celate nel momento in cui vengono compiute, lasciando che il destinatario se ne avveda quando l’autore della gentilezza non è più presente.
La gentilezza, in effetti, è qualche passo in là oltre le convenzioni. Possiamo dire che rientra nell’etica? Sarebbe eccessivo affermare che chi non è gentile sta violando una regola etica. Ma sicuramente la persona gentile ha scelto di alzare l’asticella della sua etica personale, includendovi atteggiamenti e condotte non obbligatori, tradendo i quali sentirebbe di allontanarsi da quello che vuole essere.
L’etica della persone gentile comprende cinque grandi imperativi negativi:
- Non ignorare
- Non infierire
- Non imporre
- Non rimandare
- Non troncare
L’adozione, da parte della persona gentile, di questi cinque divieti interiori di partenza (che non si esclude di modificare se l’interazione non funziona bene) mi pare in grado di abbracciare tutti gli atti di attenzione qualificata (accorgersi che) contrassegnati dalla tendenziale benevolenza verso il prossimo e corrispondenti a un conforme stato mentale. Dal rispondere a una mail a prestare una piccola somma, dall’intercedere per qualcuno al non porsi in modo aggressivo in una discussione, dal lasciar concludere il discorso di un interlocutore prolisso al regalare sorrisi, dal poggiare la mano sulla spalla a una persona che si sta salutando a gettare una coperta sopra un barbone che giace addormentato in una notte d’inverno.
Non si possono evitare due domande sull’attualità. Come mai la gentilezza si presenta in certi ambiti pubblici tanto in disgrazia? Come mai tende a sfiorire nelle interazioni digitali?
Sul primo punto, sono diversi anni che la televisione ci propina trasmissioni con ospiti urlanti che mettono al bando ogni gentilezza, per non parlare degli avversari politici. Il deprimente equivoco è che dire le cose per come stanno sia antitetico a dirle cortesemente. In realtà si può essere franchi ma al tempo stesso cortesi. Di più: non solo la gentilezza non è da confondere con la cortesia ma può accadere che la gentilezza non contempli la cortesia. Abbiamo visto come delle gentilezze importanti possano realizzarsi fuori da ogni forma, e addirittura senza essere svelate subito al destinatario. Forse è questo che mi colpisce di più: non tanto un personaggio pubblico scortese (per quanto diseducativo) ma un personaggio pubblico che non pratica la gentilezza, cioè che non è attento e benevolmente/sinceramente disposto verso il prossimo, e che come tale dal prossimo (cioè da tutti noi) meriterebbe di essere ignorato. Anche perché la gentilezza non vale per tutti allo stesso modo. Se è gentile il debole verso il forte possiamo pensare che sia solo deferenza. Ma il potente che ostenta la sua mancanza di gentilezza verso chi è un gradino sotto è sempre un meschino frustrato.
Per quanto concerne le interazioni digitali, le loro modalità, inclini a un forte spirito di efficienza e di economia espressiva, e obiettivamente fonte di sovrabbondanza, disattenzione e nevrosi, spingono a ignorare (faccio finta di non aver visto la chiamata), infierire (mi accodo a quelli che attaccano qualcuno), imporre (comunico assertivamente), rimandare (troppe richieste, lo farò poi), troncare (ho detto quello che dovevo, bando alle ridondanze). L’opposto dei divieti interiori che compongono l’etica della persona gentile. Magari gli aggiustamenti arriveranno (solo se ci sforzeremo di introdurli). Per un valido galateo di buone maniere digitali, che però eleva frequentemente la cortesia formale a profonda gentilezza, rinvio all’ebook di Carlo Mazzucchelli e Anna Maria Palma, La gentilezza che cambia le relazioni digitali.
Rimane il quesito conclusivo: perché sarebbe meglio essere gentili? Seguendo gli studi neuroscientifici di Candace Beebe Pert perché si liberano dopamina, endorfina e serotonina che provocano euforia e felicità. Seguendo gli studi, fra i tanti di Michael Tews e Jonathan Bohllman, perché se cerchi lavoro e sei un tipo gentile è più facile che ti assumano e se sei un capo gentile è più facile che ti seguano. Secondo altri studi ancora perché si riducono i rischi d’infarto. Lo scrittore George Saunders, ha dedicato alla gentilezza il suo discorso ai neolaureati di un’università newyorkese: ha detto che è la cosa che conta di più nella vita, e che arrivati alla vecchiaia finalmente lo si capisce. Si perde l’illusione di essere il centro del mondo, e anche quella di essere eterni. E si diventa più gentili. Certo, se uno a diventare gentile c’arriva prima, ha detto ai neolaureati, vive meglio. Sbrigatevi.
Naturalmente si potrebbe proseguire, ad esempio chiamando in causa i neuroni specchio o quelle cento somiglianze che ci dovrebbero rendere tutti solidali. Alla fine, però, non è che valga la pena di aggiungere più di tanto. E’ meglio essere gentili per la stessa ragione per cui è meglio non essere stronzi.
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