Come misurare se parliamo inutilmente
Per quanto parzialmente surrogate dalle comunicazioni digitali (specie nei ragazzi), le conversazioni continuano a rappresentare una delle nostre attività più frequenti. Non sempre ne traiamo la soddisfazione che ci aspetteremmo. Sorge allora la domanda se sia possibile in qualche modo verificarne la qualità. Per farlo in primo luogo dobbiamo chiederci se esistano elementi costanti propri di una buona conversazione, e se per ciascuna conversazione si possa giudicare se stanno funzionando (o hanno funzionato) oppure no.
Il mio obiettivo è quello di indicarne alcuni validi per tutti i tipi di conversazione: tra innamorati, tra madre e figlia, tra conoscenti durante una cena, tra il datore di lavoro e il dipendente, tra un agente di viaggio e il suo cliente, tra negoziatori politici, tra il medico e il paziente durante la visita. Restano fuori quelle che sono troppo brevi e mirate per considerarsi conversazioni (la richiesta di informazioni turistiche a un passante, la richiesta del libro a una bibliotecaria: ma se sforassero rispetto al botta e risposta anche queste entrerebbero nel novero) o quelle fortemente finalizzate in cui una delle due parti deve esprimersi secondo codici obbligatori e ritualizzati dentro una situazione di potere asimmetrico (l’interrogatorio, la deposizione in tribunale, la confessione dal prete, l’esame universitario ecc.). Escluderei anche quelle che si svolgono solo a fini spettacolari o persuasivi di terzi che vi assistono invece che dell’interlocutore, come i dibattiti televisivi sulla politica, che hanno una funzione completamente diversa da una comune conversazione.
La mia tesi è che se alla conversazione assistesse un osservatore con lo scopo specifico di valutarne la qualità egli sarebbe in grado di farlo, sulla base degli indici che andrò a indicare, anche se conoscesse soltanto la relazione che esiste tra le persone e lo scopo che la conversazione intende conseguire (ma oserei dire che, per valutare ancora meglio, sarebbe preferibile che all’inizio ignorasse lo scopo e lo ricavasse dallo svolgersi della conversazione). Egli potrebbe persino formulare il suo giudizio finale assegnando un voto a ciascuno degli indici ed esprimendo un voto finale ricavato dalla media. Questo vuol dire che si tratta di elementi formali, che prescindono (ad esempio) dal fatto che le cose dette nella conversazione siano vere. Nulla impedisce a una conversazione di essere divertente, e persino proficua, se gli interlocutori stanno mentendo. La verità introduce un diverso piano di giudizio (se la conversazione sia stata strettamente utile), analogo a quello che riguarda l’opportunità o meno che la conversazione si svolgesse (a posteriori, si potrebbe ripensare che sarebbe stato meglio non divulgare alcune informazioni, o non rivelare certi sentimenti: ma questo non ha a che vedere con la qualità della conversazione. Anzi il fatto che le informazioni siano state trasmesse e i sentimenti rivelati conferma che la conversazione è stata efficace).
Quel che conta è che quando si inizia una conversazione si mira a uno scopo che può essere pratico e di valore sociale (negoziare una pace), emotivamente importante (conquistare l’attenzione di un possibile partner) o vacuo (far trascorrere un po’ di tempo nel quale non si ha nulla di meglio da fare). Una conversazione che rispetta gli indici di qualità ha più chance di raggiungere quello scopo (anche se ovviamente potrebbe non bastare).
Vado dunque a elencare questi indici. Non mi soffermerò troppo su ciascuno, riservandomi di approfondirne altri aspetti successivamente (ricordo che ho già scritto un decalogo della conversazione, che era però una sorta di deontologia essenziale, fondata soprattutto su criteri etici).
Per semplicità espositiva mi rifaccio a una conversazione duale; però gli indici valgono indipendentemente dal numero di partecipanti a una conversazione.
Ne ho individuati quattordici. L’ordine che segue non è gerarchico.
- Numero di domande che ottengono una risposta. Tendenzialmente una conversazione contiene domande e risposte da entrambe le parti, anche se le circostanze possono far sì che quelle di uno dei due soggetti siano dominanti. La totale assenza di domande (o di risposte) di uno dei due indica che un’eventuale asimmetria di potere si è interamente trasfusa nella conversazione, rendendola somigliante a qualcosa di diverso (un richiamo disciplinare o una supplica, ad esempio).
- Tempo di turnazione tra i conversatori (ogni quanto uno cede la parola all’altra). Esso dovrà essere apparentemente appropriato alla relazione personale e allo scopo della conversazione.
- Percentuale di eventi, soggetti, concetti che non attengono strettamente alle persone che conversano. Una conversazione amichevole si gioverà del riferimento a terze persone o a concetti astratti (che venga in conversazione almeno il concetto di amore, tra i coniugi che discutono del loro rapporto critico – non si limitino cioè a contestare che qualcuno non fa mai la spesa – o di azienda, quando un datore di lavoro si confronta con un dipendente di cui non è soddisfatto).
- Equilibrio tra informazione e contatto. Ci sono tipicamente conversazioni che vogliono solo informare (quella con un consulente assicurativo) e altre che si fondano sul contatto (con la zia che si va a trovare in ospedale). È necessario da un lato che la conversazione mantenga prevalente la sua categoria ma anche che non smarrisca completamente l’altra (il consulente assicurativo dovrà pur far passare il concetto che tiene molto al suo cliente e la zia probabilmente si tirerà su di morale sapendo che la famiglia sta bene).
- Singolarità dei conversatori. Deve risultare chiaro dall’andamento della conversazione che essa muterebbe se uno dei due fosse improvvisamente sostituito da un’altra persona o addirittura da un robot.
- Limite percentuale di ridondanze. Una conversazione fatta di troppe ripetizioni, di esempi inutili e di spiegazioni e narrazioni dilatate abbassa notevolmente la sua qualità, anche perché focalizza in modo sbagliato o riduce sensibilmente l’attenzione dell’interlocutore.
- Durate dei silenzi. Come ho detto l’ipotetico osservatore compie un’analisi formale: ma questo non vuol dire che non capisca i contenuti (se così fosse, del resto non potrebbe capire ad esempio se una domanda ha avuto realmente una risposta- non l’ha avuta se alla domanda “a che ora vieni?” qualcuno ha risposto “blu”; e non potrebbe capire se la conversazione muterebbe qualora una persona fosse sostituita da un robot). Siccome capisce i contenuti, egli potrebbe giudicare se un silenzio sia – almeno astrattamente – troppo lungo o meno (la domanda “quando pensa di potermi dare una risposta?” tra due negoziatori politici può implicare un tempo di riflessione; la domanda: “mi hai cercato tu stamattina?” no; ovviamente bisogna valutare se il silenzio non sia un modo per offrire una risposta: tacendo in una situazione di tensione di fronte a questa domanda, qualcuno sta facendo capire che ovviamente ha cercato l’altro). I silenzi possono essere anche troppo pochi, come quando gli interlocutori si parlano addosso.
- Segnali corporei di chiarimento, insofferenza o benessere. Anche in questo caso è bene precisare che i segnali sono da valutare positivamente o meno per quanto manifestano in quel contesto: nella conversazione in cui un padre chiede al figlio adolescente se non prova vergogna ad avere mentito su una questione importante, il disagio fisico del ragazzo può manifestare una propensione costruttiva dentro la conversazione (il corpo sta avvertendo che adesso non ha intenzione di mentire, e quindi è disponibile ad affrontare l’oggetto della conversazione).
- Basso tasso di competizione. Con ciò non intendo escludere dal campo delle conversazioni tutte quelle in cui spicca la volontà di affermare un argomento; ma la competizione deve essere tra argomenti più che tra persone. E quindi un continuo rimbalzo da un “io” a un “io invece” introduce un elemento competitivo che abbassa la qualità della conversazione.
- Modesta presenza di segnali di aggressività. Ci sono limiti in cui anche una lite rimane una conversazione; quando il tasso di aggressività di uno o entrambi supera una certa soglia però viene minata la struttura cooperativa (e probabilmente si abbassano tutti gli altri indici).
- Basso tasso di fraintendimenti. Quando qualcuno reiteratamente non capisce l’altro le ragioni sono molteplici: una differente competenza linguistica, una cattiva sintonizzazione, una scarsa capacità di comprensione dei concetti, l’attaccamento a dei pregiudizi: tutte ipotesi che si riflettono negativamente sulla qualità della conversazione.
- Una durata della conversazione appropriata alle aspettative (quanto meno quelle apparenti, perché quelle intime sarebbero inafferrabili dell’ascoltatore, e non necessariamente favorevoli alla qualità della conversazione). Le aspettative, questo sì, potrebbero cambiare in corso, quando conversazione si apre a scopi nuovi che emergono una volta che è già cominciata.
- Assenza di rumore. Il termine va inteso in senso semiotico, mancanza di interferenze nel canale tra emittente e destinatario del messaggio (che si scambiano di ruolo durante la conversazione). Il rumore quindi non è solo un disturbo ambientale (il fatto, ad esempio, che la conversazione si svolga in un cantiere) ma pure la frequente interruzione (qualcuno dei due risponde al telefono).
- Spinta a/esercizio di azioni non oppositive stimolate dalla conversazione. È questo, in realtà, un elemento diverso dagli altri, perché si può apprezzare successivamente alla conversazione, e potrebbe non essere immediato né visibile (come un cambiamento dello stato d’animo). È importante sottolineare tuttavia come una conversazione di qualità produca degli effetti di modifica o di consolidamento in termini di comportamento (se chi riceve le informazioni le ignora, questo, sia pure a posteriori, depone a detrimento).
Ognuna di queste caratteristiche richiederebbe specificazioni ulteriori e approfondimenti ma per il momento accontentiamoci dello schema di base.
A cosa serve dire che un osservatore potrebbe giudicare la qualità di una conversazione?
In primo luogo, l’ipotesi potrebbe non essere meramente teorica. All’interno delle organizzazioni (un’azienda, un ente pubblico, un’associazione) ci sarebbe un interesse concreto nel ricorrere a un’analista delle conversazioni per migliorare l’efficienza delle organizzazioni.
Nei contesti privati, quali le conversazioni affettive o mondane, ciascuno di noi può fare lo sforzo di comportarsi come l’osservatore terzo con i quattordici indici ben presenti e – prima della conversazione – predisporsi a farli funzionare per il meglio; o – dopo la conversazione – se non ne è soddisfatto, capire esattamente cosa non ha funzionato, e partendo da questa base migliorare la conversazione successiva.
Insomma, è una roba che serve a vivere meglio.
Indice di qualità della conversazione | Voto | Osservazioni |
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Numero di domande che ottengono una risposta | ||
Tempo di turnazione tra i conversatori | ||
Percentuale di eventi, soggetti, concetti che non attengono strettamente alle persone che conversano | ||
Equilibrio tra informazione e contatto | ||
Singolarità dei conversatori | ||
Limite percentuale di ridondanze | ||
Durate dei silenzi | ||
Segnali corporei di chiarimento, insofferenza o benessere | ||
Basso tasso di competizione | ||
Modesta presenza di segnali di aggressività | ||
Basso tasso di fraintendimenti | ||
Una durata della conversazione appropriata alle aspettative | ||
Assenza di rumore | ||
Spinta a/esercizio di azioni non oppositive stimolate dalla conversazione |
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