Fuori dai canoni, e già per questo apprezzabile, è stata l’idea di proporre una traccia sul silenzio fra i temi della maturità. Compito improbo, tuttavia, perché i ragazzi col silenzio c’entrano davvero poco. Cioè, se stanno troppo zitti o si rifugiano da qualche parte per conto loro di solito ci si preoccupa: appare segno di introversione, disagio, timore, specie se persiste fra i coetanei.
Fino a una certa età è del tutto fisiologico trovarsi a proprio agio nel pieno del casino. Il silenzio riguarda invece la fase della maturità, e non quella liceale. Quando si raggiunge la maturità (meglio, se si raggiunge: potrebbe anche non avvenire mai, o all’opposto potrebbe sopravvenire precocemente) si impara finalmente, non dico a tacere (che non è affatto un valore) ma a praticare un buon uso del silenzio.
Che età ci vuole normalmente per apprezzare un silenzioso luogo della natura? Nei ragazzi può suscitare noia, oppressione o una sensazione di claustrofobia acustica. Il fatto è che siamo noi a riversare il nostro spirito sulla natura, allo stesso modo in cui Goethe proclamava la montagna “maestra muta di discepoli silenziosi”, sorvolando sulle violente precipitazioni metereologiche che ne fanno un’impressionante drammaturgia dei sensi. Chi la pratica vi racconterà l’apnea come il luogo del silenzio assoluto, eppure il fondo marino genera vibrazioni e avvolge il sommozzatore nella bolla del suo respiro e battito cardiaco. Il ghiaccio dell’Artico rimbomba quando lo scuotono il vento e le correnti marine. Con buona pace di Thoreau e delle sue passeggiate negli “immensi spazi di silenzio che si estendono tutt’intorno” la campagna, più di ogni altro habitat, instilla continui rumori nel vuoto sonoro.
Il silenzio della natura è una selezione di suoni, di solito centellinati, che creano effetti armonici e ritmici nei quali cerchiamo di ricostruire le trame di senso che abbiamo perduto. Le onde o la risacca del mare cessano nella loro regolarità di essere un suono. Nella natura i rumori non emergono da un brusio, da uno sfondo. Sono i rumori della natura che creano il silenzio, e ce lo rendono udibile, sino al punto che ci finiamo dentro. Sì, ci vogliono anni e anni di esperienza per scavare quello spazio.
Si tende a considerare il silenzio quel che viene rotto dalla parola, oppure una pausa dentro il linguaggio. Nel mio libro “Storia e pratica del silenzio”, dal quale attingo diversi passaggi di questo articolo, ho sostenuto che il silenzio è invece un vero e proprio “atto linguistico” con una particolare attitudine a “fare cose” (come il filosofo John Austin teorizzava per le parole).
Se è vero che per non fraintendere le parole non basta il dizionario ma bisogna essere in grado di capire il contesto, la competenza pragmatica richiesta dal silenzio è ancora più esigente. L’efficacia del silenzio cresce quanto più le persone si conoscono. Per farsi capire da qualcuno a cui si dice “Non mi toccare” è indifferente avere frequentato tutto il ciclo scolastico insieme o essersi appena incrociati a un bar o sopra un autobus. Ma quando passiamo al non detto del silenzio, l’aleatorietà si impenna: perché il mio silenzio dica di non toccarmi ci vuole davvero una frequentazione collaudata. Come ha scritto Nicoletta Polla Mattiot (che ha fondato fra l’altro una dotta e lodevole Accademia del Silenzio e ha conosciuto il fresco onore di una lunga citazione nella priva di maturità), più vicino allo stato puramente emotivo della lingua, il silenzio riesce a spostare l’attenzione da quello che le persone dicono al loro stato d’animo. Nel silenzio linguistico, insomma, non è in gioco tanto il contenuto quanto la relazione. Nell’economia emotiva di una relazione potrebbe, in certo casi, essere più importante che chi si avvicina venga respinto con il silenzio, perché il fatto che intenda in questo modo dice di più sulla relazione, anzi in qualche modo rende visibile la relazione.
Perché, in effetti, le persone si servono del silenzio al posto di una parola? Perché quel che cerca il silenzio non è solo un risultato ma pure una specifica procedura per ottenere quel risultato. Chi usa il silenzio vuole che l’altro capisca, anche se è più difficile. Non vuole attenuare l’emozione con un livello di secondo grado nella parola. Chi fraintende il silenzio sta fraintendendo la relazione. È questo che è in gioco. E per questo il silenzio, nel breve periodo del singolo scambio linguistico, è più adatto a sciogliere sentimenti negativi. Chi lo intende mostra di avere presente lo stato della relazione. E su quel presupposto, si può riprendere a parlare.
“Le sirene hanno un’arma più terribile del canto, cioè il silenzio. Potrebbe essere che qualcuno si sia salvato dal suo canto ma non dal loro silenzio” scriveva Kafka immaginando una nuova versione dell’incontro fra Ulisse e quelle creature mitologiche. Sostituite sirene e canto con esseri umani e parola: qualche volta può funzionare.
In un rapporto sentimentale è importante che i più giovani imparino, in primo luogo, a non centellinare, non inibire la potenza rivelatrice della parola. Quando sopraggiunge la maturità l’equilibrio cambia. Benché pesi sull’amore la minaccia di alcuni tipi nefasti di silenzio (ne ho personalmente classificati cinque), la costruzione di uno spazio ambiguamente silenzioso tutela l’innamoramento dall’attrazione in un negoziato da sfera mercatale: la divisione dei ruoli tra la parte intraprendente e la parte silente suggella un’alleanza, oltre che una danza rituale. È interessante notare come la civetteria descritta da Simmel, “nella sua manifestazione più volgare”, consista nello “sguardo lanciato con la coda dell’occhio tenendo la testa ruotata per metà dall’altro lato, un allontanarsi a cui si accompagna un fuggevole offrirsi, un’attenzione rivolta e negata con l’orientamento diverso della testa e del corpo” e coincida quasi alla lettera con quanto, nella quintessenza letteraria dell’amore romantico, Werther auspica per sé da Lotte: “La carrozza ci sorpassò, e c’era una lacrima nei miei occhi, La seguii con lo sguardo e vidi la testa di Lotte sporgersi dallo sportello e lei si girò a guardare…verso di me?- Mia cara, oscillo in questa incertezza, e questa è la mia consolazione: forse si è girata per vedere se c’ero. Forse!”. Sin da principio quanto reclama l’amore non è l’offerta della parola ma quella esclusiva dello sguardo.
Si potrebbe persino dire che a distinguere l’amore dal puro appagamento sessuale sia l’intensità muta degli occhi. Anche pubblicamente, del resto, l’amore gode di un rispetto sacrale e cede al sesso l’arena verbale. Di nuovo, Barthes osserva che “il discorso amoroso si dà solo da qualcuno a qualcuno, è un pettegolezzo a partire dal Simposio”, che però è un discorso sull’Amore o al massimo su figure mitologiche e paradigmatiche prestate a una teoria dell’innamoramento. Il parlato spettegolante in qualsiasi comunità investe il sesso piuttosto che i moti dell’animo altrui. Anche nel giorno del matrimonio, gli invitati che si radunano per fare chiasso sotto il balcone degli sposi stanno “parlando” della loro sessualità, marcando il confine tra ciò che rimarrà intimamente privato, la promessa di amore durevole, e quel che in quota andrà idealmente condiviso con la comunità, il puro manifestarsi fisico dell’unione. Non è alla fine dissimile dagli appostamenti che i paparazzi effettuano per conto dei rotocalchi. Se c’è una forma di pornografia perturbante è quella delle trasmissioni televisive che convincono i partecipanti a dare conto dei loro sentimenti più profondi.
Il culmine della felice convivenza viene abitualmente indicato nella capacità di trascorrere insieme del tempo, e avvertirlo all’unisono come tempo trascorso profondamente insieme, senza che lo insidi un obbligo di intrattenersi reciprocamente attraverso un uso continuo della parola. È uno degli aspetti che distinguono il rapporto d’amore da quello di amicizia, se ha ragione (e probabilmente ce l’ha) Joseph Epstein che nel suo trattatello sull’amicizia ne vede il fondamento non nella fedeltà, nell’intimità o nel tradimento bensì più semplicemente nella conversazione. “L’amicizia, quando funziona, è uno strumento suonato sull’armonia della conversazione”.
Il fatto è che l’amore, come meglio di tutti ha messo in luce Stendhal con la sua invenzione della “cristallizzazione”, si alimenta di un’immaginazione introspettiva che in quanto tale si giova degli spazi svuotati della parola piuttosto che di un brainstorming.
Come mai, dunque, nel bene e nel male, nello sbocciare come nella consunzione, circola così tanto silenzio nel rapporto amoroso? La risposta è che in nessun’altra relazione la comunicazione esige così perentoriamente di fluire incessante. Ogni parola, gesto o silenzio è soppesato simbolicamente e inserito in una storia di rimandi. La comunicazione sentimentale è citazionista, anche e specialmente quando omette: quasi mai vi si dice qualcosa che isoli un qui ed ora e non sia invece collegata a un’intesa o a una frizione trascorsa. La frase più scheletrica e apparentemente innocua, un semplice “mi sono scordato” oppure “ti stavo ascoltando” vibra – a seconda dei casi – di sfida, recriminazione, riconoscimento, celebrazione, agonismo, solidarietà. Il sociologo Jean- Claude Kauffman ha insistito molto sulla condanna alla produzione comunicativa ininterrotta che grava sulla coppia, focalizzandosi sulla vita domestica che, personalmente, considererei la continuazione della vita amorosa con altri mezzi. Kauffman, nell’analizzarla, sottolinea come negli aspetti più prosaici la procedura comune sia esprimersi senza parlare, o parlando il meno possibile. “Il silenzio, la non-rappresentazione è fortemente strutturante del coniugale”. La comunicazione silenziosa può prendere strade complesse: manifestarsi in un gesto di buona volontà (assecondando una richiesta del partner, magari a sua volta non espressa direttamente), realizzare una delle occupazioni di territorio che de Singly rubrica nella “lotta coniugale per il potere domestico” o giungere alla più crudele rappresaglia simbolica consistente nello “sciopero degli affetti”. Nella convivenza sentimentale esigenze prosaiche, narcisistiche, idealistiche e pulsionali si intrecciano e rendono complessa l’interpretazione del silenzio, molto più che nelle altre aree della vita. Ma non venirne a capo significa che non si era fatti l’uno per l’altro. In amore tacere silenzi diversi, e per giunta fraintenderli, è assai più grave che esprimersi in idiomi differenti.
Prima ho accennato al significato del “non mi toccare” richiesto silenziosamente. All’opposto c’è una maturità del toccare senza verbo, che si guadagna con la tranquillità degli anni trascorsi. il silenzio si accompagna frequentemente a dei gesti. C’è un gesto, però, che trova la sua meravigliosa compiutezza quando segue immediatamente il silenzio ed è toccare qualcuno. Non mi riferisco al tatto dell’erotismo, ma a quel toccare delicato che spezza coraggiosamente una distanza fisica, sorretto dall’intuizione che le circostanze personali di quel momento lo rendono un atto gradevole. Le persone che si toccano mentre parlano lo fanno di solito in modo convenzionale, come quando si scambiano una stretta di mano incontrandosi o accomiatandosi. Una sequenza di empatia crescente al momento del congedo comincia con le parole di saluto e la stretta di mano, cui seguono un attimo di silenzio e una mano messa sulla spalla di chi sta uscendo che ambisce a trasmettere una vicinanza, anche temporanea, al di là delle convenienze sociali. Il grado più elevato è l’abbraccio, parlo sempre di quello non del tutto atteso, non dovuto né precisamente richiesto, che accantona le esigenze di forma perché se lo può permettere, sorprendente ed epifanico, impudico e lieve, liberante e liberatorio. La parola normalmente avvicina più del silenzio, ma non in questi casi. Dove le forme della parola sono dominanti, persino quando affettuose, impera un tabù del toccare.
Non è ben chiaro se, così come c’è un’età adatta allo sport agonistico e una propizia per le vacanze termali, ci sia un’età che si abbina più agevolmente alla pratica del tacere. Un assaggio, almeno, nella fanciullezza, non guasterebbe: lo dimostrò Maria Montessori che li coinvolse in lezioni imperniate sul sentire il silenzio e riprodurlo, e li avviò a prendere in conto precocemente il profilo spirituale delle esperienze. Gli anziani si avvinghiano alla parola quanto più si rendono conto che il loro potere di modifica sull’esterno si restringe; correttamente interpretiamo i silenzi che li sequestrano come desolazione, distacco e obnubilamento, specie se sono stati abbandonati come detriti del vivente nelle case per anziani. La saggezza e la lucida moderazione verbale che l’accompagna sono privilegio di pochi eletti. La verità è che bisogna approfittare, e tacere quando si è abbastanza pieni di vigore per farlo.
Fra i caratteri distintivi dell’umanità vi è la tendenza a evitare la ripetizione, privilegiando l’innovazione creativa e ciò che è differente. A uno sguardo più attento, però, fenomeni e comportamenti ricorsivi risultano prepotentemente insediati nei fondamenti delle nostre vite, e non solo perché rimaniamo incatenati ai vincoli della natura. Come le stagioni e le strutture organiche nell’evoluzione, si ripetono anche i cicli storici e quelli economici, i miti e i riti, le rime in poesia, i meme su Internet e le calunnie in politica. Su concetti e comportamenti reiterati si basano l’apprendimento e la persuasione, ma anche la coazione a ripetere e altre manifestazioni disfunzionali. Con brillante sagacia, Remo Bassetti affronta un concetto finora trascurato, scandagliandolo nei vari campi del sapere, fra antropologia, letteratura e cinema, per dipingere un affresco curioso di grande ispirazione. Da Kierkegaard almachine learning, dai barattoli di Warhol ai serial killer, dai déjà vu fino alla routine, questo libro offre un’analisi profonda della variegata fenomenologia della ripetizione nel mondo moderno, sia nelle forme minacciose e patologiche sia in quelle che invece assicurano conforto, godimento e, persino, libertà.
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