Non si osa immaginare che cosa abbia scritto sul suo testamento, ma certo il commiato visivo dal mondo è stato originale. Il 27 gennaio 2020, sulle strade di Rimini, una locandina funebre veniva ad aggiungersi alle altre, quella della signora Irma, mancata a 84 anni. Il dettaglio che la rende un documento d’epoca è la posa nella foto, ove è rappresentata con un sornione sguardo di sfida e l’inequivocabile dito medio alzato. Le figlie hanno dichiarato ai cronisti che era uno spirito libero e irriverente, e tra le varie risorse iconografiche disponibili per commemorarla hanno ritenuto che questa meglio rispondesse al suo carattere, e che probabilmente la scelta sarebbe stata bissata sopra la lapide. Non si può escludere che abbiano liquidato la faccenda diplomaticamente, e avessero in realtà fatto solenne voto alla madre di tramandare esattamente questo suo messaggio alla posterità. Tra qualche millennio gli studiosi di reperti si divideranno, proprio come sino ad oggi sulla funzione dei dolmen di Stonehenge, riguardo ai destinatari e al sostrato psicologico del commiato. Che si trattasse di saldare il conto in sospeso con un conoscente o gli animatori della movida rivierasca, di sintetizzare a suo modo la limitatezza del Dasein heideggeriano oppure di portarsi avanti col lavoro (e dunque il gesto fosse rivolto ai becchini o mirasse addirittura più in alto), il dubbio essenziale però rimarrà sempre: ma la signora stava prendendo l’iniziativa di offendere o invece reagendo perché si sentiva offesa?
Prolifera in effetti nella contemporaneità un atteggiamento meno evidente di altri e ingiustamente collocato in secondo piano, che contribuisce tuttavia a spiegare diversi profili delle relazioni sociali più disparate. Si tratta del fatto che tutti, continuamente, si offendono.
Questo è tanto più vero se utilizziamo l’espressione nel proprio duplice significato: persone che reciprocamente si recano offesa, considerando l’insulto o la denigrazione uno strumento normale all’interno degli scambi comunicativi; e persone che si sentono, o almeno si dichiarano, intimamente ferite dal comportamento di qualcuno.
Il fenomeno cade ogni tanto sotto i riflettori soprattutto per la parte più visibile e circense, quella degli insulti, che vengono in effetti generosamente dispensati sui social, in certe trasmissioni televisive che vi fondano l’audience, nella corsa agli armamenti verbali che alcuni capi di stato hanno reso corredo dell’escalation missilistica. E chi avrebbe mai pensato che, non appena gli avessero tolto i capsomeri e l’acido nucleico da sotto il naso e ficcato un microfono sotto la bocca, i virologi avrebbero rapidamente convertito la sotterranea cattività da laboratorio in scoperta cattiveria dialettica, scambiandosi vituperi come camionisti che si contendono la corsia di sorpasso?
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Ma la mia ambizione è stata quella di realizzare un più vasto trattato sull’offesa, non strettamente legato all’epoca e con una certa considerazione per la varietà culturale. Il libro cerca dunque di rispondere a domande sul perché e come si offenda e ci si offenda. Direi che la prospettiva di osservazione preferita è proprio quella che riguarda il sentirsi offeso, che definisco offendersi riflessivo, contrapposto all’offendersi aggressivo, ma siccome i due atteggiamenti sorgono nello stesso momento, non sarebbe possibile analizzarne seriamente uno separato dall’altro. Nella pratica, poi tendono a sovrapporsi, perché l’offesa funge da stimolo e provocazione per un ritorno dell’offesa; e lo stesso sentimento di offesa veicola sovente un’aggressività finalizzata.
Come ho anticipato sopra, ritengo che il puro insulto sia sopravvalutato nella sua qualità di realizzare offese durevoli. Esistono altri modi verbali per ferire i sentimenti o la reputazione, e soprattutto altre forme di offese. Non intendo certo contestare che le parole siano pietre, ma vorrei aggiungere che certe forme di disattenzione sono randellate.
Individuo così tre categorie generali dell’offendersi, e al loro interno nove forme tipiche di offesa più gli insulti (che però sarebbero ricompresi nel dire male che è una delle nove), ai quali comunque, per la loro peculiarità linguistica, ho dedicato un capitolo a sé.
Specifico cosa sia veramente in gioco nell’offesa (dall’onore alla dignità, dalla reputazione all’autostima e al senso esclusivo della propria unicità, e altro ancora) e mi soffermo su alcuni antidoti alla sua nascita o perpetuazione, come la gentilezza o le scuse, nonché sulle forme di reazione, dall’antico duello al più classico dei bronci. Mi aiuto con esempi concreti (alcuni tratti dalla letteratura, dal cinema o dal teatro, o anche dalla mia esperienza personale); ed effettivamente mi piacerebbe che, oltre a fungere da stimolo alla riflessione astratta su un tema sorprendentemente poco esplorato, il libro possa offrire occasione di orientamento pratico, anche se poi ciascuno deciderà se sfruttare l’accresciuta competenza per limitare o invece allargare la quantità di offese in circolazione.
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