Non porgere le scuse, talvolta, è un’offesa più grave del fatto per il quale ci si doveva scusare. Così è nelle interazioni occasionali, ad esempio se un passante ci pesta un piede o un professionista ci fa attendere per due ore oltre l’orario dell’appuntamento; anzi in questo caso la condotta, presa isolatamente, non è nemmeno un’offesa. Da un amico che ci ferisce con qualche azione, invece, ci aspetteremo almeno quella parte delle scuse che si focalizza sul dispiacere. Della responsabilità c’è sempre tempo per discutere se si è tenuto aperto il canale di comunicazione (e intanto uno può cominciare a prendersi la colpa per la parte che dipende da lui), ma l’essenza lenitiva, suturante delle scuse non è processuale: è l’empatia, perlomeno nelle relazioni più significative, e l’assenza di un mi dispiace sostituisce un’offesa a quella precedente.
Ciò non toglie che la parte più significativa delle scuse sia il seguito, e cioè il cambiamento della condotta, oppure uno sforzo di indennizzo (non necessariamente monetario, che sarebbe anzi aberrante nei rapporti affettivi).
Sherry Turkle, partendo dalla premessa che dopo avere commesso uno sbaglio non è mai stato facile sedersi e chiedere scusa, osserva costernata che oggi non ce n’è più bisogno: basta digitare mi dispiace e premere Invio.
Brano estratto dal paragrafo “Scuse”, nel capitolo 10, “Antidoti alle offese”.
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