Lo sport immerge gli atleti in una mentalità particolare. Si deve ritenere normale che l’altro cerchi di prevalere e prevaricare, persino in alcuni casi violando le regole, come nel «fallo di gioco» in una partita di calcio: quando un attaccante è lanciato verso la rete avversaria e il difensore gli corre accanto senza tenerlo per la maglietta o sgambettarlo viene biasimato dal pubblico, dai giornalisti e considerato fesso pure dall’avversario che ha segnato. Se però lo stesso giocatore, dieci minuti dopo, rifila allo stesso avversario un paio di tunnel, cioè gli fa passare due volte il pallone sotto le gambe compiendo un virtuosismo tecnico, è prevedibile che quello gli rifili una pedata sullo stinco: sarà punita dall’arbitro ma umanamente compresa, perché vendicava l’abuso della superiorità tecnica. Le violazioni di confini nello sport sono delicatissime, e non del tutto intellegibili da chi non ne sia avvezzo. Bisogna vincere, ma non troppo. Una squadra che batte l’altra per 6-0 sarà elogiata per la splendida partita, ma uno di più può introdurre un’umiliazione. Nel 2006 la Roma batté 7-0 il Catania e al suo allenatore Spalletti parve un segno di fair-play attendere i calciatori sconfitti all’uscita del campo per stringer loro la mano. La società sicula lo interpretò come uno sfottò e da quel momento, per anni, in tutti gli incontri con la squadra della capitale i suoi atleti giocarono con il sangue agli occhi per vendicare l’onta, e riuscirono anche a comprometterle uno scudetto. In una gara giovanile del 2019, dopo un 27-0, i dirigenti della squadra vincitrice licenziarono l’allenatore perché «l’avversario va sempre rispettato» e un tecnico «ha il compito di allenare ma soprattutto educare i ragazzi».
Per quanto si qualifichi come gioco, l’evento sportivo…
Brano estratto dal paragrafo “Sport”, nel capitolo 6, “Offese pubbliche”.
Scrivi un commento