di Carlo Mazzucchelli
La ricarica dello smartphone, soprattutto ora che è diventata wireless, non è più un problema, lo è invece riuscire a rinunciare a un dispositivo che ha colonizzato la vita reale e quella virtuale in modo pervasivo, incatenando la mente, occupando il tempo e imprigionando l’attenzione di chi lo usa.
L’innovazione tecnologica continua sta cambiando la moda, con sempre nuovi materiali e componenti tecnologici indossabili come sensori, RFID, fibre vegetali ed elettroniche. Tra le novità ci sono anche porte USB per poter ricaricare lo smartphone quando si è lontani da una fonte di energia. Un abito Versace o una borsetta Fendi con porte USB per la ricarica non sono però garanzia sufficiente per la serenità e il benessere personali, la pace con sé stessi e la felicità.
Da cyborg quali siamo diventati non riusciamo neppure a immaginare di essere sconnessi per colpa di una mancata ricarica cellulare o della batteria scarica del dispositivo. Ciò che manca in realtà è la possibilità di ricaricare sé stessi, di fuggire dal sé virtuale che ci siamo dati online per recuperare ciò che in realtà siamo e da cui nessuna simulazione o rappresentazione online permetterà mai di fuggire.
L’esistenza non è una simulazione online o una narrazione in digitale. Comporta il confronto continuo con sé stessi, con il proprio senso di inadeguatezza e di solitudine, con la frammentazione dei legami sociali e la percezione del proprio scacco personale. Per affrontare questa esistenza, come suggerisce il sociologo e antropologo David Breton bisogna disporre di “solide risorse interiori per adattarsi e attribuire senso e valore agli avvenimenti” in modo da recuperare fiducia in sé stessi e darsi da soli il sostegno che nessuna comunità, neppure virtuale e digitale potrà mai dare.
Le pratiche suggerite per ritrovare la carica sono innumerevoli, dallo Yoga allo Zen, dalla meditazione alla fitness e molte altre. Tutte propongono modi e strumenti per far fronte a una realtà caratterizzata da flessibilità, precarietà, velocità, urgenza, competizione e virtualità. L’obiettivo di tutte queste pratiche è aiutare a ritrovare sé stessi e il proprio orientamento, dare un significato alla vita, tenersi costantemente in movimento, alimentare la mente, riprendere il controllo del tempo e la concentrazione, rigenerarsi di continuo, consolidare affetti e relazioni nel tempo, diventare maggiormente autonomi e imparare ad adattarsi alle circostante in modo da percepirsi sempre all’altezza di ogni incombenza o sfida personale. Tutti obiettivi raggiungibili a condizione che si facciano alcune scelte.
Una è percepita come molto complicata. Comporta l’uscita dal limbo nel quale non si è nè presenti nè assenti (tipico di Facebook e del suo muro delle facce) per riconquistare la propria interiorità e viaggiare verso posti diversi da quelli digitali e virtuali della Rete. Una seconda scelta, sempre possibile anche se forse più difficile oggi, è in realtà molto semplice. Si tratta di staccare la spina, dimenticarsi della ricarica del proprio dispositivo e provare a rimanere sconnessi, senza messaggini o cinguettii, sperimentare la scomparsa dal display di contatti e amici per ricomparire a sé stessi, riconoscersi e ritrovarsi.
Questo testo è tratto dal mio ultimo ebook dal titolo 100 strategie analogiche per resistere al digitale (e allo smartphone) pubblicato nella collana Technovisions di Delos Digital.
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