Scuolabus
In questi ultimi giorni dell’anno sono stati pubblicati i risultati dell’indagine triennale Pisa, nome che non ha alcuna attinenza con la città della torre pendente ma è l’acronimo di Programme for International Student Assessment).L’indagine, condotta dall’OCSE, aspira a misurare comparativamente la preparazione scolastica degli studenti quindicenni di oltre 70 paesi,o più precisamente l’attitudine a mettere in pratica le competenze scolastiche.Si tratta di un test che comprende una prova di matematica, una di scienza e una di lettura.I risultati in questione si riferiscono alla prova del 2015: erano stati nelle linee generali anticipati a febbraio ma adesso è possibile esaminarli nel dettaglio. L’informazione italiana se ne è occupata poco e senza particolare sottigliezza nei commenti, che si sono limitati alla consueta geremiade sulla qualità dell’insegnamento e la nostra ineluttabile decadenza.
Chi ha voglia di leggere l’intero rapporto può trovarlo qui. I risultati italiani sono mediocri soprattutto nelle scienze e nella lettura di un testo. E questo ad onta del fatto che, tra scuola e casa, passerebbero 50 ore settimanali sui libri, molto più di paesi meglio piazzati (In Germania le ore sono addirittura 36).
La classifica, tutto sommato, non sorprende, poiché, per quanto ci si possa dolere del fatto che l’Italia consegua risultati sotto la media europea, la tendenza principale che ne emerge è il sorpasso asiatico e una certa corrispondenza tra il calo di centralità politica ed economica dell’Europa e la proiezione di questo declino sul rendimento scolastico.
Una valutazione seccamente comparativa, tuttavia, è un’operazione ardita. Prendiamo un paese che, in base agli esiti del test, si erge a modello, il Giappone. Intanto, è difficile prendere sul serio i dati sull’impegno che richiede lo studio. In Giappone, come abbiamo visto sopra, i ragazzi studierebbero meno di quelli italiani. Ma, ammesso che tale sia il riscontro burocratico, sappiamo come in Giappone parte integrante essenziale del sistema di educazione siano le juku, le scuole private di sostegno che gli alunni frequentano, anche fino alle undici di sera, dopo avere finito i compiti. Sui ragazzi pesa una precoce esasperazione competitiva che, oltre ai buoni vuoti, conduce dritti a nevrosi e disagi sociali ben noti in alcune società orientali. Nelle scuole giapponesi vige un rigore gerarchico e disciplinare, che non si può liquidare semplicemente come un sano criterio educativo non scalfito dalla stagione del Sessantotto. Sarebbe anche interessante sapere come si giudicherebbe in Italia l’uniforme obbligatoria fino al compimento della scuola superiore, e anche cosa penserebbero i genitori che si stanno battendo per sottrarre il loro pargolo al pasto in mensa, dell’obbligo in tenera età, di pulire i bagni (in Giappone non ci sono bidelli). In Giappone un’educazione dall’imprinting spartano si risolve, non di rado, nella pura e semplice negazione dell’infanzia e nell’omogeneizzazione dell’esperienza adolescenziale.
E’ scorretto, insomma, sganciare i risultati positivi da quello che noi considereremmo un costo umano. O si abbracciano i sistemi sociali a cui le scuole straniere fanno capo, oppure non ha tanto senso isolare il rendimento, che ha una coerente prosecuzione nel tipo di relazioni comunitarie in paesi culturalmente molto lontani dal nostro. Probabilmente se al test PISA avesse partecipato la Corea del Nord, e tra le prove ne fosse stata introdotta una di marcia militare, avremmo visto brillare pure gli studenti nordcoreani.
Anche più eclatante è il caso del leader assoluto nella classifica del PISA, Singapore: un paese di cinque milioni di abitanti che costituisce, tutt’intero, una perpetua scuola finanziaria, industriale e militare, che comincia nelle classi scolastiche e prosegue nei luoghi degli adulti.
D’altronde, il test PISA sembra concepito per quantificare la produttività economica in pectore e l’interiorizzazione dell’approccio economicistico da parte degli studenti (del resto l’OCSE è un ente di sviluppo economico: il suo orientamento non è tanto differente da quello del Fondo Monetario sulla redistribuzione del reddito negli stati paralizzati dalla recessione). Per questo la sua efficacia nel giudicare la formazione pedagogica del giovane, la sua crescita complessiva (che comprende l’equilibrio interiore, la capacità di relazionarsi non solo utilitaristicamente, e la cittadinanza) sono state contestate. E da fonti piuttosto autorevoli, inclusi il Guardian o la BBC. In Italia trovate riprese e sviluppate queste critiche su www.roars.it, un pregevole polo di opinione alternativo sulla ricerca pubblica e l’università che raduna diverse intelligenze accademiche non convenzionali.
Sarebbe tuttavia stupido finire nell’estremo opposto, e trasformare i risultati del test PISA in un vanto nazionale. Per trarne qualche ispirazione interessante conviene dare un occhio ai paesi europei che hanno conseguito i migliori piazzamenti, Estonia e Finlandia. Anche in questo caso si tratta di realtà troppo diverse per ragionare secondo i criteri del calco e della sovrapposizione: ma certo non è casuale che una, l’Estonia, sia il paese dove la digitalizzazione scolastica è stata spinta più a fondo e l’altra, la Finlandia, sia il paese nel quale le scuole private praticamente non esistono, e gli sforzi nel campo dell’istruzione si sono concentrati nell’investire le migliori risorse per rendere accessibile e creativa la scuola pubblica.
Ecco che si arriva all’eternamente deprecata scarsità di investimenti nell’istruzione. Il nostro paese, questo sì che è un dato interessante del test PISA, è l’unico che in controtendenza sta riducendo la quota di spesa pubblica destinata alla scuola e all’università (11% in meno contro un aumento del 19% nella media europea). Se si pensa alla situazione complessiva dei nostri laboratori si comprende più facilmente sia quanto gli investimenti sarebbero necessari sia perchè gli esiti della prova scientifica siano stati tanto scadenti.
Gli insegnanti non possono certo chiamarsi fuori: dal 2006 al 2016 le attitudini misurate dal PISA siano rimaste allo stesso, basso, livello. Si tratta, però, pur sempre degli stessi docenti che hanno in classe alunni extracomunitari, oppure di seconda generazione di immigrati. Ebbene, se è vero che questi studenti “performano” peggio dei nativi locali è anche vero che lo squilibrio tra i due gruppi si è notevolmente ridotto in sei anni (nonostante il raddoppio di numero degli immigrati). Come se proprio con gli studenti italiani i professori fossero più sfiduciati, generando però il medesimo sentimento negli alunni: il rapporto docente-studente viene collocato al quartultimo posto della graduatoria internazionale.
Al di là degli insegnanti, però, la classifica (come nel caso dei paesi asiatici, ma sotto un profilo diverso) rappresenta purtroppo l’intero nostro sistema sociale. Così come ha perso la funzione-guida nel ruolo della socializzazione secondaria, la scuola italiana sta vedendo appannata la sua capacità di influenzare la crescita individuale. Credo, ad esempio, che la scarsa capacità di comprendere un testo scritto sia da ascrivere all’habitat complessivo degli adolescenti molto più che allo specifico scolastico.
E’ in questi termini che siamo di fronte a un dramma nazionale. Come tale l’ha trattato la Francia, che pure occupa nella graduatoria del rapporto una posizione migliore della nostra: le pagine dei quotidiani, a partire dalla prima, erano piene di interrogativi laceranti. Sono rimasto impressionato dalla rassegnata indifferenza mediatica che il rapporto ha suscitato nel nostro paese. Entro certi limiti, se ne può prendere una distanza critica. Ma mi sarei aspettato passione e ragionamenti. Un paese che sta morendo non è solo quello in cui non nascono bambini ma anche quello in cui si trascura il futuro di quelli che vi sono nati.
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