Il modello sportivo nazionale trova una sua incarnazione nel tennista Adriano Panatta. Figlio del custode del circolo Parioli a Roma, il ragazzo possiede riflessi eccezionali ma un fisico assai esile. Riesce a irrobustirlo in maniera accettabile a Formia, presso il Centro federale, sotto la guida del burbero e schivo mentore Mario Belardinelli, sacrificandosi sino a piangere per la fatica. Nel 1970 coglie il primo successo importante, battendo Pietrangeli nella finale dei campionati italiani. Comincia a ben figurare all’estero con uno spumeggiante gioco d’attacco, nel quale i pezzi forti sono il servizio e il gioco di volo. Da fondo campo, invece, palleggia con fatica, nonostante il buon tocco, perché alla lunga gli spostamenti laterali gli riescono penosi. A dimostrazione delle sue carenze fisiche, Panatta, al contrario di tutti i migliori giocatori d’attacco, si trova più a suo agio sui campi in terra rossa che non su quelli veloci, poiché su questi ultimi la rapidità della palla non gli dà il tempo di prendere la giusta posizione a rete. Nel 1976 giunge il suo anno d’oro: vince gli internazionali d’Italia e quindici giorni dopo gli internazionali di Francia; a fine anno conduce la nazionale al primo successo in Coppa Davis, pur macchiato da alcune polemiche sull’opportunità politica di disputare la finale col Cile, delle quali riferiremo più avanti. Oltre che da lui, la squadra è composta da Corrado Barazzutti, un pallettaro tenace capace di ribattere per ore e ore dall’altro lato, dal doppista Paolo Bertolucci, un prodigio di tecnica appesantito da una pinguedine inverosimile per uno sportivo, e dal bravo e modesto Tonino Zugarelli.
Panatta, con la raffinatezza dei colpi e l’intermittenza della concentrazione, è indubbiamente capace di trasformare uno sport antieroico come il tennis in un”epopea. A Roma, nel primo turno degli internazionali vinti, per ben undici volte si trova a giocare un punto che, se concluso a favore dello sconosciuto avversario australiano, determinerebbe per lui la sconfitta e l’immediata eliminazione e per undici volte (anche in situazioni di 1-5 nel set o di 0-40 nel game) trova un colpo in acrobazia che rimette in discussione l’incontro. Al primo turno di Parigi fa pressoché la stessa cosa contro un altro carneade. Ecco poi il racconto di un punto-tipo nella finale di Roma contro il quotatissirno argentino Vilas: su un passante del sudamericano Panatta si tuffa sul campo per eseguire una volée di diritto, Vilas recupera e tenta di scavalcarlo con un pallonetto a cui Panatta, rialzatosi, rimedia con una volée alta di rovescio (la cosiddetta veronica) per chiudere con un’altra volée incrociata di diritto sul nuovo passante dell’argentino. Il tennista azzurro trova sempre qualche colpo che ricompensa gli spettatori del prezzo del biglietto: memorabile, nel 1979, in una partita stravinta in Davis con l’allora giovane Lendl (poi diventato il numero uno del mondo), una battuta smorzata, appena al di là della rete, successiva a una lunga serie di servizi potenti che avevano indotto Lendl a tenersi un paio di metri oltre la linea di fondo.
Raggiunto l’apice, tuttavia, Panatta perde la voglia di allenarsi e di soffrire. La sua popolarità non ne risente, anzi s’incrementa perché lo si considera pur sempre l’uomo di qualsiasi impresa, capace, nel giorno di grazia, di annientare qualunque avversario, ciò che alimenta l’amore e la fantasia dei suoi tifosi. L’impresa, in realtà, non arriva mai perché il delicato tono muscolare non la consente, il grande successo diventa ogni giorno probabile quanto la venuta dell’Anticristo. Ma Panatta piace così. Anche le cifre della Davis, assai peggiori di quelle riguardanti tennisti meno dotati e famosi, testimoniano la sua scarsa affidabilità: vince 37 volte, contro 26 sconfitte, 15 delle quali per mano di giocatori peggio collocati nelle classifiche e all’estero perde 17 volte su 27. E un perdente, ma di quelli che entusiasmano, perché lo è quasi per scelta, in nome di
un’indiscussa superiorità potenziale.
Panatta si proclama fiero delle sue scelte agonistiche, fedele a una considerazione dello sport come qualcosa che non può assorbire in toto la personalità dell’individuo, quasi richiamandosi ai valori agonistici primordiali e genuini. Però, da abile monetizzatore, è tra i più solerti nel favorire la decadenza dello sport classico di cui si fa paladino, dedicandosi a esibizioni insignificanti dal punto di vista tecnico e buone solo a incrementare il portafoglio di chi vi si cimenta. Da buon italiano-modello, si farebbe ammazzare per i principi, però modella i principi a proprio uso e consumo. Ogni tanto ha un impeto di sentimentalismo, che dovrebbe contribuire a frenare la crescente aridità umana degli eventi agonistici, ma la facilità al compromesso del nostro paese fa cadere quegli impulsi nel patetico. Nel 1979 muore in un incidente d’auto Bitti Bergamo,
capitano della squadra di Davis, che aveva sostituito il mal digerito Pietrangeli nel ruolo, peraltro quasi simbolico dato che l’unica persona che i giocatori ascoltano, in campo e fuori, è Belardinelli. L’Italia è arrivata in finale e Crotta prende il posto dello sventurato predecessore. Panatta propone però che, in segno di lutto, Crotta resti fuori dal campo e la sedia che era di Bergamo rimanga vuota. Alla fine ci si accorda per due sedie, una delle quali Crotta cede ai giocatori al momento del cambio di campo, restando in piedi.
Il Panatta-cult determina nel giro di soli due anni, dal 1976 al 1978, una triplicazione dei tesserati. A ruota seguono i campi. Nascono nuovi circoli dove, a fronte di rette spesso sconsiderate, sei o sette ragazzi vengono allineati da una parte del campo e allenati collettivamente per un’ora senza logicamente imparare nulla. I prezzi dei materiali salgono alle stelle e nemmeno l’amatore di in» firma categoria riesce a sottrarsi al fascino della racchetta firmata.
Ciononostante il tennis, da un punto di vista tecnico, muore. I ragazzini che appena raggiungono un po’ di dimestichezza con i colpi vengono già sedotti dalla firma di contratti pubblicitari e si comportano come piccoli divi, sono risospinti rapidamente nell’anonimato. La stagione d’oro si conclude immediatamente, affondata anche a causa della cattiva amministrazione della federazione, nella quale il presidente Galgani si preoccupa solo di assicurarsi la permanenza alla carica. Ci mette il suo anche Panatta che già era stato carente nel proporsi come caposcuola e, che dal punto di vista comportamentale, non era un modello atletico consigliabile: promosso a incarichi federali, regala qualche intuizione degna dei suoi colpi nelle scelte dei giocatori di Davis, ma per il resto segue poco e svogliatamente le giovani leve, preferendo partecipare con successo a gare di off-shore.
L’Italia non esprime più un campione e offre qualche soddisfazione solo nella Coppa Davis, che ormai però è snobbata dai più forti. Il tennis, intanto, subisce modifiche nel gioco che ne riducono l’attrattiva spettacolare. Al tempo di Panatta, che rappresentava sotto tale profilo un tennista piacevolmente atipico, il problema erano i troppi incontri giocati noiosamente da fondo campo, con palle rese insidiose da una rotazione che le faceva passare ampiamente sopra la rete. Negli anni novanta ciò che mina la piacevolezza del gioco è l’inaudita potenza raggiunta dalle battute che, sui campi veloci, riducono lo scambio sino all’annullamento.
Se vuoi leggere l’intero capitolo anche con la parte sociologica
È in via di estinzione il timore intellettuale che l’enucleazione di caratteri nazionali italiani costituisca nulla più che una grossolana semplificazione. Naturalmente sostenere che i tedeschi sono fatti in un certo modo, i francesi in un altro e gli italiani in un altro ancora, non vuol dire che il «tipo» trovi rispondenza, ancorché parziale, in tutti i cittadini e, uniformemente, senza varianti regionali né che esistano predisposizioni genetiche in tal senso. Ma i caratteri nazionali ricevono, perlomeno a livello di tendenze, un riscontro reale sotto un profilo oggettivo e uno soggettivo. Oggettivo, in quanto sedimentazioni di esperienze storiche che debbono pur avere lasciato tracce nell’interiorizzazione di abitudini e costumi e nella mentalità (per l’Italia la lunga dominazione straniera, la frammentazione, la presenza della Chiesa, la mancanza della riforma protestante). Soggettivo dato che, una volta consolidatisi nell’immaginario collettivo i tratti del gruppo nazionale, i membri del gruppo stesso tendono inconsciamente a confermarli e ad autorappresentarsi aderentemente allo stereotipo.
Tra le peculiarità nazionali italiane, spicca sicuramente il gusto dell’autodenigrazione. Tutti i popoli (forse a eccezione dei russi, se crediamo alla testimonianza di Tolstoj in Anna Karenina) nel descriversi, offrono di sé un’immagine elogiativa, gli italiani apparentemente no. Qualcuno afferma che chi censura spietatamente i dati essenziali dell’italianità intende in realtà tirarsene fuori, sottintendendo (o rendendo comprensibile) che italiani con il loro bagaglio di mammismo/superficialità/immoralità, sono gli altri. Una diversa opinione indugia sull’ipotesi che l’amore per la straordinarietà si appaghi anche di un’eccezionalità di tipo negativo.
Una soluzione più corretta, probabilmente, si ricava evidenziando che quelle che vengono menzionate come tare sono in realtà vizi virtuosi. Dietro l’autocritica si cela un orgoglioso compiacimento, consentito dal fatto che quei difetti presentano un’ambiguità di fondo che permette di ribaltarli in indici rivelatori di una felice e originale filosofia di vita. Un ottimo esempio è l’allergia alle regole e all’autorità, della quale non si manca mai di richiamare il rovescio della medaglia: una sana flessibilità, una vitale energia creativa che favorirebbe, alla fin fine, un approccio gioioso ed equilibrato all’esistenza.
Per meglio intendere la natura dei nostri vizi virtuosi, è necessario risalire a quei caratteri nazionali che sono, in un certo senso,la radice da cui si diparte l’albero genealogico di tutti gli altri. Si tratta del talento e deIl’improvvisazione, talora chiamati in modi diversi, ad esempio genialità e arte di arrangiarsi. Dalla fioritura di geni dell’arte pittorica, architettonica e letteraria nella penisola, tra il Trecento e il Cinquecento, gli italiani e gli stranieri hanno ricavato la convinzione che il nostro paese si distingua per un surplus di estro, fantasia, creatività.
Gli italiani, tuttavia, non hanno, con questo, rivendicato una sorta di superiorità etnica. Anzi, non di rado si riconosce che altri popoli pervengono, nei vari campi della scienza, a risultati pari o superiori. Solo che per farlo debbono impegnarsi duramente, mentre agli italiani è sufficiente uno sforzo minimo, razionato più che razionale, riservato a momenti d’eccezione.
Non interessa qui discutere se simili convinzioni abbiano un fondamento o siano completamente campate in aria. Ciò che conta è che gli italiani si sono adeguati a questa raffigurazione di sé e vi si sono pienamente riconosciuti con assoluta gratificazione, sviluppando come corollario ad essa schemi di azione riconducibili all’improvvisazione, che ci sarebbe consentita, e magari suggerita, dal talento. Possiamo dire, per richiamare quanto accennato prima, che il talento è l’aspetto dominante della nostra auto rappresentazione soggettiva e il metodo dell’improvvisazione l’aspetto più significativo del nostro comportamento sul piano oggettivo.
Se si trattasse di un individuo sottoposto a terapia analitica, dovremmo riconoscere in tutto ciò una patologia. Esiste un forte desiderio di competizione, manifestato dalla rivendicazione di un primato, quello del talento. Ma c”è anche una paura della competizione medesima, un’insicurezza che consiglia di astenersi dal confronto reale per appagarsi del successo potenziale. Non interessa essere i primi, ma piace pensare che lo si sarebbe, se soltanto lo si volesse. Gli italiani sono innamorati dell’exploit che ne conferma le potenzialità e si Scansano dinanzi alla continuità, per la quale palesano sprezzante disinteresse. Come ha scritto il critico letterario Alfonso Berardinelli «ci manca la mediocrità, la buona tenuta, la buona esecuzione di atti quotidiani, comuni e medi. Siamo troppo creativi in cose che richiederebbero molto meno. Facciamo sempre teatro. Inventiamo cavilli, intrighi, scappatoie, diversivi, manovre. Inventiamo la realtà di continuo. Credere che una qualche realtà già esista prima di noi ci sembra avvilente e faticoso». Che nei settori più disparati – l’economia, la politica, lo sport, l’assetto televisivo – si parli di «anomalia italiana» ci riempie di vanto, poiché ci pare una prova della disarmonia tra il talento eccelso e il mediocre impegno, tra un esuberante e dirompente vitalismo e il dazio meschino che, nella moneta di un piatto civismo, si dovrebbe pagare alla comunità.
I rami dei nostri caratteri nazionali si sviluppano da queste radici. in effetti alcuni di loro sembrano muoversi su un piano di esemplare conseguenzialità: per esempio la simpatia e l’edonismo. Gli italiani desiderano fortemente essere simpatici, anche al loro peggior nemico. Simpatico è, per antonomasia, chi è allegro. E come non essere allegri se si è beneficiari dalla natura e si gode nell’animo la rilassatezza di colui che può raggiungere i suoi obiettivi senza troppa fatica? Simpatico È anche chi non prende le cose troppo sul serio: se è vero che l’italiano non coltiva con dedizione le sue doti naturali, egli non prende evidentemente sul serio nemmeno se stesso. Figurarsi gli altri. Figurarsi le parate fasciste. Figurarsi le tasse.
E se il talento naturale lo spinge a pronunciare un deciso no al sacrificio, non gli resta che approdare alla sponda opposta, alla piacevole leggerezza, alla gaudente gioia di vivere nelle forme immanenti del sesso, del vestiario, della tavola, del viaggio, attività nelle quali gli italiani vengono considerati impareggiabili.
Anche se pensiamo all’individualismo, al familismo, alla mancanza di rispetto dell’autorità pubblica e delle norme – che trovano di certo pregnanti giustificazioni nelle vicende storiche o persino in letture psicoanalitiche, come quella che rimarca le carenze nazionali della figura paterna – non possiamo negare che su di esse il binomio talento/improvvisazione ha lasciato un segno indelebile. Il talento è una luce interiore che non ammette collettivizzazione, è una risorsa riducibile solo all’individuo o al massimo alla famiglia la quale, in virtù del suo apporto a mezzo della consanguineità, è l’unico nucleo che può legittimamente condividerlo e sopportarlo. D’altronde, l’autorità e le regole lo imbriglierebbero, lo costringerebbero in un torpore anestetico, incongrue come sono – nella loro pretesa di astrattezza e universalità – a confrontarsi con la casistica infinita che la sgorgante improvvisazione precipita a cascata sull’umanità. Ed è una casistica naturalmente destinata alla superiorità, anche numerica, rispetto all’angustia legislativa, tant’è che «fatta la legge, trovato l’inganno» (massima che non risulta essere stata mai scandita in altri luoghi del globo terrestre).
Proseguendo nel gioco delle ramificazioni, possiamo notare come l’improvvisazione non ammetta una programmazione di lungo periodo: apprezza più la furbizia dell’intelligenza (ulteriore topos italico). La cadenza programmatica di breve periodo e il naturale reiventarsi dell’improvvisazione non lasciano spazio alla coerenza, aprono le porte alla contraddizione. Contraddizione vuol dire doppiezza. E la doppiezza ci conduce al trasformismo, al gattopardismo, al machiavellismo.
ln questa sede, il richiamo ai caratteri nazionali ci serviva perché, a partire dagli anni settanta, anche lo sport diventa una casa idonea a ospitare, coccolare, ingigantire l’immagine della tipologia italiana. Fino alla fine degli anni sessanta, i campioni erano amati ma non si pensava che offrissero un’immagine autentica del paese. Anzi, si confidava in loro affinché confutassero quella diffusa, uscita piuttosto malconcia dalla guerra. Il campione era venerato ma pochi si riconoscevano in lui o in lui si proiettavano. Coppi era adorato ma nessuno avrebbe voluto essere come lui, con il suo animo malinconico, con la sua sfortuna endemica. La delega di rappresentanza offerta agli atleti, che trovava un precedente solo nel catenaccio delle squadre di calcio – fortemente sentito come specchio di alcuni aspetti del carattere nazionale – testimonia il salto di qualità, in termini di partecipazione emotiva ed identità, compiuto dallo sport negli anni settanta. Fra l’altro, per sua natura, lo sport sembrava pronto ad accogliere e valorizzare proprio quei dati che gli italiani attribuiscono alla propria appartenenza nazionale: il talento e l’improvvisazione vi occupano un posto determinante, più che in altre attività umane.
Lo sportivo ideale diventa chi potrebbe essere uno dei nostri, un atleta al quale non tanto si chiede di vincere quello che c’è da vincere quanto di offrire l’illusione che, se volesse, non perderebbe mai. Nello stereotipo sportivo nazionale, la classe del predestinato e l’astuzia predatoria sono preferite alla generosità operaia e alla rabbia agonistica, l’inventiva estemporanea alla dedizione e al sacrificio, la potenzialità alla continuità. Il campione ideale si allena poco o, se si allena, si vergogna a dirlo, è furbo, apparentemente si diverte, sorride spesso. Solo ad anni ottanta avanzati, quest’idillio s’incrinerà, sostituito da un più contrastato odio/amore, in quanto i crescenti e vertiginosi guadagni degli sportivi rendono irritante che essi centellinino il sudore.
Proprio negli anni settanta il modello sportivo nazionale trova una sua incarnazione nel tennista Adriano Panatta. Figlio del custode del circolo Parioli a Roma, il ragazzo possiede riflessi eccezionali ma un fisico assai esile. Riesce a irrobustirlo in maniera accettabile a Formia, presso il Centro federale, sotto la guida del burbero e schivo mentore Mario Belardinelli, sacrificandosi sino a piangere per la fatica. Nel 1970 coglie il primo successo importante, battendo Pietrangeli nella finale dei campionati italiani. Comincia a ben figurare all’estero con uno spumeggiante gioco d’attacco, nel quale i pezzi forti sono il servizio e il gioco di volo. Da fondo campo, invece, palleggia con fatica, nonostante il buon tocco, perché alla lunga gli spostamenti laterali gli riescono penosi. A dimostrazione delle sue carenze fisiche, Panatta, al contrario di tutti i migliori giocatori d’attacco, si trova più a suo agio sui campi in terra rossa che non su quelli veloci, poiché su questi ultimi la rapidità della palla non gli dà il tempo di prendere la giusta posizione a rete. Nel 1976 giunge il suo anno d’oro: vince gli internazionali d’Italia e quindici giorni dopo gli internazionali di Francia; a fine anno conduce la nazionale al primo successo in Coppa Davis, pur macchiato da alcune polemiche sull’opportunità politica di disputare la finale col Cile, delle quali riferiremo più avanti. Oltre che da lui, la squadra è composta da Corrado Barazzutti, un pallettaro tenace capace di ribattere per ore e ore dall’altro lato, dal doppista Paolo Bertolucci, un prodigio di tecnica appesantito da una pinguedine inverosimile per uno sportivo, e dal bravo e modesto Tonino Zugarelli.
Panatta, con la raffinatezza dei colpi e l’intermittenza della concentrazione, è indubbiamente capace di trasformare uno sport antieroico come il tennis in un”epopea. A Roma, nel primo turno degli internazionali vinti, per ben undici volte si trova a giocare un punto che, se concluso a favore dello sconosciuto avversario australiano, determinerebbe per lui la sconfitta e l’immediata eliminazione e per undici volte (anche in situazioni di 1-5 nel set o di 0-40 nel game) trova un colpo in acrobazia che rimette in discussione l’incontro. Al primo turno di Parigi fa pressoché la stessa cosa contro un altro carneade. Ecco poi il racconto di un punto-tipo nella finale di Roma contro il quotatissirno argentino Vilas: su un passante del sudamericano Panatta si tuffa sul campo per eseguire una volée di diritto, Vilas recupera e tenta di scavalcarlo con un pallonetto a cui Panatta, rialzatosi, rimedia con una volée alta di rovescio (la cosiddetta veronica) per chiudere con un’altra volée incrociata di diritto sul nuovo passante dell’argentino. Il tennista azzurro trova sempre qualche colpo che ricompensa gli spettatori del prezzo del biglietto: memorabile, nel 1979, in una partita stravinta in Davis con l’allora giovane Lendl (poi diventato il numero uno del mondo), una battuta smorzata, appena al di là della rete, successiva a una lunga serie di servizi potenti che avevano indotto Lendl a tenersi un paio di metri oltre la linea di fondo.
Raggiunto l’apice, tuttavia, Panatta perde la voglia di allenarsi e di soffrire. La sua popolarità non ne risente, anzi s’incrementa perché lo si considera pur sempre l’uomo di qualsiasi impresa, capace, nel giorno di grazia, di annientare qualunque avversario, ciò che alimenta l’amore e la fantasia dei suoi tifosi. L’impresa, in realtà, non arriva mai perché il delicato tono muscolare non la consente, il grande successo diventa ogni giorno probabile quanto la venuta dell’Anticristo. Ma Panatta piace così. Anche le cifre della Davis, assai peggiori di quelle riguardanti tennisti meno dotati e famosi, testimoniano la sua scarsa affidabilità: vince 37 volte, contro 26 sconfitte, 15 delle quali per mano di giocatori peggio collocati nelle classifiche e all’estero perde 17 volte su 27. E un perdente, ma di quelli che entusiasmano, perché lo è quasi per scelta, in nome di un’indiscussa superiorità potenziale.
Panatta si proclama fiero delle sue scelte agonistiche, fedele a una considerazione dello sport come qualcosa che non può assorbire in toto la personalità dell’individuo, quasi richiamandosi ai valori agonistici primordiali e genuini. Però, da abile monetizzatore, è tra i più solerti nel favorire la decadenza dello sport classico di cui si fa paladino, dedicandosi a esibizioni insignificanti dal punto di vista tecnico e buone solo a incrementare il portafoglio di chi vi si cimenta. Da buon italiano-modello, si farebbe ammazzare per i principi, però modella i principi a proprio uso e consumo. Ogni tanto ha un impeto di sentimentalismo, che dovrebbe contribuire a frenare la crescente aridità umana degli eventi agonistici, ma la facilità al compromesso del nostro paese fa cadere quegli impulsi nel patetico. Nel 1979 muore in un incidente d’auto Bitti Bergamo,
capitano della squadra di Davis, che aveva sostituito il mal digerito Pietrangeli nel ruolo, peraltro quasi simbolico dato che l’unica persona che i giocatori ascoltano, in campo e fuori, è Belardinelli. L’Italia è arrivata in finale e Crotta prende il posto dello sventurato predecessore. Panatta propone però che, in segno di lutto, Crotta resti fuori dal campo e la sedia che era di Bergamo rimanga vuota. Alla fine ci si accorda per due sedie, una delle quali Crotta cede ai giocatori al momento del cambio di campo, restando in piedi.
Il Panatta-cult determina nel giro di soli due anni, dal 1976 al 1978, una triplicazione dei tesserati. A ruota seguono i campi. Nascono nuovi circoli dove, a fronte di rette spesso sconsiderate, sei o sette ragazzi vengono allineati da una parte del campo e allenati collettivamente per un’ora senza logicamente imparare nulla. I prezzi dei materiali salgono alle stelle e nemmeno l’amatore di in» firma categoria riesce a sottrarsi al fascino della racchetta firmata.
Ciononostante il tennis, da un punto di vista tecnico, muore. I ragazzini che appena raggiungono un po’ di dimestichezza con i colpi vengono già sedotti dalla firma di contratti pubblicitari e si comportano come piccoli divi, sono risospinti rapidamente nell’anonimato. La stagione d’oro si conclude immediatamente, affondata anche a causa della cattiva amministrazione della federazione, nella quale il presidente Galgani si preoccupa solo di assicurarsi la permanenza alla carica. Ci mette il suo anche Panatta che già era stato carente nel proporsi come caposcuola e, che dal punto di vista comportamentale, non era un modello atletico consigliabile: promosso a incarichi federali, regala qualche intuizione degna dei suoi colpi nelle scelte dei giocatori di Davis, ma per il resto segue poco e svogliatamente le giovani leve, preferendo partecipare con successo a gare di off-shore.
L’Italia non esprime più un campione e offre qualche soddisfazione solo nella Coppa Davis, che ormai però è snobbata dai più forti. Il tennis, intanto, subisce modifiche nel gioco che ne riducono l’attrattiva spettacolare. Al tempo di Panatta, che rappresentava sotto tale profilo un tennista piacevolmente atipico, il problema erano i troppi incontri giocati noiosamente da fondo campo, con palle rese insidiose da una rotazione che le faceva passare ampiamente sopra la rete. Negli anni novanta ciò che mina la piacevolezza del gioco è l’inaudita potenza raggiunta dalle battute che, sui campi veloci, riducono lo scambio sino all’annullamento.
Estratto (da “Storia e storie dello sport in Italia“)
Nuvolari, Mussolini, Coppi, il miracolo economico, Maradona, la borghesia di inizio secolo, i caratteri degli italiani, il Coni, l’alpinismo, il doping, la violenza negli stadi… In questo libro, dai primi passi nell’Ottocento fino alla fine degli anni Novanta, lo sport viene trattato come osservatorio privilegiato per la comprensione di fenomeni sociali e culturali e fotografia della vita nazionale. Ma Storia e storie dello sport è anche una specie di romanzo collettivo in cui gli atleti e i personaggi sono narrati nei loro dati umani e tecnici, essenziali o piacevolmente inessenziali.
Scrivi un commento