Gli atleti non esauriscono la popolazione del mondo sportivo, anzi forse non ne sono nemmeno la maggioranza. Attorno a loro ruota tutta una serie di personaggi, deputata a finanziare, migliorare, consentire, incoraggiare la prestazione agonistica. Sorvolando su cronometristi, massaggiatori e altre figure degnissime ma irrilevanti ai fini di questa analisi, vale la pena di concentrare l’attenzione su arbitri, allenatori e dirigenti. Costoro, ripetiamo l’espressione usata poche righe sopra, ruotano attorno all’atleta: il loro compito è di averne cura; senza di lui la loro funzione non avrebbe ragione di esistere. L’atleta dalla loro presenza riceve vantaggio e facilitazione: però potrebbe, al limite, fare da solo. Lo sport esiste affinché ci siano atleti che gareggino e vincano, non affinché ci siano allenatori che allenino o arbitri che arbitrino. Allenatori, arbitri e dirigenti sono figure strumentali allo svolgimento dell’attività sportiva e operano al di fuori dell’elemento causale.
La loro subalternità e dipendenza dall’atleta è evidentissima e può spingerli all’invidia. Sono di solito ex atleti, oramai estromessi dal palcoscenico principale, o mancati atleti, che su quel palcoscenico avrebbero voluto almeno una volta esibirsi. La loro posizione materiale rispetto all’atleta è di supporto; ma psicologicamente è di competizione, poiché ambiscono a sottrarre all’atleta la sua assoluta centralità. Di frequente si sentono allenatori parlare come se avessero realizzato la performance al posto dell’atleta; o gli arbitri ricordare, come momento topico dell’incontro sportivo, una loro decisione.
Se è vero che l’atleta è il signore della prestazione sportiva, è però vero pure che egli, nel mondo sportivo, è l’unico a non essere investito di un’autorità. Tutte le figure indicate esercitano un’autorità nei confronti dell’atleta. L’arbitro determina l’andamento della gara e può applicare sanzioni nei confronti del disubbidiente; l’allenatore ha l’autorità sull’indottrinamento tecnico-tattico, con una capillarità che nei casi estremi può investire anche la vita privata, e negli sport di squadra stabilisce a chi togliere temporaneamente lo status di atleta relegandolo a rincalzo al momento di scegliere la formazione; il dirigente determina i tempi e le modalità organizzative della preparazione, attraverso il tesseramento e il finanziamento delle trasferte condiziona tutta la stagione e forse la vita agonistica dell’atleta.
Un altro tassello per la comprensione del mondo periatletico è dato dal fatto che, al di fuori degli sport professionistici, coloro che svolgono l’attività di arbitro, allenatore o dirigente non lo fanno a tempo pieno ma esercitano un altro lavoro, il più delle volte di tipo impiegatizio o marginalmente professionale poiché diversamente, per l’organizzazione sociale corrente che ha la nostra vita, non avrebbero il tempo per dedicarsi assiduamente allo sport. Essi spesso non traggono completa soddisfazione dalla vita lavorativa e da quella privata e si avvicinano allo sport con una forte necessità di compensazione, richiedendo ad esso quella quota di autorità e decisione della quale magari non dispongono durante il resto della giornata.
Riassumiamo: essi, già bisognosi di compensazioni, sono subalterni rispetto all’atleta sotto il profilo causale e ciò accresce la loro frustrazione, cosicché il rapporto con l’atleta è di amore-odio, oscillante tra la proiezione/immedesimazione nell’atleta e la separazione conflittuale in funzione riaffermativa dell’identità. D’altronde, godono di autorità nei confronti dell’atleta e ciò è pericoloso perché l’autorità è esercitata, partendo da una condizione di frustrazione, nei confronti della stessa persona che suscita quella frustrazione. Il risultato finale è che l’ambiente sportivo periatletico, cioè il mondo che circonda quello strettamente degli atleti, è caratterizzato da forte instabilità, ha come connotato dominante la frustrazione ed è attraversato da comportamenti vagamente schizoidi. Non è un ambiente sano, sovente sconfina nel fanatismo, nella monomania e nell’infantilismo, non nasce dalla spinta contemporanea di diverse identità ma è piuttosto il frutto distorto della interazione fra identità scisse e fortemente represse.
L’arbitro è il protagonista di una duplice utopia: la neutralità e l’antieroismo. L’arbitro deve essere il solo soggetto neutrale di una manifestazione che, per sua natura, spinge all’emozione, alla divisione, alla faziosità. Questo annullamento della personalità avviene in una situazione nella quale la sua personalità è chiamata a rispondere con tutte le risorse a forti pressioni dell’ambiente esterno. All’arbitro si chiede di collocarsi al polo opposto dell’atleta: di non mettersi in evidenza, di comparire solo quando strettamente necessario, di essere antieroe. Però egli è il capro espiatorio naturale, l’unico nemico riconosciuto di tutti i presenti, il bersaglio del pubblico per sfogare il proprio disappunto emotivo, dell’atleta per liberarsi delle proprie responsabilità. Una situazione, in certi momenti, sostenibile solo con uno spirito eroico. Tale contraddizione espone l’arbitro al rischio che deforma la correttezza della funzione: ergersi a protagonista. È quasi meglio, sotto il profilo della trasparenza, quando tale contrasto viene alla luce platealmente, quando il rifiuto della subalternità viene rivendicato con plateale senso di sfida: il modello di quest’ultima concezione è stato il famoso arbitro di calcio Concetto Lo Bello.
Nella definizione di allenatore rientrano, volendo per semplicità prescindere da ulteriori diramazioni (direttore tecnico, preparatore specialistico ecc.), almeno due figure, tanto diverse che non sempre chi è abile in un ruolo si destreggia altrettanto bene nell’altro: il maestro e l’allenatore. Riprendendo lo slogan pubblicitario di una nota marca di pomodori pelati, potremmo affermare che il primo crea e il secondo conserva. Il maestro insegna i movimenti e le circostanze in cui applicarli; l’allenatore lavora su atleti che hanno assimilato la tecnica ma fa in modo che essi non la disperdano e anzi la mettano in pratica con crescente facilità. Il primo deve possedere cognizioni o istinti educativi che trascendano il campo strettamente tecnico, profili che interessano meno l’allenatore in senso stretto, benché questi pure non possa prescindere dalle attitudini personali e caratteriali dell’atleta. L’allenatore (riprendendo a usare il termine nella sua genericità) deve avere la capacità di stabilire una comunicazione con l’atleta e non considerare la lezione o l’allenamento come un percorso unidirezionale. Il bravo allenatore si mette in discussione e si modifica per ogni atleta, secondo un modello simile a quello dell’analisi junghiana. Il cattivo allenatore lavora sull’atleta-marionetta, nel quale cerca una stanca ripetizione degli schemi che conosce e reputa superiori. Ciò è uno sbaglio, spesso tecnico, sempre umano.
Gli allenatori degli sport dilettantistici sono i personaggi più stressati dell’intero ambiente sportivo, anche perché sovente mal retribuiti, poco sindacalizzati, non sufficientemente tutelati da una normativa che consente facili aggiramenti all’obiettivo di un corretto inquadramento professionale. Le federazioni sportive non di rado li aizzano l’uno contro l’altro, sfruttandone l’instabilità e approfittando della loro disomogeneità culturale (derivante dal fatto che, militando in un altro ambiente lavorativo, hanno le estrazioni più disparate), e riducendoli a contendersi gli atleti come i cani l’osso. L’insoddisfazione dei maestri fa sì che il sentimento che li accompagna e li opprime sia quello del senso d’ingratitudine.
Dirigenti si diventa per una di queste tre ragioni: passione, gusto per l’esercizio di un potere, avere un figlio che pratica quella disciplina. I dirigenti per pura passione e divertimento sono purtroppo il gruppo minoritario anche perché, ossessionati dal fanatismo degli altri due gruppi, finiscono per stancarsi e abbandonare l’ambiente. Coloro che si inebriano per una carica dirigenziale, arrivando a ritenerla un punto d’arrivo esistenziale, vogliono il potere solo di rado per trarne un vantaggio in termini economici; per lo più li spinge il gusto del potere per il potere, che è il più pericoloso e nocivo tra tutti, specie quando è rivolto a sfere minime. La normativa delle federazioni, spudoratamente filosocietaria, favorisce tale perniciosa libido, consentendo che il dirigente possa obbligare un atleta a gareggiare per la sua società, anche se non desidera più farlo, o impedirgli la partecipazione a qualche gara. In questo tipo di dirigenti gli aspetti patologici sono marcati. Ci sono infine i dirigenti-genitori: è possibile che, entrati nell’agone per sostenere la causa del figlio, quando questi si stanca dell’agonismo o si rivela inidoneo al medesimo, continuino la militanza trasferendosi nella prima o, più spesso, nella seconda delle categorie che abbiamo indicate. Che un genitore attribuisca importanza e attenzione all’attività sportiva del figlio è un fatto educativamente fondamentale, che rafforza la sicurezza del ragazzo. Diverso è che il genitore arrivi a interferire nell’attività, alitando sul collo del discendente e trasformando un divertimento in una prova del nove della stima genitoriale. Anche se capita che un genitore che ha fatto brillantemente sport in gioventù esiga che il figlio riaffermi i diritti della stirpe e ne prosegua i successi, il caso più diffuso è quello inverso, per il quale il figlio è lo strumento di riscatto del genitore insoddisfatto e sfornito di un palmarès atletico. In questi casi il genitore si serve del figlio per vivere ciò che in gioventù, per sua inettitudine o severità della famiglia, gli è stato precluso. Abbiamo visto volare improperi e schiaffoni verso il figlio degenere che si faceva eliminare da una gara, mettere bronci che andavano a scavare come ruspe nella psiche del ragazzo, distribuire consigli tecnici sostituendosi agli allenatori accusati di essere troppo lassisti. Qualche genitore è arrivato al punto di prendere lezioni in una disciplina per poterla personalmente insegnare al figlio. Quando il genitore arriva a punire il figlio-atleta in realtà gli insegna una cosa soltanto: che quando lui vorrà punire papà e mamma e ferirli profondamente non dovrà far altro che perdere, oggi in gara, domani nella vita; egli apprende l’autodistruzione come modalità risolutiva del conflitto con i genitori.
Estratto (da “Storia e storie dello sport in Italia“)
Nuvolari, Mussolini, Coppi, il miracolo economico, Maradona, la borghesia di inizio secolo, i caratteri degli italiani, il Coni, l’alpinismo, il doping, la violenza negli stadi… In questo libro, dai primi passi nell’Ottocento fino alla fine degli anni Novanta, lo sport viene trattato come osservatorio privilegiato per la comprensione di fenomeni sociali e culturali e fotografia della vita nazionale. Ma Storia e storie dello sport è anche una specie di romanzo collettivo in cui gli atleti e i personaggi sono narrati nei loro dati umani e tecnici, essenziali o piacevolmente inessenziali.
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