Il ciclismo di inizio secolo vedeva i corridori divisi in due categorie: quelli che avevano una squadra e quelli che non l’avevano, i cosiddetti isolati. Costoro gareggiavano a proprie spese, non sempre trovavano da dormire in un posto minimamente confortevole, non ricevevano lo stipendio ma si mantenevano con i premi e le collette dei compaesani. Gli isolati costituirono a lungo la regola più che l’eccezione, tant’è vero che nel 1930 al Giro d’Italia erano in 96, a fronte di 31 «accasati». Man mano che andò scomparendo la figura dell’isolato, fece la sua apparizione quella del gregario. L’etimologia dice già tutto: grex, da gregge. I francesi, ancora più espliciti, dicevano domestique. Gregari erano chiamati i non graduati dell’esercito. Il ciclista gregario è al servizio di un altro corridore, sulla carta più bravo. Sopporta nei tasconi il peso dei viveri destinati al capitano, offre la sua bicicletta se questi buca una ruota, lo ripara dal vento e dalla resistenza dell’aria pedalandogli davanti, lo aspetta se è in difficoltà, scatta a riprendere i fuggitivi, gli «tira la volata». Il gregario è una figura assolutamente atipica nella filosofia dello sport, la quale esige normalmente che ognuno gareggi per vincere o, al massimo, per far vincere la squadra. Come acutamente è stato osservato, è paradossalmente un segno della modernizzazione, dove il paradosso sta nel fatto che lo sviluppo di uno sport porti con sé un fenomeno che ha qualcosa di arcaico, una servitù feudale. E forse la prima crepa nel difficile incontro tra sport e denaro. ll gregario aiuta un altro solo perché lo pagano per questo; è anche vero, tuttavia’, che se non lo pagassero dopo un po’ nemmeno potrebbe permettersi di correre.
Nel 1923 disputa il Giro d’Italia un ventinovenne poco conosciuto, Ottavio Bottecchia, e lo conclude assai lontano dal vincitore, ma primo degli isolati. La prova gli vale un ingaggio come gregario per il Tour dalla squadra francese dell’Automoto al cui capitano, Henry Pelissier, non dispiace di poter disporre di un italiano bravo in salita ma senza troppe pretese. Bottecchia si chiama Ottavio in quanto nato dopo sette fratelli. Proveniente da una famiglia che dopo una contenuta agiatezza ha conosciuto un pesante tracollo economico, ha praticato i mestieri più umili, da muratore a carrettiere. Il legame con la bici nasce nell’esercito, durante la prima guerra mondiale, quando è arruolato come bersagliere nel reparto ciclisti degli esploratori d’assalto in Alto Adige. Bottecchia sfugge a una breve prigionia e al ritorno riceve una medaglia di bronzo al valore militare perché «con calma e ardimento, sotto il violento fuoco nemico, aggiustava tiri efficacissimi e falcianti con le proprie mitragliatrici, arrecando gravi perdite all’avversario e fermandone l’avanzata». Comincia a correre a ventisei anni con risultati alterni e certamente male assecondati dalle sue bizzarre abitudini alimentari in corsa che lo portano a cibarsi, nel pieno dello sforzo, di polpettone oppure pane e salame. Il nome sembra una condanna perché il piazzamento più frequente, nelle corse importanti, è appunto l’ottavo posto.
Al Tour de France del 1923, però, Bottecchia trova improvvisamente e inaspettatamente la sua caratura agonistica. Indossa la maglia gialla e mette molta paura al capitano, terminando alle sue spalle e centrando un secondo posto che mai era stato sfiorato da un italiano. Al ritorno in Italia viene acclamato e la gente ha modo di familiarizzare con alcuni elementari capisaldi del suo pensiero: in particolare Bottecchia ammette di correre per fare soldi e confessa che per lui, che ha fatto anche il taglialegna sotto la neve, scalare in bicicletta il Tourmalet o il Galibier è quasi una scampagnata. La «Gazzetta dello Sport» lancia con successo una sottoscrizione a suo favore, invitando i lettori a tassarsi nella misura di una lira a testa affinché il campione possa costruirsi una casa.
Bottecchia si ripresenta al Tour l’anno successivo e non delude le attese. Indossa la maglia gialla sin dal primo giorno e arriva vittorioso a Parigi con trentacinque minuti di vantaggio sul secondo. Durante uno dei rari momenti di crisi in montagna, provvede Armando Cougnet, l’inventore del Giro d’Italia che lo sta seguendo a bordo di un’auto, a restituirgli energie intonandogli un canto militare in voga nel corso della guerra. La folla francese, che stravede per lui ancor più di quella italiana, lo ribattezza Bottescià. Al suo ritorno nella città dove vive, Pordenone, trova le strade intasate di tifosi scesi a festeggiarlo. Bottecchia non ha più bisogno di mendicare pubbliche liberalità. E ricco e rimette a nuovo la sua famiglia, inclusi i gradi collaterali che comprendono 37 nipoti. Solo con i gregari francesi è spilorcio al momento di spartire i premi. Se corre in Italia non sembra irresistibile, ma il Tour sembra munirlo di riserve segrete di forza atletica. Così nel 1925 bissa il successo. Poi il 1926 lo vede in netta flessione, al Tour si ritira a metà corsa. Forse è appagato.
Continua ad allenarsi comunque. Il 3 giugno 1927 fa la sua colazione con quattro uova sbattute assieme al marsala e va a macinare la dose quotidiana di chilometri. Qualche ora dopo, lo trovano in campagna, esanime al suolo. Lo portano all’ospedale di Gemona, il più vicino. Ha il cranio fratturato, varie contusioni e ha perso sangue dal naso e dall’orecchio. Muore dopo dodici giorni di agonia. La spiegazione più semplice è quella di una caduta: sennonché la bicicletta non ha nemmeno un graffio e ciò è ben strano se si pensa alle condizioni del campione.
A distanza di anni, un contadino sul letto di morte confesserà di avere avuto un alterco con un ciclista che gli stava prendendo l’uva dagli alberi e di averlo colpito con una pietra, finita proprio sulla testa del malcapitato. Solo allora si era accorto che si trattava del famoso Bottecchia. Ma la narrazione lascia oscuri molti punti, inclusa la circostanza che l’uva non matura a giugno e che, in ogni caso, nella zona non esistevano vigneti. Dopo cinquant’anni viene fuori un’altra confessione in punto di morte, stavolta di un prete,
il quale – secondo una recente e un tantino forzata ricostruzione storica – avrebbe ammesso che si trattò di un delitto compiuto dai fascisti, dei quali Bottecchia, militante socialista, era fiero avversario. Circa i trascorsi socialisti di Bottecchia, è vero che nel 1921 era sfilato, portando la bicicletta a mano, a fianco di un corteo socialista ma è anche vero che nel 1923 aveva preso la tessera del fascio di Vittorio Veneto. La tesi del delitto politico appare dubbia. Va riconosciuto, tuttavia, che il regime fu piuttosto tiepido nella reazione alla morte di Bottecchia e che l’inchiesta si chiuse frettolosamente. Non è da escludere che Bottecchia sia rimasto coinvolto in una rissa con qualche balordo ma abbia poi trovato la forza per risalire in bici e percorrere qualche altro chilometro prima di crollare; e che gli assassini abbiano trovato la copertura delle autorità locali. Certo, gli ingredienti del mistero ci sono tutti. Non ultime altre due morti: quella di un fratello di Bottecchia, investito un mese prima da un’auto pirata, e quella del più fido gregario del campione, schiantatosi con la bici contro un muro nel 1932, alla fine di una curva apparentemente facile e sgombra, senza che vi assistesse alcun testimone.
Estratto (da “Storia e storie dello sport in Italia“)
Nuvolari, Mussolini, Coppi, il miracolo economico, Maradona, la borghesia di inizio secolo, i caratteri degli italiani, il Coni, l’alpinismo, il doping, la violenza negli stadi… In questo libro, dai primi passi nell’Ottocento fino alla fine degli anni Novanta, lo sport viene trattato come osservatorio privilegiato per la comprensione di fenomeni sociali e culturali e fotografia della vita nazionale. Ma Storia e storie dello sport è anche una specie di romanzo collettivo in cui gli atleti e i personaggi sono narrati nei loro dati umani e tecnici, essenziali o piacevolmente inessenziali.
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