Della patina retorica di cui lo aveva ricoperto il fascismo, il linguaggio dello sport non riuscì a liberarsi. Tuttavia l’eterogeneità di ceto degli appassionati e la crescente diffusione lo rendevano interessante e dinamico, in continua trasformazione.
Il giovane linguaggio sportivo bussava alla porta un po’ di tutti i settori per riceverne prestiti. Il gergo militare era il fornitore più significativo, ma non certo il solo. Molti, ad esempio, i termini mutuati dal cinema, dal teatro o genericamente dal mondo dello spettacolo: si pensi a regista, fromboliere, debutto o cartellone; e ancora di più le parole travasate da uno sport all’altro.
Ad arricchire il linguaggio sportivo era la perizia dei cronisti? Certo alcuni futuri maestri del giornalismo politico e sociale transitarono per le strade del Giro d’Italia o del Tour de France. E sufficiente ricordare Indro Montanelli e Giorgio Bocca. E l’epopea povera del ciclismo meritò scrittori come Dino Buzzati. Ma il panorama complessivo dei reporter sportivi non era esaltante: il vizio era la già citata retorica, applicata con accostamenti allegorici oscillanti tra l’ovvio e il ridicolo, inopinati dannunzianísmi, ampollose e scolastiche digressioni liriche. Eppure il linguaggio sportivo sembra disporre di una verginità verbale e di una freschezza tutte sue. Lo dimostra il fatto che le parole che vi provengono da altri siti linguistici, come immerse in un bagno purificatore o lavorate in una perpetua officina, vengono rimesse nel circuito della comunicazione con un’inedita destinazione d’uso pronta a soppiantare, per diffusione, il senso originario. È il caso di bidone, imbeccare, casalingo, incassare che sono usati in sempre nuovi contesti con una sfumatura di senso che richiama direttamente la traslazione sportiva del vocabolo. L’arricchimento della parola è l’interesse che il linguaggio sportivo corrisponde per retribuire il prestito.
Un’altra peculiarità del linguaggio sportivo è quel curioso contrappunto fra la contrazione ellittica dei periodi e un’aggettivazione torrenziale, spesso inutilmente sinonimica. Ma la profusione di aggettivi è connessa con la funzione della cronaca agonistica, che è sempre più la valutazione dell’evento che non la sua descrizione. Anche questo contribuisce a una certa libertà espressiva.
Nel dopoguerra alcuni giornalisti si distaccano dalla media per la loro capacità di saldare il rilievo tecnico al dato umano, sociale, storico, pur se spesso l’accostamento galleggia sulle acque di un
superficiale didascalismo. Buoni interpreti della volontà dei lettori si rivelano i napoletani Antonio Ghirelli e Gino Palumbo. Anche nel giornalismo nascono acerrime rivalità. La più scoppiettante è tra gli stessi Ghirelli e Palumbo da un lato e il lombardo Gianni Brera dall’altro e si fonda su una questione di contenuto, la tattica che le squadre italiane di calcio, e segnatamente la nazionale, debbono seguire.
Mentre Ghirelli e Palumbo propendono per un distacco dal ceppo difensivistico, considerato arretrato e involuto, oltre che riprovevole nei confronti del pubblico, Brera afferma che gli italiani sono un popolo denutrito e rachitico, al quale conviene giocare d’astuzia e colpire in contropiede. Il modello agonistico da evitare, per Brera, è quello dell’abatino «molto vicino al cicisbeo. Omarino fragile ed elegante, così dotato di stile da apparire manierato e qualche volta finto». L’abatino per eccellenza secondo lui era Rivera ma la definizione, personale rielaborazione di un termine foscoliano, fu poi estesa all’intero popolo italiano. «Abatini siamo e abatini resteremo». Il dissidio supera i limiti dell’urbanità, degenerando in una scazzottata tra Brera e Palumbo allo stadio.
Gianni Brera, dopo un incruento passato da paracadutista e partigiano, approdò nel 1946 alla «Gazzetta dello Sport», della quale, a soli trent`anni, divenne direttore. Lascio presto la carica avendo constatato che la sua vocazione assoluta era la scrittura pura e semplice. In due ore poteva sfornare otto-dieci cartelle. Il suo stile lo distaccava profondamente da tutti gli altri cronisti; così come la sua ambizione letteraria, che aveva anche prodotto qualche non eccelso romanzo.
Il suo antropologismo spicciolo, bisogna pur dirlo, era attraversato da una venatura razzista e reazionaria. Di calcio non è certo che ne capisse come pretendeva. Quando qualcuno gli faceva notare i ricorrenti errori nelle previsioni, replicava che i pronostici li sbaglia chi li fa. Vero, ma vero anche, ribaltando l’impostazione, che chi li fa, una volta ogni tanto, potrebbe anche azzeccarli. Quanto alla sua scrittura, ha lasciato pagine memorabili ma pure colonne pesanti e barocche. Umberto Eco ha scritto che Brera era Gadda spiegato al popolo: in verità alcuni suoi articoli avrebbero stremato Gadda stesso.
La grande forza di Brera era piuttosto la sintonia istintiva e totale con lo spirito dello sport. Nessuno ha mai bilanciato in maniera tanto armonica, nella narrazione delle gare, la giusta serietà e la doverosa ironia, la nuda cronaca e l’ingegnosa metaforizzazione, la nobiltà aristocratica del gesto sportivo e la sua visceralità popolaresca, nessuno ha mai colto con così felice freschezza l’inscindibilità dell’aspetto umano e di quello tecnico. Si può discutere se Brera abbia scritto di sport sempre nel modo più gradevole. Certamente però ne ha scritto sempre nel modo più giusto. In questo senso, nei suoi articoli, Brera e lo sport sono stati una cosa sola. Ciò spiega come mai egli abbia potuto inondare il lessico sportivo di una quantità impressionante di neologismi (libero, centrocampista, cursore, pretattica, palla gol; ma anche lo splendido intramontabile) contribuendo a riformulare persino il gergo tecnico delle varie discipline: non era lo sport ad attingere a Brera né viceversa, si trattava piuttosto di un’unica sorgente. La prolifica inventiva terminologica, certo l’elemento più interessante della sua prosa assieme al gusto nel conio dei soprannomi, era indubbiamente consentita da una piena e ammirevole padronanza linguistica. Ma in quel mescolare riferimenti colti a suoni onomatopeici e a espressioni tratte dal dialetto e dal sottodialetto padano pulsava qualcosa direttamente proveniente dalla sua sensibilità contadina. Era questo che lo rendeva comprensibile alla gente, a dispetto della prosa ostica.
Estratto (da “Storia e storie dello sport in Italia“)
Nuvolari, Mussolini, Coppi, il miracolo economico, Maradona, la borghesia di inizio secolo, i caratteri degli italiani, il Coni, l’alpinismo, il doping, la violenza negli stadi… In questo libro, dai primi passi nell’Ottocento fino alla fine degli anni Novanta, lo sport viene trattato come osservatorio privilegiato per la comprensione di fenomeni sociali e culturali e fotografia della vita nazionale. Ma Storia e storie dello sport è anche una specie di romanzo collettivo in cui gli atleti e i personaggi sono narrati nei loro dati umani e tecnici, essenziali o piacevolmente inessenziali.
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