Estratto (da “Storia e storie dello sport in Italia“)
Molti fortissimi atleti vengono ricordati come «eterni secondi»; ciononostante la loro capacità di porsi da protagonisti, di elevarsi quasi alla pari di qualche grande avversario, conserva loro lo status di campioni e li tramanda alla memoria come dei vincitori, personaggi che hanno saputo attraversare brillantemente, come minimo, una fase della loro vita.Tra le poche eccezioni a tale regola va sicuramente citato Tiberio Mitri, il pugile triestino che pure, oltre a riscaldare cuori femminili ammaliati dalla sua bionda bellezza, conquistò il titolo europeo dei pesi medi e varcò l’Atlantico per andare ad affrontare nel 1950, corona mondiale in palio, l’italo-americano Jake La Motta (il «Toro scatenato» del film con Robert De Niro), uscendone nettamente sconfitto al termine di un confronto dignitoso, anche se mai veramente in discussione nel risultato finale. Eppure Mitri è stato sempre indicato come il paradigma della sconfitta: le sue disgrazie fuori dalle corde, la sua inettitudine ad accomodarsi accettabilmente con la vita di tutti i giorni sono state così eclatanti da rendere perfino stucchevole la purezza del suo stile pugilistico, trasformandola a posteriori in testimonianza del suo molle fatalismo, esibito spesso dall’interessato con masochistico compiacimento. Mitri fu scalognato sin dalla sua avventura mondiale: il racket americano aveva deciso di proporre il suo volto cinematografico alle massime luci della ribalta e La Motta, che per soldi avrebbe venduto anche la madre e, più modestamente, si era già venduto parecchi incontri, chissà perché, nell’occasione decise di fare tutto il suo dovere sportivo. Ai piedi del ring sedevano le rispettive mogli; quella di La Motta era stata miss America, quella di Mitri miss Italia ed aveva molto spinto Tiberio ad accettare l’incontro, forse prematuro, confidando di ritagliarsi uno spazietto come diva di Hollywood. Qualche anno dopo, con Mitri sul viale del tramonto, quel matrimonio sarebbe finito; il successivo, per il pugile, risultò melodrammatico, con la moglie americana che lo fece arrestare denunciandolo per estorsione, furto e percosse. Mitri bruciò subito una carriera da attore; provò a scrivere un libro, ma fallì la casa editrice; dipinse, senza incontrare consensi; tornato sulla strada, dalla quale proveniva, fu arrestato due volte per spaccio di stupefacenti a distanza di dieci anni. A chi lo intervistava vantava almeno la carriera di ufficiale di marina del figlio che, tuttavia, sarebbe poi morto per droga.
Crollato Mitri, il beniamino dei tifosi italiani di boxe divenne il welter leggero Duilio Loi, un atleta tarchiato di appena un metro e sessantaquattro, in possesso di una tecnica estrosa e personalissima con la quale colpiva da qualsiasi posizione. Straordinarie erano le sue qualità di incassatore: su 126 incontri non subì mai un solo k.o. e solo una volta, sbilanciato, poggiò la mano per terra. Il suo incontro con il francese Ferrer, nel 1955, fu la prima manifestazione sportiva trasmessa in diretta televisiva. Il cronista, rispettosamente, taceva durante le riprese e commentava solo a ogni intervallo, parlando di colpi al deltoide e facendo sfoggio di altre conoscenze anatomiche. Nel 1960, Loi conquistò il titolo mondiale contro il validissimo portoricano Ortiz. Nel loro primo incontro, offuscato da troppe reciproche scorrettezze nel finale, fu defraudato dal verdetto della giuria, poi si impose nella rivincita e nella bella.
Il ciclismo non aveva saputo rimpiazzare Coppi e Bartali. Sembrava potesse riuscirci con Ercole Baldini, che si rivelò invece una meteora: passato professionista appena vinte da dilettante le Olimpiadi di Melbourne nel 1956, si impose subito nel campionato mondiale di inseguimento. Cronoman imbattibile, si difendeva anche in salita: il suo Giro d’esordio, nel 1957, lo vide al terzo posto. Nel 1958, approfittando di una certa dolcezza del percorso, vince il Giro e poi, con il supporto della squadra nella quale l’anziano Coppi recita il prezioso ruolo di capitano sul campo, anche i mondiali su strada. E ancora giovane Baldini e sembra che debba polverizzare ogni record. Invece la sua carriera di campione finisce praticamente con la maglia iridata. Inspiegabilmente non vince quasi più e progressivamente perde la baldanza caratteriale che lo aveva caratterizzato. In un panorama abbastanza desolato rispetto al fantastico passato, l’alfiere del pedale italiano diventò lo scalatore Gastone Nencini, uomo da corse a tappe che, infatti, si impose anche nel Tour del 1960, consumando le attese tra una salita e quella del giorno dopo avvolto nelle cortine fumogene prodotte dalle sue sigarette. In quel periodo, í ciclisti che vincevano con maggiore regolarità non erano stradisti. Uno era Renato Longo, che inanellò con silenziosa umiltà cinque titoli mondiali di ciclocross; l’altro il pistard Antonio Maspes, un viveur che per due mesi all’anno, quando proprio aveva voglia di sprecarsi, si allenava per vincere il campionato mondiale di velocità, evento ripetutosi per sette volte tra la seconda metà degli anni cinquanta e la prima degli anni sessanta. Che Maspes avesse un fenomenale colpo di reni, vista la disciplina, è cosa scontata: ma la sua specialità, rispetto agli avversari, era il surplace. Tale si definisce la posizione di equilibrio tenuta stando fermi sulla bici, senza mettere il piede per terra e alla quale gli sprinter ricorrono frequentemente per far passare avanti l’avversario. Nella velocità, infatti, potere stare dietro per scattare all’improvviso è essenziale. Chi perde l’equilibrio e poggia il piede per terra è costretto da regolamento a ripartire. Maspes era inimitabile: quando si metteva lui in surplace per gli spettatori era il momento di andare a comprare le patatine. Una volta, assieme a un belga, statueggiò per trentadue minuti, mentre dagli spalti piovevano fischi e fogli di giornale appallottolati. Il primo a cedere fu il giudice che inventò un’infrazione del belga pur di uscire da quell’impasse, oramai diventata anche una questione di principio.
Il crepuscolo del ciclismo su strada non riguardava solo i campioni ma un’intera epoca, e la bici in toto. Del resto, come film-simbolo, si era passati da Ladri di biciclette del 1948 a Il sorpasso del 1962. Tuttavia, quando pareva che fosse arrivato l’uomo giusto, la fantasia della gente tornava ad accendersi. Nel 1965 un giovane bergamasco alla sua prima stagione da professionista, Felice Gimondi, si trovò quasi incidentalmente la maglia gialla sulle spalle mentre il suo capitano Vittorio Adorni, che si era imposto nel Giro d’Italia, si ritirava. Gimondi corse con sorprendente iniziativa e autorevolezza, avvantaggiato anche dal fatto che l’unico vero campione in circolazione, il francese Jacques Anquetil, non partecipava per un infortunio, e riportò il Tour in Italia. Ma Gimondi era solo l’araldo di una nuova tirannia ciclistica che sarebbe cominciata da lì a poco: quella del fiammingo Eddy Merckx, detto «il cannibale» per la sua insaziabile voracità di traguardi. A Gimondi si rimproverò una certa arrendevolezza nei confronti del belga. In realtà egli si industriò come poté, cambiando preparazione, modo di respirazione in corsa, posizione sul sellino. La maggiore soddisfazione fu quella di assistere da primattore al tramonto di Merckx, che pure era più giovane. Il campanello della riscossa cominciò a suonare al Giro d’Italia del 1973 quando, in una tappa, Gimondi batté a cronometro il rivale, dopo una quasi decennale serie di tentativi infruttuosi. La grande giornata arrivò, nello stesso anno, ai campionati del mondo. In fuga con altri tre corridori, due dei quali chiaramente più veloci di lui, Merckx e il giovane Freddy Maertens, Gimondi inventò la volata della vita e partendo col giusto anticipo contenne il ritorno di Maertens. Merckx, dopo anni di semi-imbattibilità, andava giù a picco e Gimondi era ben vegeto: nel 1976, a quasi 35 anni, vinse il suo terzo Giro d’Italia, strappando per diciannove secondi la maglia rosa con un’entusiasmante cronometro finale.
Tra le molte lame che arricchirono, fra il 1948 e il 1960, il palmarès sportivo dell’Italia la più insidiosamente affilata fu quella del milanese Edoardo Mangiarotti, che concluse la carriera decorato più di un eroe delle campagne napoleoniche: sei medaglie d’oro olimpiche, di cui una individuale, e tredici medaglie mondiali, con due successi individuali. Mangiarotti, che praticò fioretto e spada, fu tra i primi a scoprire l’importanza della potenza atletica nel suo sport, aggiungendo a ciò una tecnica rigorosa, specialmente nella spada, e una ineguagliabile capacità di concentrazione. Infatti, tra l’uno e l’altro dei suoi incontri, scriveva i pezzi per la «Gazzetta dello Sport», della quale era inviato, non disdegnando di tributarsi elogi sperticati. Nel fioretto, dopo avere dato vita a spettacolari duelli con il francese Christian D’Oriola, patì l’elettrificazione dell’arma, adottata dal 1955. I campioni di allora faticavano ad abituarsi al segnalatore elettrico delle stoccate e al conseguente, diverso peso del fioretto. Talvolta dovettero affrontare problemi inattesi. Un fiorettista livornese, in possesso di cognizioni ingegneristiche, scoprì un sistema per truccare gli incontri, inserendo vicino all’impugnatura un bottone in grado di bloccare i circuiti della lama avversaria, facendo in modo che il segnalatore registrasse solo la sua stoccata. Inebriato dal felice esito dell’esperimento, però, non fu altrettanto accorto nell’amministrarlo, e anziché simulare assalti incerti e tiratissimi, rifilava senza pietà, premendo il bottone al momento giusto, mortificanti 10-0 e 10-1 ai più celebrati campioni. Mangiarotti, incredulo, provava continuamente il fioretto sul giubbetto del livornese che, nel frattempo, staccava le dita dal bottone: cosicché il segnalatore si accendeva perfettamente. «Ma sei stregato», soggiungeva irritato. All’ennesimo vano piegarsi delle lame sul petto qualcuno cominciò a sospettare che qualcosa non funzionava, o che qualche altra funzionava troppo. Il baro venne smascherato e squalificato a vita. A parte quest’episodio, tuttavia, ciò che metteva in crisi, con l’elettrificazione del fioretto, valori consolidati era l’impossibilità del giudice, di fronte all’accensione di una sola lampadina, di favorire lo schermitore più prestigioso. A quell’epoca certi incontri erano quasi pro-forma e tali restarono nella sciabola, che sarebbe stata tecnologizzata solo trent’anni dopo. Anche in quell’arma, peraltro, poteva capitare che la personale inventiva sopperisse alla carenza di autorevolezza presso le giurie. Una volta, un giovane e sconosciuto sciabolatore fu chiamato a misurarsi in pedana con un atleta della nazionale. Quando il giovane vide quest’ultimo fraternizzare a lungo con gli amici della giuria, comprese che in un assalto normale, giocato sulle cinque stoccate, non avrebbe avuto nessuna chance e decise di provare a rallentare il ritmo e tenere lontano l’avversario, al fine di arrivare 0-0 alla scadenza del tempo e giocarsi tutto su un’unica stoccata, da eseguire in maniera incontrovertibile. La tattica riuscì e l’incontro vide i due per lunghi tempi immobili. Scaduti i cinque minuti, l’arbitro avvisò che avrebbe vinto chi metteva a segno un unico punto. «Oh, adesso possiamo stare qui anche due giorni», si lasciò scappare l’atleta giovane. Dopodiché, non appena l’arbitro diede il segnale di riavvio dell’incontro, si lanciò nello scatto più veloce della sua vita e vibrò un netto fendente al corpo dell’atleta famoso, ancora impalato e stupito.
All’inizio degli anni cinquanta, mentre Zeno Colò sparava le sue ultime cartucce, sembrava già pronto il nome del successore: uno spericolato e taciturno ragazzotto di Dobbiaco, Eugenio Monti. Nel 1952, al Sestriere, per via di un grave incidente alle ginocchia dovette operarsi e perse l’intera stagione. Si ripresentò l’anno successivo, vincendo il titolo italiano sia nello slalom che nel gigante; ma poi incappò in una caduta ancora più disastrosa, che gli costò, oltre a serie ferite al volto, la rottura dei legamenti. Per lo sci era finito. Monti divenne ancora più cupo e introverso. Si lasciò convincere a salire sul bob tanto per riprendere confidenza con la neve e rasserenarsi. Su quella gabbietta cominciò a buttarsi giù con una temerarietà cui nessuno si era ancora spinto. I tifosi coniarono per lui il soprannome di «rosso volante» che gli sarebbe rimasto negli anni, insensibile a un precoce imbiancamento della chioma e al fatto che, ricucito in tutto il corpo e segnato sul viso, meglio gli sarebbe calzato quello di «rotto volante». Le istruzioni che impartiva ai suoi compagni frenatori, nel bob a due, erano elementari: non dovevano frenare mai. Salvo che non gli arrivasse una gomitata nel costato, segnale che a Monti erano sfuggite le maniglie e la frenata era, se ancora possibile, l’alternativa allo schianto. La sua spigolosità non toccava gli avversari con i quali era amabile e signorile, regolarmente insignito del premio al fair play. Nel 1964, in pieno svolgimento della gara, contribuì a risolvere il problema tecnico del bob dell’antagonista che in tal modo gli soffiò la medaglia d’oro. Di titoli mondiali, comunque, fece incetta. Attese a lungo solo la vittoria olimpica, che arrivò al quattordicesimo e ultimo anno di carriera, nel 1968. Prima nel bob a due; nell’occasione Monti giunse in ritardo alla premiazione perché, appena arrivato, era andato nel garage dell’albergo a preparare il bob per la prova a quattro del giorno dopo. Vinse anche quella e i dirigenti gli promisero grandi festeggiamenti al ritorno in patria ma lui suggerì seccamente: «I soldi per festeggiarmi mandateli ai terremotati della Sicilia».
Nuvolari, Mussolini, Coppi, il miracolo economico, Maradona, la borghesia di inizio secolo, i caratteri degli italiani, il Coni, l’alpinismo, il doping, la violenza negli stadi… In questo libro, dai primi passi nell’Ottocento fino alla fine degli anni Novanta, lo sport viene trattato come osservatorio privilegiato per la comprensione di fenomeni sociali e culturali e fotografia della vita nazionale. Ma Storia e storie dello sport è anche una specie di romanzo collettivo in cui gli atleti e i personaggi sono narrati nei loro dati umani e tecnici, essenziali o piacevolmente inessenziali.
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