Come il fascismo si impadronì della nazionale di calcio
Il calcio, alle soglie degli anni trenta, aveva fatto breccia nel cuore della gente e il regime aveva assecondato l’entusiasmo costruendo stadi con una capienza grandiosa, all’avanguardia in tutta Europa. Quando parliamo di una grande passione popolare, peraltro, non la intendiamo identica a come sarebbe maturata quarant’anni dopo. Basti dire che ancora nel 1936 la spesa nazionale per lo sport, comprensiva delle altre discipline oltre che del calcio, era di poco meno di 26 milioni a fronte degli oltre 434 consumati per il cinema e dei circa 90 spesi per gli spettacoli teatrali. Ma il fascismo fiutò che si trattava di un fenomeno emergente e che, a differenza dei teatri, gli stadi possedevano il potere di ipnotizzare le masse. Per di più si trattava di uno sport ancora per eccellenza inglese e, a dispetto degli epiteti che si riservavano alle discipline anglofile con il disprezzo tipico di chi vuol comprare, per l’Italia era un sogno ricorrente l’eccellenza nelle competizioni di cui maggiormente si vantavano i britannici. Così, se nel 1930 il paese aveva seguito assai distrattamente lo svolgimento del primo campionato mondiale vinto dall’Uruguay, al quale i giornali avevano a malapena dedicato una ventina di righe, dei mondiali del 1934 (quelli successivi, essendo stata stabilita una cadenza quadriennale) l’Italia richiese l’organizzazione, ed ebbe buon gioco a essere accontentata proprio perché disponeva dei migliori impianti.
Mussolini, prima ancora del risultato sul campo, esigeva che l’Italia desse agli osservatori esteri una prova di perfetta efficienza. Scatenò un imponente battage pubblicitario: francobolli che raffiguravano idrovolanti sospesi sugli stadi, centomila cartelloni murali, pacchetti di sigarette con l’effigie di un pallone in rete. Venne anche indetto un concorso per il miglior manifesto che fu vinto da Marinetti e rappresentava uno spicchio di porta con un pallone nero e un fascio littorio.
Le squadre extraeuropee presenti erano Egitto, Usa, Brasile e Argentina; grandi assenti l’Uruguay, che intendeva protestare contro la mancata partecipazione europea ai mondiali di quattro anni prima, e l’Inghilterra, che si riteneva troppo superiore a tutti quei parvenu per incontrarli in una manifestazione ufficiale. La fase finale era stata preceduta da alcuni incontri di qualificazione. All’Italia era toccata in sorte la Grecia. Documenti recenti, dei quali resta ancora da verificare l’attendibilità, gettano un’ombra su quel confronto. La Grecia, surclassata per 4-0 in Italia, rinunciò a ospitare la partita di ritorno, pare dietro versamento di una congrua cifra da parte dell’Italia che voleva evitare ai giocatori una trasferta disagiata e dar loro la possibilità di restare ad allenarsi senza strapazzi indotti dai viaggi.
La nostra squadra era rafforzata dai cosiddetti oriundi, giocatori di nazionalità sudamericana ma con origini italiane che, portati in Italia grazie alle offerte economiche dei grandi club, erano gratificati della cittadinanza dal regime, pronto, pur di ottenere una grande affermazione, a glissare sulla rigidità del proprio nazionalismo. Le squadre italiane beneficiarono largamente del regolamento che consentiva di schierare oriundi in campionato senza limitazione alcuna e la Lazio arrivò a scendere in campo con il solo portiere italiano al cento per cento. L’oriundo più bravo della nazionale era l’ala sinistra Raimondo Orsi, che aveva già giocato nelle file dell’Argentina la finale dei mondiali nel 1930, ma altrettanto essenziale nell’economia della squadra era il centromediano Luisito Monti, capace di riconquistare decine di palloni a centrocampo. Però italianissimo era il campione più atteso: Giuseppe Meazza, il giocatore forse di maggior classe che l’Italia abbia mai espresso. Gioco sia da centravanti che da mezzala avanzata, e a fine carriera anche all’ala e persino da centromediano. Aveva fondamentali perfetti, un tocco pulitissimo, vedeva il gioco come nessuno e con altrettanta naturalezza vedeva la porta. I suoi gol rimasti celebri furono quelli cosiddetti «a invito»: quando seminava la difesa con dribbling stretti oppure si liberava della palla per andare a riceverla al centro dell’area e da quella posizione attirava il portiere fuori dai pali, dribblando pure lui o, preferibilmente, depositando di piatto e lentamente la palla nell’angolino. Esordì in serie A a soli diciassette anni e venne presto soprannominato «il balilla», anche a sottolineare una fede fascista la cui effettività era gonfiata dalla propaganda di regime, che arrivò ad affermare che Meazza dormiva con la foto di Mussolini sopra al letto. Faceva la felicità delle cronache rosa che alimentava con le numerose avventure galanti o le puntate al gioco d’azzardo. Per lui si componevano canzonette: «La donzelletta vien dalla campagna e intanto lei va pazza per Meazza che fa reti quasi a tempo di fox trot». Giocò a lungo perché in campo amministrava con poca generosità le sue energie assopendosi in lunghi letarghi dai quali si scuoteva con un’invenzione improvvisa.
L’allenatore della squadra era Vittorio Pozzo che già aveva guidato la nazionale alle Olimpiadi del 1912. Dirigente alla Pirelli, buon giornalista e ottimo conoscitore di calcio internazionale nonché di tre lingue, Pozzo, per il quale la partecipazione come alpino alla prima guerra mondiale non era mai stata metabolizzata come parentesi, era l’uomo adatto per interpretare al meglio i risvolti nazionalistici del calcio italiano. Portava i giocatori in visita ai monumenti ai caduti, li costringeva a intonare l’inno del Piave negli spogliatoi, gli si rivolgeva adottando una terminologia militaresca e ne controllava la posta per cassare le notizie che potevano metterli in agitazione. Era un vecchio trombone piemontese e, per quieto vivere, oltre che per una parziale convergenza di idee, assecondava la retorica mussoliniana, ma non fu un vero fascista, tant’è che aiutò i partigiani durante la resistenza. Sia pure con modi discutibili, sapeva infondere ai suoi uomini una carica agonistica eccezionale ed era da loro paternamente rispettato, anche perché perdirigere la squadra non prendeva una lira. Dal punto di vista tattico privilegiava il metodo, e di suo ci metteva un assetto difensivo che anticipava qualcosa del catenaccio e che, comunque, portava gli azzurri a giocare prevalentemente di rimessa e con lanci lunghi, nei quali, quando arretrava, era maestro lo stesso Meazza. Con il chiodo che aveva per la dedizione, il sacrificio, lo spirito di corpo e tutto quanto insomma richiamasse il cameratismo militare avversò i giocatori di intelligenza e personalità, peggio ancora se provenienti dal sud. Ne fece le spese Fulvio Bernardini, il centrocampista tatticamente più dotato dell’epoca (sarebbe stato poi uno dei pochi calciatori a laurearsi), che Pozzo emarginò ed escluse perché giocava in maniera troppo difficile per essere compreso dai compagni di squadra.
L’Italia cominciò il mondiale con gli Stati Uniti, sommersi sotto una valanga di reti. Il secondo avversario, ostico, era la Spagna che aveva tra i pali il più famoso portiere del mondo, Ricardo Zamora, di cui si diceva che ipnotizzasse i tiratori con i suoi occhi magnetici. In effetti Zamora parò tutto e nonostante una marcata supremazia territoriale l’ltalia rischiò di perdere e nelle fasi cruciali dell’incontro ricevette una mano dall’arbitro. Le due formazioni pareggiarono e la partita fu ripetuta tre giorni dopo. Le squadre scesero in campo largamente rimaneggiate perché i protagonisti del primo confronto erano esausti. L’Italia andò in vantaggio dopo dodici minuti con un colpo di testa di Meazza e difese con successo il vantaggio sino alla fine. E divertente rileggere le cronache dell’epoca per capire come si regolassero i giornali italiani: il «Corriere della Sera», dopo fiumi d’inchiostro spesi a descrivere i preparativi dell’incontro e a decantare le presenze delle autorità in tribuna, dedicò una ventina di righe alla cronaca, interrotta al dodicesimo del primo tempo, come se i 78 minuti successivi neppure si fossero giocati.
Nella semifinale con l’Austria gli italiani sono più bravi degli avversari ad adattarsi al terreno, viscido e scivoloso per via della pioggia, e vincono meritatamente per 1-0 una gran bella partita. L’ltalia è in finale con la Cecoslovacchia. Dal resto d)Europa partono dodici treni speciali, quattro dei quali proprio dalla Cecoslovacchia. La finale è combattuta ma sembra compromessa quando i cechi si portano in vantaggio a venti minuti dalla fine. Dodici minuti dopo pareggia Orsi. Nei supplementari Meazza dalla posizione di ala mette al centro per Guaita (altro oriundo), questi scatta e passa a Schiavio che con un tiro potente batte il portiere. E la rete decisiva, l’Italia è campione del mondo. Per il famoso giornalista Bruno Roghi, uno dei cantori più ottusamente zelanti delle gesta sportive dell’Italia fascista, è come se avesse segnato Mussolini, che è presente in tribuna: «La moltitudine posseduta da un sentimento che era di felicità e gratitudine… s’è rivolta al Titano che la scena grandiosa dominava col braccio teso e col sorriso sulle labbra. L’osanna del Duce ha l’intensità di un ciclone, l’austerità di un rito, il palpito commosso di un voto».
Per il fascismo il mondiale è stato un trionfo. Organizzazione inappuntabile, un inatteso saldo attivo delle entrate rispetto alle pur consistenti uscite e, alla fine, persino la vittoria della squadra. Molti anni dopo, qualcuno si è espresso in tono dubitativo circa i meriti degli azzurri, sostenendo che essi sarebbero stati aiutati a vincere. Indubbiamente la pressione ci fu e portò il presidente della Federazione internazionale Jules Rimet a esclamare che in quei giorni pareva che il suo ruolo gli fosse stato usurpato da Mussolini. Ma i favori ricevuti dall’Italia non furono superiori a quelli che tutte le nazioni ospitanti, approfittando del fattore campo, avrebbero ricevuto negli anni a venire. E in fondo due partite terminarono ai supplementari e l’Italia non ebbe assegnato neanche un rigore. Il successo premiò una squadra che diceva poco di nuovo sul piano tattico ma che era formata da elementi molto ben assortiti, di grande temperamento e psicologicamente motivati sia dall’ambiente che dal tecnico Pozzo.
Sembrava incredibile avere superato due grandi scuole come quelle danubiana e sudamericana. Bruciava però il mancato confronto con i maestri inglesi, che molti giudicavano i campioni del mondo virtuali. La diplomazia italiana riuscì a ottenere che i britannici accettassero di misurarsi, sia pure in casa e nel periodo da loro prescelto. Quando gli inglesi, nel 1935, comunicarono che la partita si sarebbe potuta svolgere a novembre, Pozzo manifestò dissenso: «Non se ne parla neppure. Novembre è il periodo del freddo e delle piogge, il peggiore per noi e il migliore per loro». Mussolini gli fece sapere che la partita si doveva giocare. «Novembre? – si corresse Pozzo – Per noi va benissimo!».
La partita si giocò nello stadio minore di Londra, quello di Higbury. Gli italiani arrivarono al termine di un viaggio di due giorni, speso fra treni e navi. Dopo dodici minuti l’ltalia era sotto di tre gol e con Monti azzoppato. A quel punto gli azzurri offrirono un’eccezionale prova di agonismo e guidati dal gladiatorio Ferraris IV, un mediano di grande vigore atletico assai anticonformista fuori dal campo, arrivarono quasi a recuperare, segnando due reti con Meazza e costringendo a lungo gli inglesi sulla difensiva. La stampa esaltò sino all’inverosimile la prova di carattere degli italiani che effettivamente fu notevole. Si trattava, tuttavia, pur sempre di una sconfitta che dimostrava come, sul piano tecnico-tattico, gli inglesi fossero ancora i migliori al mondo.
Il calcio azzurro comunque continuò il suo momento di gloria, cogliendo anche la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Berlino nel 1936. Arrivò il 1938 e i mondiali, privati all’ultimo momento dell’Austria, temporaneamente cancellata dalle carte geografiche per mano dei tedeschi, si disputavano in Francia. Dei campioni di quattro anni prima erano rimasti il terzino Monzeglio (che però aveva perso smalto ed era stato convocato su pressione di Mussolini), il centrocampista Ferrari e Meazza. La squadra era forse un po’ più debole ma contava su un fuoriclasse in più, il centravanti Silvio Piola. Si trattava di un attaccante fisicamente molto potente ed estremamente coraggioso. Di lui si ricorda fra le tante una partita che lo vide restare in campo con il capo fasciato da un fazzoletto sul quale ancora si vedevano le tracce di sangue, menomazione che non lo tratteneva dall’avventarsi su ogni palla alta per colpirla con la testa. Se la specialità di Meazza era il gol a invito, il numero più spettacolare di Piola era la rovesciata, la sforbiciata spalle alla porta nella quale si esibiva con incantevole facilità di coordinazione. In trentaquattro partite in nazionale segnò trenta volte, le prime due all’esordio nel 1935 in una partita con l’Austria, nella quale venne chiamato a sostituire Meazza infortunato. In seguito Pozzo li avrebbe opportunamente utilizzati entrambi. Rispetto ai mondiali del ’34 la squadra aveva forse una più robusta copertura difensiva, grazie al duo di terzini Foni-Rava e al centromediano Andreolo, ottimo protettore della retroguardia.
L’esordio fu subito difficile contro la Norvegia, una squadra che a rileggerne i nomi oggi sembra quasi finta, tanta era la penuria di varianti rispetto agli standard Johanssen ed Eriksen. I giocatori azzurri furono pesantemente avversati dal pubblico, stizzito dalle dichiarazioni antifrancesi rilasciate da Mussolini qualche settimana prima e infoltito dalla presenza di antifascisti italiani fuorusciti, ma riuscirono con fatica a prevalere. Il peggio venne contro la Francia. Non perché i transalpini fossero temibili ma perché l’atmosfera, già pesante per la squadra italiana, diventò irrespirabile. Al centro del campo i giocatori fecero il saluto romano agli spettatori che risposero con fischi e strepiti. Quel saluto apparve ancor più una provocazione quando Pozzo diede ordine di rifarlo. Dal suo punto di vista non aveva nemmeno torto perché voleva evitare che i giocatori si abbattessero per quell’ostilità, inedita per una partita di calcio. L’Italia superò la Francia e approdo alla semifinale dove mise sotto il Brasile, al quale dava dei punti sul piano della concretezza. La finale con l’Ungheria, che ebbe in Piola un protagonista assoluto, venne vinta piuttosto agevolmente per 4-2. Scrisse la «Gazzetta»: «Una partita come questa non è che in misura limitata un episodio sportivo. E soprattutto un fatto patriottico. Per vincere bisogna sapere in ogni momento che si è degni di appartenere alla terra che ci ha dato la vita e l’onore. Tutta Parigi, tutto il mondo sportivo sa, una volta ancora e una volta di più, cosa sono, cosa valgono e cosa vogliono i ragazzi di Mussolini».
Estratto (da “Storia e storie dello sport in Italia“)
Nuvolari, Mussolini, Coppi, il miracolo economico, Maradona, la borghesia di inizio secolo, i caratteri degli italiani, il Coni, l’alpinismo, il doping, la violenza negli stadi… In questo libro, dai primi passi nell’Ottocento fino alla fine degli anni Novanta, lo sport viene trattato come osservatorio privilegiato per la comprensione di fenomeni sociali e culturali e fotografia della vita nazionale. Ma Storia e storie dello sport è anche una specie di romanzo collettivo in cui gli atleti e i personaggi sono narrati nei loro dati umani e tecnici, essenziali o piacevolmente inessenziali.
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