La spedizione della nazionale di calcio ai mondiali del Brasile del 1950 venne preceduta e accompagnata da una serie di condizioni che avrebbero obiettivamente reso improbabile un risultato positivo. L’anno prima, la tragedia di Superga aveva costretto i selezionatori, Novo e il giornalista Bardelli,
a rifare da cima a fondo la squadra e lasciato in eredità la fobia dell’aereo. Si decise di affrontare la trasferta in nave, con una traversata di quindici giorni, beccheggiante per il cattivo umore del mare. Giunti alla meta, gli italiani, già stremati per i festeggiamenti asfissianti dei 150.000 emigrati (che si producevano in munifiche gare di generosità: uno regalò ai giocatori decine di paia di scarpe), ebbero la ciliegina di un albergo nel centro di San Paolo dove, la sera prima della partita con la Svezia, era in pieno svolgimento la festa di San Giovanni, un carosello di botti più effervescente di Piedigrotta. Subito eliminati, gli italiani riconsegnarono mestamente la Coppa Rimet della quale erano detentori e che il presidente Barassi, durante i giorni dell’occupazione tedesca a Roma, aveva nascosto sotto il letto per timore che le ss la trafugassero.
La federazione perseverò nell’incongrua scelta di affidare la conduzione della squadra a dirigenti anziché ad allenatori, sostituendo Novo con lo sbiadito e introverso Carlino Beretta, il padrone dell’industria di armi. Quando anch’egli consumò le sue cartucce venne finalmente scelto un selezionatore competente nel magiaro Lajos Czeizler, ma gli esiti furono altrettanto modesti e l’Italia non evitò un’altra precoce eliminazione ai mondiali del 1954. Czeizler perpetuò gli errori dei predecessori, imbottendo la squadra di centravanti e spostando molti giocatori dalla posizione che abitualmente occupavano nelle formazioni di club. Ma al di là dei vizi del manico, il football nazionale attraversava una grave crisi tecnica. L’ondata di stranieri aveva impoverito il vivaio nazionale; dal punto di vista tattico, poi, il calcio italiano, che negli anni fascisti aveva così ben interpretato il metodo, appariva (salvo l’eccezionale parentesi del Torino) refrattario al sistema, che adottava con incertezze e inopportune contaminazioni.
Dall’affluenza dei giocatori stranieri, allora, si cercò di trarre vantaggio facendo indossare la maglia azzurra agli oriundi, che arrivarono a costituire metà squadra. Ma trapiantati dai paesi d’origine i giocatori non potevano nutrire particolare attaccamento per la maglia. E così, benché avesse «acquistato» il tandem Ghiggia-Schiaffino, asse portante della nazionale uruguaiana campione del mondo nel 1954, la squadra azzurra non riuscì neppure a qualificarsi per la fase finale dei mondiali del 1958, eliminata dall’Irlanda.
Onesti, arrabbiatissimo, affermò pubblicamente che «la nazionale di calcio rimane la più mediocre e fiacca rappresentativa che lo sport italiano possa esprimere in qualsiasi settore».
Non molto meglio andarono le cose quattro anni dopo, in Cile. In quell’occasione gli italiani furono attorniati da un clima assai ostile, provocato dalla presenza degli oriundi che venivano, non a torto, additati come mercenari e traditori della patria (anzi, delle patrie) e dagli articoli del giornalista Antonio Ghirelli il quale, inviato in Sudamerica qualche giorno prima delle gare, aveva descritto severamente le condizioni sociali e civili del paese scatenando l’ira delle autorità e della popolazione. All’Italia, per di più, toccò giocarsi la qualificazione proprio con i padroni di casa. Il commissario tecnico Mazza, al termine di negoziati notturni con alcuni cronisti della carta stampata, mandò in campo una formazione indebolita nella creatività, rinunciando contemporaneamente a Sivori e a Rivera. L’incontro fu un succedersi di colpi proibiti da entrambe le parti, con il rilevante particolare che l’arbitro puniva soltanto quelli a danno dei cileni. Restati in nove per due espulsioni, gli azzurri capitolarono. Dopo quest’ennesima delusione si stabilì di chiudere le porte agli oriundi in nazionale.
La nazionale passò nelle mani di Edmondo Fabbri che si era segnalato per avere condotto, nel giro di poche stagioni, il Mantova dalla serie D alla A. Costui era un buon tecnico, un’ottima persona, ma era psicologicamente impreparato a resistere alle pressioni ambientali. Tale debolezza sarebbe emersa col tempo: all’inizio, Fabbri cercò di imprimere al gioco una connotazione offensiva, attraverso uno schema detto «fluidificazione», che comportava la rinuncia al libero spazza-area e al difensivismo che si era andato vieppiù affermando nelle squadre di rango. Per questa ragione nelle convocazioni sacrificò il blocco interista che mieteva successi in campo internazionale, ma in forza di un modulo tattico che Fabbri reputava incompatibile con le proprie idee. L’intenzione magari era anche buona, ma Fabbri non sempre si regolò con coerenza e talvolta, spaventato dalle critiche, ripiegò verso schieramenti rinunciatari non meno di quelli vituperati. Il caso volle che il momento di maggior grazia della formazione fosse proprio quello nell’imminenza dei mondiali d’Inghilterra nel 1966: nei quindici giorni precedenti l’Italia mise a segno diciannove reti in cinque partite e si accreditò, anche agli occhi degli osservatori stranieri, come una delle grandi pretendenti al titolo. Forse, però, gli azzurri erano entrati in forma troppo presto; nel girone apparvero subito appannati e, dopo una sconfitta con l’Urss, si trovarono nella necessità di dover vincere l’ultima partita del girone per accedere ai quarti di finale. L’avversario, in verità, pareva malleabile. Era la Corea del Nord, che aveva istituito la federazione calcio solo nel 1945 e che da appena otto anni aveva cominciato a disputare incontri internazionali. Gli osservatori di Fabbri descrivevano gli asiatici «undici Ridolini», a causa delle movenze goffe e frenetiche con le quali correvano per il campo. E íl 19 luglio 1966. L’Italia parte con buona autorità e il portiere coreano, nei primissimi minuti, salva la sua porta per due volte. Un tiro angolato di Rivera esce di un nulla. Il centravanti Perani si macchia di alcuni crimini sportivi, sprecando utili palle-gol. Poi al 42′ l’attaccante coreano Pak Doo Ik, approfittando di un errore di Rivera, scaglia un tiro improvviso e porta in vantaggio la sua squadra. Il pubblico britannico si diverte e sostiene gli outsider, che si dimostrano tutt’altro che sprovveduti nell’amministrare il risultato e sfiorano il raddoppio mentre l’Italia appare sempre più confusa. L’arbitro fischia la fine e si realizza una delle più clamorose sorprese nella storia del calcio. «Corea» da allora entra nel linguaggio comune al posto di «Caporetto» come sinonimo di disfatta senza attenuanti. La collera deforma la realtà e tramanda alla storia come ridicola una partita che, da parte azzurra, non fu certo esaltante ma nemmeno fortunata; e costruisce la favola della Corea composta da dilettanti che, la sera, dopo avere duramente lavorato nelle fabbriche, si riunivano per tirare allegramente quattro calci a un pallone. In realtà i coreani erano stati preparati alla manifestazione per due anni, prelevati dalle squadre in cui militavano, sotto-posti a un regime da caserma. Nacque anche la leggenda metropolitana che Pak Doo Ik fosse un dentista. Era un caporale dell’esercito, professore di educazione fisica, calciatore di mestiere; al massimo, una volta, s’era curato una carie.
Naturalmente, nella logica dei valori, era un incontro che l’Italia avrebbe dovuto vincere e Fabbri ci mise del suo, specialmente ostinandosi a tenere dentro giocatori infortunati, in particolare la mezzala Giacomo Bulgarelli il quale, definitivamente azzoppato dopo venti minuti, lasciò l’Italia in dieci, dato che il regolamento non consentiva sostituzioni. Il problema è che Fabbri voleva sentirsi circondato dai fedelissimi, perché la sua mente impressionabile lo aveva convinto di vivere in stato di assedio, alla portata di trame oscure. Infatti, dopo il rientro convocò una conferenza stampa e sostenne l’improbabile tesi di un complotto ordito dal vicepresidente Artemio Franchi e dal medico Fini per addormentare i giocatori in campo e provocare una disfatta al fine di costringere alle dimissioni il presidente della federazione Pasquale. Ciò rende la dimensione dell’isterismo con cui Fabbri visse la sua avventura, probabilmente risultando poco rassicurante e distensivo anche per i giocatori. Le accuse, in seguito vagamente ritrattate, ne determinarono il licenziamento in tronco.
In Italia la Corea venne vissuta come una ferita inferta all’orgoglio nazionale. Nei giorni successivi alla sconfitta il ministro del turismo venne bombardato dalle interrogazioni parlamentari, nelle quali si denunciava «la catena mercenaria in cui è avviluppato il calcio» e si lamentava «l’umiliazione di milioni di sportivi italiani». Si discostò dai toni apocalittici il presidente della repubblica Giuseppe Saragat che inviò alla Fígc, per telegramma, un raro bagliore d’intelligenza: «Al vostro rientro in patria dopo una sconfitta sportivamente subita giungavi il mio cordiale saluto insieme al sincero augurio per il più popolare sport italiano».
Estratto (da “Storia e storie dello sport in Italia“)
Nuvolari, Mussolini, Coppi, il miracolo economico, Maradona, la borghesia di inizio secolo, i caratteri degli italiani, il Coni, l’alpinismo, il doping, la violenza negli stadi… In questo libro, dai primi passi nell’Ottocento fino alla fine degli anni Novanta, lo sport viene trattato come osservatorio privilegiato per la comprensione di fenomeni sociali e culturali e fotografia della vita nazionale. Ma Storia e storie dello sport è anche una specie di romanzo collettivo in cui gli atleti e i personaggi sono narrati nei loro dati umani e tecnici, essenziali o piacevolmente inessenziali.
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