Il 24 luglio 1908, alle 14.30 di una giornata particolarmente torrida,
prendono il via i 56 partecipanti alla gara della maratona. Tra costoro c’è l’italiano Dorando Pietri. Ha fisico minuto, volto scavato, un paio di baffetti e addosso una brutta maglietta bianca e un pantaloncino rosso, sul capo un fazzoletto piegato ai quattro angoli come i vecchi pirati, in mano una spugna imbevuta d’aceto balsamico per passarsela sulla fronte o sulle labbra.
Si è allenato girando per ore in tondo sotto i portici della città dove lavora come garzone di pasticceria, Carpi. L’aveva visto fare nel 1903 a un tale Pericle Pagliani, campione italiano di maratona in quell’epoca, che un bel giorno era giunto nella piazza e, tracciato un segno di gesso dal caffè del teatro al castello, aveva cominciato a correre lungo l’insolito tragitto mentre un suo amico girava tra gli attoniti passanti con un piattino, affinché costoro onorassero lo spettacolo con qualche spicciolo.
I più veloci alla partenza olimpica sono i favoriti sudafricani e il canadese Longboat. Costui dosa male le forze e al ventesimo chilometro mostra segni di cedimento. I suoi tecnici sono ancora ignari delle cognizioni igieniste che, in merito all’alcool, sconsigliano di andare oltre un bicchierino ai pasti: per risolvergli i problemi di disidratazione gli passano una bottiglia di champagne che l’atleta tracanna avidamente in poche sorsate per poi sdraiarsi sul prato, definitivamente fuori dalla contesa. Ai trenta chilometri, sfiancatisi anche i sudafricani, Dorando Pietri, col suo sgraziato passo ad anca bassa, è al comando. Il vantaggio sugli inseguitori aumenta. A un certo punto chiede a uno spettatore lungo la strada quanto manchi al traguardo e quello gli risponde che ci sono solo due chilometri. In realtà sono il doppio e l’allungo di Pietri risulta prematuro. Ma a succhiarne l’energia residua è una crisi dovuta alla stricnina che aveva assunto, di nascosto ma come tutti i corridori di allora.
Quando entra nello stadio lo accoglie l’ovazione di 75.000 persone. Di sicuro Pietri non la sente nemmeno. Invece di girare a destra sulla pista, va dal lato opposto, poi cade, viene soccorso, si rialza con gli occhi stralunati e penosamente riprende quello che ormai è un calvario. Dorando non corre più: ondeggia, pencola, s’ingobbisce. E aquilone senza filo, fiera ferita, vela senza vento. Gli ultimi metri li percorre sorretto dal megafonista, preoccupato anche di evitare che cada con la testa per terra. Dopo il traguardo si accascia: quel giro di pista ha richiesto dieci minuti. La folla, in delirio, piange commossa. Fischia la giuria che lo squalifica perché è stato aiutato a terminare la gara e fischia lo statunitense Hayes, che viene promosso al primo posto. Pietri quasi entra in coma.
Dopo 24 ore, ripresosi miracolosamente, si gode il suo trionfo, ampiamente superiore a quello che avrebbe ottenuto in caso di vittoria. La regina Alessandra, che dopo l’arrivo dell’italiano era svenuta, gli dona una coppa colma di sterline. E mentre, acclamatissimo, il magnifico sconfitto compie un giro di pista, dagli spalti piovono fiori, un braccialetto d’oro e perfino una lettera con una proposta di matrimonio che egli, il giorno dopo, rifiuta cortesemente a mezzo di un quotidiano britannico, specificando che «il suo cuore non è libero». Arthur Conan Doyle, l’inventore di Sherlock Holmes, avvia una sottoscrizione a suo favore. Il famoso compositore americano Irving Berlin scrive una canzone che chiama Durando. Per la prima volta la stampa italiana offre grande risalto a un avvenimento sportivo.
Tornato a casa, Pietri riceve decine di lettere di organizzatori di corse che lo vogliono ingaggiare e che, non conoscendo il suo indirizzo, hanno scritto sulla busta semplicemente «Dorando Pietri – Marathon’s runner». Anche il leggendario maratoneta, tuttavia, sarà uno scadente amministratore del suo patrimonio. Cessata l’attività, tornerà ad adattarsi a mestieri umili e, sotto il fascismo, farà l’autista.
Muore a Sanremo nel 1942. In Italia pochi lo ricordano ma in Inghilterra è ancora un mito. Alle Olimpiadi di Londra, nel 1948, lo vorrebbero alla manifestazione inaugurale e ne chiedono il recapito al governo italiano e al Coni. Della sua esistenza in vita sono sicuri, tratti in inganno dal fatto che a Birmingham un vecchio ubriacone si è a lungo spacciato per lui. Quando dall’Italia rispondono che è morto da sei anni, gli inglesi, che ancora vedono il nostro popolo come il fumo negli occhi e hanno cercato di escluderci dalle Olimpiadi, si convincono una volta di più che gli italiani sanno solo mentire. Una foto della lapide, inviata a Londra, chiuderà l’incidente.
Estratto (da “Storia e storie dello sport in Italia“)
Nuvolari, Mussolini, Coppi, il miracolo economico, Maradona, la borghesia di inizio secolo, i caratteri degli italiani, il Coni, l’alpinismo, il doping, la violenza negli stadi… In questo libro, dai primi passi nell’Ottocento fino alla fine degli anni Novanta, lo sport viene trattato come osservatorio privilegiato per la comprensione di fenomeni sociali e culturali e fotografia della vita nazionale. Ma Storia e storie dello sport è anche una specie di romanzo collettivo in cui gli atleti e i personaggi sono narrati nei loro dati umani e tecnici, essenziali o piacevolmente inessenziali.
Scrivi un commento